Marco Cedolin
CRESCITA E DECRESCITA
Una persona felice non consuma
antidepressivi, non consulta psichiatri, non tenta di suicidarsi, non
rompe le vetrine dei negozi, non acquista continuamente oggetti costosi
e inutili, insomma, partecipa solo marginalmente all’attività economica
della società. - Hervé Martin
Lo “sviluppo” è simile ad una stella morta, di cui ancora percepiamo la luce, anche se si è spenta da tempo, e per sempre. - Gilbert Rist
Non si tratta assolutamente di tornare indietro, si tratta di deviare collettivamente, prima che sia troppo tardi per farlo. - Paul Aries
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a) LA CRESCITA INFINITA
Il tema dell’Alta Velocità, oltre ad evidenziare in maniera
definita i legami indissolubili che saldano fra loro le grandi
oligarchie di potere, coese intorno ad un obiettivo unico che è
costituito dalla ricerca sistematica del profitto, ci porta ad alcune
riflessioni di più ampio respiro concernenti la gestione delle
risorse e del territorio in una società complessa come quella
contemporanea.
La gestione di tipo capitalista delle risorse economiche, finanziarie,
sociali ed ambientali, propria dei sistemi politici occidentali si sta
ormai diffondendo sempre più in tutti i paesi del mondo, in
seguito ad un fenomeno di globalizzazione che tende ad uniformare le
varie specificità nazionali, appiattendole su di un unico
modello gestionale.
Al modello capitalista della borghesia industriale che accumulava
profitto costruendo ricchezza si è sostituito quello del
capitalismo di rapina che accumula profitti con la speculazione, la
sopraffazione militare, la devastazione ambientale.
L’occidentalizzazione del mondo e il conformismo planetario impongono
il saccheggio senza freni della natura e la distruzione di tutte le
culture differenti.
La logica del profitto assurta a monovalore assoluto, l’esasperata
tendenza al gigantismo, la concentrazione delle ricchezze nelle mani di
una cerchia sempre più ristretta di persone, l’abitudine a
monetizzare ogni aspetto della realtà che ci circonda,
l’assoluta incapacità di rapportarci con la natura, il prevalere
del nozionismo sulla cultura, del vociare scomposto sull’ascolto, della
violenza sul dialogo, sono solo alcuni aspetti della nostra
società contemporanea.
La grande imprenditoria industriale, economica e finanziaria è
stata oggetto di concentrazioni sempre più massicce (fusioni,
incorporazioni ecc.) che hanno avuto la conseguenza di creare veri e
propri colossi transnazionali (Corporation, Multinazionali) che sono in
grado di controllare tanto i mercati quanto le scelte politiche dei
singoli governi.
La tendenza esasperata alle privatizzazioni ha permesso ai grandi
poteri privati di subentrare sempre più allo Stato nella
gestione della cosa pubblica, a tutto svantaggio della
collettività che sta pagando il conto sotto forma di maggiori
costi dei servizi e minore qualità degli stessi.
Tutto ciò che risulta essere “piccolo” è stato liquidato
come arcaico, inutile, desueto, sacrificabile, in ossequio ad una
logica distorta che pone il “grande” come unico esempio di
modernità, progresso, futuro.
Le piccole attività commerciali sono così diventate prima
grandi magazzini e poi ipermercati, i negozi si sono trasformati in
grandi catene di franchising, le piccole banche in grandi gruppi
bancari, i piccoli coltivatori e allevatori hanno lasciato il posto
alle grandi coltivazioni e ai grandi allevamenti a sfruttamento
intensivo, i cinema alle multisala, la piccola imprenditoria edile
è stata fagocitata dalle grandi imprese di costruzione, le quali
a loro volta sono confluite in grandi gruppi o cooperative. Gli esempi
potrebbero essere migliaia e ribadiscono sempre il concetto secondo il
quale solo ciò che è grande può essere funzionale
ad un modello di sviluppo basato su una logica che privilegia la
dimensione e non la qualità.
Si tratta di una società dove ogni cosa è funzionale al
mito della crescita, che visualizza gli uomini esclusivamente come
produttori e consumatori, il consumo non risponde più alla
soddisfazione di un bisogno, ma si caratterizza soprattutto come un
mezzo di produzione. Quando le persone non percepiscono il bisogno di
merci o servizi, è necessario che detto bisogno sia prodotto
artificialmente attraverso l’uso (e l’abuso) della pubblicità.
Una società sacrificata al progresso, inteso come enfatizzazione
della produzione, dove l’accrescimento degli scambi commerciali e del
volume dei beni prodotti, rappresenta un valore di per sé, senza
tenere nella minima considerazione le qualità dei beni e le
conseguenze della loro produzione sulla socialità, sull’ambiente
e sul vivere quotidiano di noi tutti.
Le conseguenze di tutto ciò sono sotto gli occhi di ciascuno di
noi, il tessuto sociale è stato violentato in profondità,
il piccolo commercio e la piccola imprenditoria (fiori all’occhiello
della nostra economia nel periodo dell’espansione) hanno praticamente
cessato di esistere, il libero mercato si è trasformato in una
sorta di oligopolio controllato dalle multinazionali e il mondo del
lavoro si sta trasformando ogni giorno di più in una terra di
nessuno dove dominano la precarietà, l’incertezza e la
disperazione.
Anche il linguaggio sta cambiando in profondità, le parole non
hanno più una valenza specifica funzionale al proprio contenuto,
ma sono diventate gusci vuoti privati di un significato intrinseco,
adatti non a rappresentare un concetto ma semplicemente a soggiogare
emotivamente l’interlocutore.
Quante volte guardando la televisione o leggendo i giornali
c’imbattiamo in concetti quali “strategicità di un’opera”,
“necessità di sviluppo”, “funzionale agli obiettivi di
crescita”, “indispensabile alla ripresa economica”,
“democraticizzazione di un popolo”, “recupero di competitività”,
“maggiore flessibilità”, “mercato globale”, “grandi
infrastrutture d’importanza internazionale”.
Si tratta di frasi fatte, luoghi comuni, esternazioni ad effetto che
pur essendo prive di un reale significato sortiscono comunque il
risultato voluto, poiché tendiamo ad essere influenzati dalla
ridondanza del concetto, senza preoccuparci di scavare nel suo
contenuto. Chi ha fatto l’esternazione non sarà mai in grado di
spiegarci perché quella determinata opera è strategica o
le motivazioni della necessità di sviluppo, oppure le ragioni
per le quali una decisione è funzionale agli obiettivi di
crescita o indispensabile alla ripresa economica. Nessuno sarà
in grado di spiegarci come sia possibile esportare la democrazia, cosa
significhi realmente recuperare competitività, quale sia
l’importanza internazionale di un’infrastruttura o perché sia
indispensabile avere maggiore flessibilità e quali siano i
parametri di un mercato globale.
Nonostante ciò noi avremo metabolizzato l’importanza prioritaria
ed imprescindibile del concetto, accettandolo come necessario ed
indispensabile.
Un altro esempio del condizionamento che ogni giorno ci viene imposto
tramite l’uso improprio delle parole è costituito da quei
termini che vengono usati come sinonimo di modernità, pur non
avendo di per se stessi alcuna valenza specifica.
Veloce, grande, globale, sostenibile, internazionale, imprescindibile,
strategico, europeo, progresso, futuro, sviluppo, nuovo, crescita,
competitività, prioritario, sono tutti termini che vengono con
violenza ripetuti dai media in maniera martellante e ossessiva per dare
ai concetti più svariati una patente di buono, bello e moderno.
E ancora “sviluppo sostenibile”, “ecologia industriale”, “crescita
verde”, “produzione pulita”, “economia solidale”, “guerra pulita”,
“globalizzazione dal volto umano”, sono tutte contraddizioni in termini
che rivelano il tentativo di attribuire una funzione ecologica o
sociale ad elementi che per la loro stessa natura mai potrebbero
vantarla.
Costruendo il mito dell’onnipotenza della tecnica, sia essa scientifica
o economica, si cerca di proporre come rimedio la causa stessa della
malattia, nell’ottica di una visione riduttiva e regressiva dell’uomo,
inteso solo come consumatore, tubo digerente e ingranaggio della
macchina produttiva.
Ho aperto questa piccola parentesi concernente il linguaggio
perché proprio attraverso di esso i grandi poteri politici
economici e finanziari tentano di veicolare quello della crescita
infinita come l’unico modello di sviluppo possibile e praticabile.
In realtà questa sorta di oligarchia preposta a prendere le
decisioni e operare le scelte è talmente preoccupata ed
ossessionata dall’obiettivo di mantenere la propria posizione di
preminenza sociale, da avere perso ogni contatto con il mondo reale,
con le persone, con il territorio e l’ambiente.
Gli oligarchi che accusano di arretratezza i cittadini della Valle di
Susa, di Acerra, di Scanzano, di Forlì, definendoli nemici del
progresso hanno solamente paura di guardare negli occhi il nuovo che
avanza.
Sono piccoli anacronistici retaggi del passato, ricchi e potenti
cavernicoli imbalsamati che non riescono ad immaginare il futuro se non
come il perpetuarsi sistematico del passato. Tentano d’imporre con i
manganelli e la prevaricazione un modello di sviluppo ispirato alla
crescita infinita, senza tenere conto della realtà oggettiva che
le risorse, la terra e l’ambiente sono realtà finite che pongono
limiti invalicabili.
Scavano nuovi tunnel, costruiscono nuove strade, nuovi viadotti, nuovi
ponti, nuove ferrovie, fingendo d’ignorare il fatto che l’unico tunnel
dal quale dovremmo seriamente preoccuparci di uscire è quello
del disastro ecologico/ambientale che abbiamo innescato attraverso il
perseguimento di un progresso insensato che ci ha portato a fagocitare
la natura e l’ambiente.
Parlano d’incrementi esponenziali del traffico, di milioni di
tonnellate di merci, di raddoppio della produzione, senza rendersi
conto che i cittadini quelle merci non potranno mai acquistarle
perché grazie alle loro scelte non guadagnano più
abbastanza nemmeno per arrivare alla fine del mese.
Immaginano un mondo nel quale si moltiplichi all’infinito il numero
delle auto circolanti, dei camion, dei treni, delle navi, delle merci,
delle industrie, dei grattacieli, delle centrali nucleari e
termoelettriche, degli oleodotti, dei tralicci elettrici, delle antenne
TV, dei beni di consumo, ma dimenticano che il mondo è finito,
come il petrolio e la capacità del sistema ambiente di sopperire
alla devastazione. Fra poco non ci saranno più prati da
cementare, colline da spianare, montagne da perforare, terreni da
asfaltare, fiumi da inquinare, aria da soffocare e mancherà
anche il combustibile per fare funzionare le trivelle, le frese, le
locomotive, i motori, i martelli pneumatici, le gru, le fabbriche.
Vaneggiano di progresso ma stanno costruendo una civiltà
frenetica, priva di valori, votata all’ipercinetismo, all’insicurezza,
alla precarietà, alla paura del futuro.
Perseguono la velocità degli spostamenti ed ignorano quella
pensiero, costruiscono treni ed auto sempre più veloci, senza
accorgersi che se non ci si ferma un attimo a riflettere fra poco non
ci sarà più nessun posto in cui andare.
Guardano al mondo come ad una materia prima ed osteggiano coloro che
riescono a vederlo come un organismo vivente, guardano alle persone
come a delle risorse e le manganellano quando prendono coscienza di
sé e chiedono di poter decidere del proprio futuro.
Inseguono un modello di sviluppo che in realtà non riesce
più a progredire ma sta sortendo il solo effetto di riportare
indietro la qualità della vita di tutti.
Sono loro gli arretrati, i nemici del progresso, i dinosauri
incartapecoriti, non gli abitanti della Valle di Susa e tutti coloro in
Italia e nel mondo che stanno prendendo coscienza di come questa non
sia la strada giusta, in quanto destinata a non portare da nessuna
parte.
Sono loro che guardano senza vedere e ascoltano senza sentire,
impegnati a perpetuare l’unica logica che conoscono, quella delle
speculazioni, dei giochi di potere, delle scalate societarie, degli
intrighi di palazzo, della malversazione.
b) DECRESCITA E FUTURO
Una società sana adatta il proprio stile di vita all’ambiente
che la circonda, la stortura del nostro sistema attuale consiste invece
nella pretesa di adattare l’ambiente al proprio stile di vita,
assalendolo e violentandolo, senza minimamente preoccuparsi delle
conseguenze derivanti da queste violenze che non si ripercuotono
solamente in termini di devastazione ambientale, ma anche di giustizia
ed equilibrio sociale, dimostrando come sopravvivenza biologica e
sopravvivenza sociale siano elementi indissolubilmente legati fra loro.
L’unica strada percorribile passa attraverso il superamento dei
concetti di modernità e di sviluppo, in quanto essi contengono
implicitamente la volontà di mercificare i rapporti fra le
persone e con la natura. Non possiamo, come scrive Nicholas Georgescu –
Roegen, produrre frigoriferi, automobili o aerei migliori e più
grandi, senza produrre anche dei rifiuti migliori e più grandi
che contribuiranno ad accentuare i termini del problema.
Occorre necessariamente accostarsi ad un concetto di decrescita, intesa
non come recessione o impoverimento, bensì come un’occasione per
tutti, che sia funzionale ad un nuovo tipo di società, nella
quale la qualità della vita, il tempo libero, le relazioni
sociali, siano valorizzati e prevalgano sulla produzione e sul consumo
di prodotti inutili e nocivi.
Una società nella quale i valori economici siano ricollocati
nella loro giusta funzione di semplice mezzo della vita umana e
abbandonino quella posizione di assoluta centralità che li porta
a rappresentare il fine ultimo della nostra esistenza.
La prospettiva della decrescita, accettata e meditata, non si pone come
antagonista al mito della crescita, ormai senza futuro in quanto
vittima delle sue stesse contraddizioni, bensì come alternativa
alla recessione che sarebbe inevitabile conseguenza di un risultato di
crescita negativa (che già oggi abbiamo iniziato a sperimentare)
applicato ad una società che identifica nella crescita economica
l’unico monovalore assoluto.
Entrare nell’ottica della decrescita significa innanzitutto aggiogarsi
dall’immaginario economico che la pubblicità e le regole del
modello consumistico hanno instillato nella nostra mente. Un
immaginario che mette i beni di consumo e non la persona al centro
della nostra esistenza e c’impone di ricercare il benessere e la
felicità solo attraverso il successo economico, la competizione,
il possesso delle cose.
Il benessere e la felicità si possono realizzare attraverso la
soddisfazione di una quantità limitata di bisogni reali,
anziché attraverso il soddisfacimento illusorio di un’infinita
miriade di bisogni effimeri e indotti dal modello culturale dominante.
La vera ricchezza e la vera gioia allignano nella costruzione di
relazioni sociali conviviali, nel godimento del tempo liberato, nella
riscoperta della nostra natura umana, piuttosto che nella nevrotica
bulimia che ci porta a fagocitare senza sosta quantità
sempre maggiori di beni materiali, nel vano tentativo di riempire quei
vuoti esistenziali che devastano la nostra interiorità. Come
sottolinea Hervé Martin, “Una
persona felice non consuma antidepressivi, non consulta psichiatri, non
tenta di suicidarsi, non rompe le vetrine dei negozi, non acquista
continuamente oggetti costosi e inutili, insomma, partecipa solo
marginalmente all’attività economica della società”.
Liberarsi dai condizionamenti psicologici che decenni di cultura
dominante, ispirata al mito della crescita per la crescita e del
progresso inteso come consumo e ragione ultima della nostra esistenza,
hanno costruito nel nostro intimo è prerogativa imprescindibile.
Questo poiché sarebbe impensabile immaginare un progetto di
decrescita che si inneschi su un modello di società come quello
attuale, imperniato esclusivamente sull’economia, sul lavoro e sul
capitale. La popolazione, posta nell’impossibilità di perseguire
l’enorme mole di stimoli indotti, non necessari ma percepiti come tali,
perderebbe ogni punto di riferimento e si costruirebbero le prerogative
per una situazione di caos sociale dalle conseguenze catastrofiche.
Solamente anteponendo nuovi valori a quelli attualmente dominanti e
decolonizzando le nostre menti dall’egemonia che concetti come crescita
e sviluppo detengono nel nostro immaginario, sarà possibile
concepire e realizzare una società di decrescita serena,
antitetica a quella dell’economia.
La cooperazione dovrebbe prevalere sulla competizione sfrenata,
l’altruismo sull’egoismo, il piacere dello svago e dell’accrescimento
culturale sull’ossessione del lavoro, l’importanza della vita sociale
sul consumo illimitato, il gusto per la qualità del nostro
operato sull’efficientismo produttivista, il ragionevole sul razionale,
il piccolo sul grande e così via.
A questo punto sarebbe possibile pianificare la decrescita, ridurre al
massimo l’impatto ambientale derivante dall’attività umana,
ridimensionare l’enorme mole di spostamenti di uomini e merci e tutte
le loro conseguenze negative, eliminare l’eccessiva invadenza della
macchina pubblicitaria, contrastare la pratica che accelera
artificialmente l’obsolescenza dei manufatti e la diffusione dei
prodotti usa e getta, perseguire un nuovo rapporto, d’interscambio e
non di aggressione fra l’uomo e la natura e fra uomo e uomo.
Il passaggio da una società capitalista, imperniata sul consumo
e figlia del mito della crescita e dello sviluppo, ad una
società più sobria e consapevole, votata ad una
decrescita serena che armonizzi i nostri bisogni e le nostre
attività con l’ambiente che ci circonda, riconoscendo la
realtà oggettiva che le risorse naturali e il sistema terra sono
entità finite e non possono perciò venire depauperate e
violentate senza che ci si ponga dei limiti, è una sfida
estremamente ambiziosa e delicata che non può essere affrontata
con superficialità. Al tempo stesso si tratta di un passaggio
obbligato se vogliamo scendere dolcemente e lentamente il declivio in
maniera costruttiva, serena e non traumatica, anziché
sprofondare con violenza nel baratro che ormai si pone minaccioso
dinanzi ai nostri occhi.
Nessuna scelta in questo senso potrà mai provenire
dall’oligarchia di potere dominante, interessata esclusivamente al
perseguimento del profitto che trova possibilità di concretarsi
solo in una società basata sull’incremento continuo della
crescita e dei consumi.
La spinta verso il cambiamento dovrà avvenire necessariamente
dal basso, dalla gente comune, dai cittadini, che iniziano a percepire
la condizione di disagio all’interno delle loro realtà
personali. La protesta contro la TAV in Valle di Susa e molte altre
situazioni ad essa assimilabili, testimoniano un primo tentativo ancora
in fase embrionale di esternare questo disagio e collocarlo al di fuori
del microcosmo locale e personale nel quale è nata la
percezione. Proprio per questa ragione occorre guardare a questi
fenomeni, cercando di leggerli in profondità, con l’occhio
disincantato di chi riesce a concepire il futuro come un qualcosa di
diverso che non sia necessariamente una serie infinita di repliche del
presente.
Marco Cedolin
Crescita e decrescita è un capitolo tratto dal libro di Marco Cedolin "TAV - In val di Susa", pubblicato da Macroedizioni. Ne è permessa la
riproduzione, limitatamente alla Rete, purchè a) vengano citati
Autore e fonte, b) il pezzo rimanga inalterato e venga riprodotto per
intero. (Tutti gli altri diritti riservati.)
T.A.V. in Val di Susa
Un buio tunnel nella Democrazia
Autore: Marco Cedolin,
Prezzo: €10,50
Prefazione di Massimo Fini
I
progetti, i costi e i benefici della costruzione delle linee
ferroviarie per i treni ad Alta Velocità/Capacità, una serie di opere
faraoniche inutili dal punto di vista economico, ecologico e
strategico.
|
Di Marco Cedolin vedi anche:
Le grandi dighe rappresentano, forse meglio di qualsiasi altra
faraonica infrastruttura, l’ambizione di dominio dell’uomo moderno che
ha relegato la natura nel ruolo improprio di “nemico” da soggiogare,
sconfiggere, umiliare a proprio piacimento. La costruzione di una
grande diga implica sempre lo stravolgimento (tanto più intenso quanto
più grande è l’opera) di vastissimi territori, la cui realtà verrà
modificata in profondità dal punto di vista ambientale, economico,
sociale e climatico, con risultati spesso catastrofici tanto nel breve
quanto nel lungo periodo.
La diga delle Tre Gole che sorge nella
provincia cinese dello Hubei e sbarra il flusso dello Yangtze (il
grande fiume azzurro) è stata inaugurata nel mese di giugno 2006.
Soprannominata “la Grande Muraglia” del terzo millennio è alta 185
metri (come la Torre Eiffel) e lunga quasi 2,5 km, una volta a regime
nel 2009 le sue 26 megaturbine produrranno 84,7 miliardi di kilowattora
ogni anno (l’equivalente di una ventina di centrali nucleari) e
forniranno circa il 10% della richiesta energetica del paese. (continua)
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Al posto del TAV, nasce la solidarietà
Più veloci di che cosa?
Quando i caprioli danneggiano l'ambiente
Incubo TAV
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IL PRODOTTO NAZIONALE LORDO - SECONDO BOB KENNEDY
"Non troveremo mai un fine per la
nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero
perseguimento
del benessere economico, nell'ammassare senza fine beni terreni.
Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell'indice
Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto
nazionale
lordo. Il prodotto nazionale lordo comprende anche l'inquinamento
dell'aria e
la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le
nostre
autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
Il prodotto nazionale lordo mette nel conto le serrature speciali per
le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di
forzarle. Comprende la distruzione delle sequoie e la morte della fauna
nel Lago Superiore. Comprende programmi televisivi che valorizzano la
violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la
produzione di napalm, missili e testate nucleari, e comprende anche la
ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica.
[Siamo nel 1968 - ndr]
Il prodotto nazionale lordo si accresce con gli equipaggiamenti che la
polizia usa per sedare le rivolte nelle nostre città, e non fa
che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi
popolari.
E se il prodotto nazionale lordo comprende tutto questo, non calcola
però molte altre cose. Non tiene conto della salute delle nostre
famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei
loro
momenti di svago. E' indifferente alla decenza del luogo di lavoro o
alla sicurezza nelle
nostre strade. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la
solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro
dibattere o
l'onestà dei nostri pubblici dipendenti.
Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali,
né dell'equità
nei rapporti fra di noi. Il prodotto nazionale lordo non misura
né la
nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra
saggezza né la
nostra conoscenza, né la nostra compassione né la
devozione al nostro
paese.
Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente
degna
di essere vissuta. Può dirci tutto sull'America, ma non se
possiamo
essere orgogliosi di essere americani."
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