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1 Utenti anonimi
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Slobbysta |
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Re: L'angolo della letteratura | #91 |
Dubito ormai di tutto
Iscritto il: 23/7/2013
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Ratzinger ..santo subito...
Consiglierei questo libro ..abbastanza completo.. Il Corpo Sottile - Libro La Grande Enciclopedia dell'Anatomia Energetica / macro edizioni
Slobbysta
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Slobbysta |
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Re: L'angolo della letteratura | #92 |
Dubito ormai di tutto
Iscritto il: 23/7/2013
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doktorenko |
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Re: L'angolo della letteratura | #93 |
Dubito ormai di tutto
Iscritto il: 7/8/2009
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"Il Potere ha deciso che siamo tutti uguali".
L'ansia del consumo è un'ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l'ansia, degradante,di essere uguale agli altri nel consumare, nell'essere felice, nell'essere libero: perché questo è l'ordine che egli ha incosciamente ricevuto,e a cui "deve" obbedire, a patto di sentirsi diverso. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L'uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una "falsa" uguaglianza ricevuta in regalo. Una delle caratteristiche principali di questa uguaglianza dell'esprimersi vivendo, oltre alla fossilizzazione del linguaggio verbale, è la tristezza: l'allegria è sempre esagerata, ostentata, aggressiva, offensiva. La tristezza fisica di cui parlo è profondamente nevrotica. Essa dipende da una frustrazione sociale. Ora che il modello sociale da realizzare non è più quello della propria classe, ma imposto dal potere, molti non sono appunto in grado di realizzarlo. E ciò li umilia orrendamente... Non è la felicità che conta? Non è per la felicità che si fa la rivoluzione? Oggi , questa felicità - con lo Sviluppo- è andata perduta. Ciò significa che lo Sviluppo non è in nessun modo rivoluzionario, neanche quando è riformista. Esso non dà che angoscia.
Pier Paolo Pasolini
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Nomit |
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Re: L'angolo della letteratura | #94 |
Dubito ormai di tutto
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doktorenko |
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Re: L'angolo della letteratura | #95 |
Dubito ormai di tutto
Iscritto il: 7/8/2009
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La poesia della tradizione Oh generazione sfortunata! Cosa succederà domani, se tale classe dirigente - quando furono alle prime armi non conobbero la poesia della tradizione ne fecero un'esperienza infelice perché senza sorriso realistico gli fu inaccessibile e anche per quel poco che la conobbero, dovevano dimostrare di voler conoscerla sì ma con distacco, fuori dal gioco. Oh generazione sfortunata! che nell'inverno del '70 usasti cappotti e scialli fantasiosi e fosti viziata chi ti insegnò a non sentirti inferiore - rimuovesti le tue incertezze divinamente infantili - chi non è aggressivo è nemico del popolo! Ah! I libri, i vecchi libri passarono sotto i tuoi occhi come oggetti di un vecchio nemico sentisti l'obbligo di non cedere davanti alla bellezza nata da ingiustizie dimenticate fosti in fondo votata ai buoni sentimenti da cui ti difendevi come dalla bellezza con l'odio razziale contro la passione; venisti al mondo, che è grande eppure così semplice, e vi trovasti chi rideva della tradizione, e tu prendesti alla lettera tale ironia fintamente ribalda, erigendo barriere giovanili contro la classe dominante del passato la gioventù passa presto; oh generazione sfortunata, arriverai alla mezza età e poi alla vecchiaia senza aver goduto ciò che avevi diritto di godere e che non si gode senza ansia e umiltà e così capirai di aver servito il mondo contro cui con zelo «portasti avanti la lotta»: era esso che voleva gettar discredito sopra la storia - la sua; era esso che voleva far piazza pulita del passato - il suo; oh generazione sfortunata, e tu obbedisti disobbedendo! Era quel mondo a chiedere ai suoi nuovi figli di aiutarlo a contraddirsi, per continuare; vi troverete vecchi senza l'amore per i libri e la vita: perfetti abitanti di quel mondo rinnovato attraverso le sue reazioni e repressioni, sì, sì, è vero, ma sopratutto attraverso voi, che vi siete ribellati proprio come esso voleva, Automa in quanto Tutto; non vi si riempirono gli occhi di lacrime contro un Battistero con caporioni e garzoni intenti di stagione in stagione né lacrime aveste per un'ottava del Cinquecento, né lacrime (intellettuali, dovute alla pura ragione) non conosceste o non riconosceste i tabernacoli degli antenati né le sedi dei padri padroni, dipinte da - e tutte le altre sublimi cose non vi farà trasalire (con quelle lacrime brucianti) il verso di un anonimo poeta simbolista morto nel la lotta di classe vi cullò e vi impedì di piangere: irrigiditi contro tutto ciò che non sapesse di buoni sentimenti e di aggressività disperata passaste una giovinezza e, se eravate intellettuali, non voleste dunque esserlo fino in fondo, mentre questo era poi fra i tanti il vostro dovere, e perché compiste questo tradimento? per amore dell'operaio: ma nessuno chiede a un operaio di non essere operaio fino in fondo gli operai non piansero davanti ai capolavori ma non perpetrarono tradimenti che portano al ricatto e quindi all'infelicità oh sfortunata generazione piangerai, ma di lacrime senza vita perché forse non saprai neanche riandare a ciò che non avendo avuto non hai neanche perduto: povera generazione calvinista come alle origini della borghesia fanciullescamente pragmatica, puerilmente attiva tu hai cercato salvezza nell'organizzazione (che non può altro produrre che altra organizzazione) e hai passato i giorni della gioventù parlando il linguaggio della democrazia burocratica non uscendo mai della ripetizione delle formule, ché organizzar significar per verba non si poria, ma per formule sì, ti troverai a usare l'autorità paterna in balia del potere imparlabile che ti ha voluta contro il potere, generazione sfortunata! Io invecchiando vidi le vostre teste piene di dolore dove vorticava un'idea confusa, un'assoluta certezza, una presunzione di eroi destinati a non morire - oh ragazzi sfortunati, che avete visto a portata di mano una meravigliosa vittoria che non esisteva! Citazione: So anche che ci sono dei lettori che, di un libro di poesie, ne leggono solo una: in tal caso consiglierei "La poesia della tradizione". Chi è la persona che ha scritto questo libro? Non lo so bene. Comunque essa è stata certamente guidata da una mezza dozzina di "principi" dettati da chissà che istinto. Il primo di questi principi è stato quello di resistere contro ogni tentazione di letteratura-azione o letteratura-intervento: attraverso l'affermazione caparbia, e quasi solenne, dell'inutilità della poesia. Il secondo principio di tale persona è stato quello di non temere l'attualità (in nome di qualcos'altro che la vanifica, e in cui peraltro essa crede). Il terzo principio è stato quello di concedersi una certa libertà linguistica rasentante talvolta l'arbitrarietà e il gioco (cose in precedenza mai avvenute, perché le sue mistificazioni furono sempre ingenue, appassionate e zelanti). Il quarto principio è stato quello di considerare fatale da parte sua la rassegnazione di fronte al persistere dell"oxymoron", o della "sineciosi" (vedi "Sineciosi della diaspora"). Il quinto principio è consistito nella scoperta, quasi improvvisa, che la libertà è "intollerabile" all'uomo (specialmente giovane), che si inventa mille obblighi e doveri per non viverla. Il sesto principio (molto meno importante) è consistito nel non voler fare di tutti i principi sopraddetti, e di una forma di fedeltà a se stessa, necessaria ad adempiersi, un contributo alla restaurazione. Su tutto è sempre prevalsa l'idea, disperata ma rassegnata, che la propria vita si fosse rimpicciolita: ma che comunque fosse aumentato il piacere di vivere, in ragione della materiale diminuzione del futuro. Pier Paolo Pasolini
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doktorenko |
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Re: L'angolo della letteratura | #96 |
Dubito ormai di tutto
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«Un tempo, i libri si rivolgevano a un numero limitato di persone, sparse su estensioni immense. Ed esse potevano permettersi di essere differenti. Nel mondo c’era molto spazio disponibile, allora. Ma in seguito il mondo si è fatto sempre più gremito di occhi, di gomiti, di bocche. La popolazione si è raddoppiata, triplicata, quadruplicata. Film, radio, riviste, libri si sono tutti livellati su un piano minimo, comune, una specie di norma dietetica universale se mi intendi.»
«Immagina tu stesso: l’uomo del diciannovesimo secolo coi suoi cavalli, i suoi cani, carri carrozze, dal moto generale lento. Poi, nel ventesimo secolo, il moto si accelera notevolmente. I libri si fanno più brevi e sbrigativi. Riassunti. Scelte. Digesti. Giornali tutti titoli e notizie, le notizie praticamente riassunte nei titoli. Tutto viene ridotto a pastone, a trovata sensazionale, a finale esplosivo.»
«Ma eran molti coloro presso i quali la conoscenza di Amleto (tu conosci di certo questo titolo, Montag) si riduceva al "condensato" d’una pagina in un volume che proclamava: Ora finalmente potrete leggere tutti i classici. Non siate inferiori al vostro collega d’ufficio! Capisci? Dalla nursery all’Università e da questa di nuovo alla nursery. Questo l’andamento intellettuale degli ultimi secoli.»
«Fatti e problemi sociali? una colonna, due frasi, un titolo. Poi, a mezz’aria, tutto svanisce. Il cervello umano rotea in ogni senso così rapidamente, sotto la spinta di editori, sfruttatori, radio-speculatori, che la forza centrifuga scaglia lontano e disperde tutto l’inutile pensiero, buono solo a farti perdere tempo.»
«La durata degli studi si fa sempre più breve, la disciplina si allenta, filosofia, storia, filologia abbandonate, lingua e ortografia sempre più neglette, fino ad essere quasi del tutto ignorate. La vita diviene una cosa immediata, diretta, il posto è quello che conta, in ufficio o in fabbrica, il piacere si annida ovunque, dopo le ore lavorative. Perchè imparare altra cosa che non sia premere bottoni, girar manopole, abbassar leve, applicar dadi e viti?»
«La chiusura lampo ha spodestato i bottoni e un uomo ha perduto quel po’ di tempo che aveva per pensare, al mattino, vestendosi per andare al lavoro, ha perso un’ora meditativa filosofica, perciò malinconica.»
«La vita diviene così un’immensa cicalata senza costrutto, Montag, tutto diviene un’interiezione sonora e vuota…»
«Basterà vuotare i teatri, Montag, di tutto ma non dei pagliacci, e fornire ogni stanza di pareti di vetro, con bei disegni policromi che salgono e scendono su queste pareti, come coriandoli, o sangue, o sherry, o borgogna.»
«Più sport per ognuno, spirito di gruppo, divertimento, svago, distrazioni, e tu così non pensi, no? Organizzare, riorganizzare, superorganizzare super-super-sport! Più vignette umoristiche, più fumetti nei libri! Più illustrazioni, ovunque! La gente assimila sempre meno. Tutti sono sempre più impazienti, più agitati e irrequieti. Le autostrade e le altre strade d’ogni genere sono affollate di gente che va un po’ da per tutto, ovunque, ed è come se non andasse in nessun posto. I profughi della benzina, gli erranti del motore a scoppio. Le città si trasformano in auto-alberghi aqmbulanti, la gente sempre più dedita al nomadismo va di località in località, seguendo il corso delle maree lunari, passando la notte nella camera dove sei stato tu oggi e io la notte passata.»
«Ecco, ci siamo, Montag, capisci? Non è stato il Governo a decidere; non ci sono stati in origine editti, manifesti, censure, no! ma la tecnologia, lo sfruttamento delle masse e la pessione delle minoranze hanno raggiunto lo scopo, grazie a Dio! Oggi, grazie a loro, tu puoi vivere sereno e contento per ventiquattr’ore al giorno, hai il permesso di leggere i fumetti, tutte le nostre care e vecchie confessioni con i bollettini e i periodici commerciali.»
«A misura che le scuole mettevano in circolazione un numero crescente di corridori, saltatori, calderai, malversatori, truffatori, aviatori e nuotatori, invece di professori, critici, dotti e artisti, naturalmente il termine "intellettuale" divenne la parolaccia che meritava di diventare. Si teme sempre ciò che non ci è familiare. Chi di noi non ha avuto in classe, da ragazzini, il solito primo della classe, il ragazzino dalla intelligenza superiore, che sapeva sempre rispondere alle domande più astruse mentre gli altri restavano seduti come tanti idoli di legno, odiandolo con tutta l’anima? Non era sempre questo ragazzino superiore che sceglievi per le scazzottature e i tormenti del doposcuola? Per forza! Noi dobbiamo essere tutti uguali. Non è che ognuno nasca libero e uguale, come dice la Costituzione, ma ognuno vien fatto uguale. Ogni essere umano a immagine e somiglianza di ogni altro: dopo di che tutti sono felici, perchè non ci sono montagne che ci scoraggino con la loro altezza da superare, non montagne sullo sfondo delle quali si debba misurare la nostra statura! Ecco perchè un libro è un fucile carico, nella casa del tuo vicino. Diamolo alle fiamme! Rendiamo inutile l’arma. Castriamo la mente dell’uomo. Chi sa chi potrebbe essere il bersaglio dell’uomo istruito?»
«Furono assegnati loro [ai vigili del fuoco, ora detti "incendiari"] i nuovi compiti, li si designò custodi della nostra pace spirituale, il fulcro della nostra comprensibile e giustissima paura di apparire inferiori; censori, giudici, esecutori.»
«Non è per questo che in fondo viviamo? per il piacere e i più svariati titillamenti? E tu non potrai negare che la nostra forma di civiltà non ne abbia in abbondanza di titillamenti…»
«Bruciamo tutto, bruciamo ogni cosa! Il fuoco è luce e soprattutto è purificazione!»
Fahrenheit 451 – Ray Bradbury
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FrancescaR |
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Re: L'angolo della letteratura | #97 |
Mi sento vacillare
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G. Gozzano: La signorina Felicita ovvero la Felicità
10 luglio: Santa Felicita.
I
Signorina Felicita, a quest'ora scende la sera nel giardino antico della tua casa. Nel mio cuore amico scende il ricordo. E ti rivedo ancora, e Ivrea rivedo e la cerulea Dora e quel dolce paese che non dico.
Signorina Felicita, è il tuo giorno! A quest'ora che fai? Tosti il caffè: e il buon aroma si diffonde intorno? O cuci i lini e canti e pensi a me, all'avvocato che non fa ritorno? E l'avvocato è qui: che pensa a te.
Pensa i bei giorni d'un autunno addietro, Vill'Amarena a sommo dell'ascesa coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa dannata, e l'orto dal profumo tetro di busso e i cocci innumeri di vetro sulla cinta vetusta, alla difesa...
Vill'Amarena! Dolce la tua casa in quella grande pace settembrina! La tua casa che veste una cortina di granoturco fino alla cimasa: come una dama secentista, invasa dal Tempo, che vestì da contadina.
Bell'edificio triste inabitato! Grate panciute, logore, contorte! Silenzio! Fuga dalle stanze morte! Odore d'ombra! Odore di passato! Odore d'abbandono desolato! Fiabe defunte delle sovrapporte!
Ercole furibondo ed il Centauro, le gesta dell'eroe navigatore, Fetonte e il Po, lo sventurato amore d'Arianna, Minosse, il Minotauro, Dafne rincorsa, trasmutata in lauro tra le braccia del Nume ghermitore...
Penso l'arredo - che malinconia! - penso l'arredo squallido e severo, antico e nuovo: la pirografia sui divani corinzi dell'Impero, la cartolina della Bella Otero alle specchiere... Che malinconia!
Antica suppellettile forbita! Armadi immensi pieni di lenzuola che tu rammendi pazïente... Avita semplicità che l'anima consola, semplicità dove tu vivi sola con tuo padre la tua semplice vita!
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FrancescaR |
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Re: L'angolo della letteratura | #98 |
Mi sento vacillare
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III
Sei quasi brutta, priva di lusinga nelle tue vesti quasi campagnole, ma la tua faccia buona e casalinga, ma i bei capelli di color di sole, attorti in minutissime trecciuole, ti fanno un tipo di beltà fiamminga...
E rivedo la tua bocca vermiglia così larga nel ridere e nel bere, e il volto quadro, senza sopracciglia, tutto sparso d'efelidi leggiere e gli occhi fermi, l'iridi sincere azzurre d'un azzurro di stoviglia...
Tu m'hai amato. Nei begli occhi fermi rideva una blandizie femminina. Tu civettavi con sottili schermi, tu volevi piacermi, Signorina: e più d'ogni conquista cittadina mi lusingò quel tuo voler piacermi!
Ogni giorno salivo alla tua volta pel soleggiato ripido sentiero. Il farmacista non pensò davvero un'amicizia così bene accolta, quando ti presento la prima volta l'ignoto villeggiante forestiero.
Talora - già la mensa era imbandita - mi trattenevi a cena. Era una cena d'altri tempi, col gatto e la falena e la stoviglia semplice e fiorita e il commento dei cibi e Maddalena decrepita, e la siesta e la partita...
Per la partita, verso ventun'ore giungeva tutto l'inclito collegio politico locale: il molto Regio Notaio, il signor Sindaco, il Dottore; ma - poiché trasognato giocatore - quei signori m'avevano in dispregio...
M'era più dolce starmene in cucina tra le stoviglie a vividi colori: tu tacevi, tacevo, Signorina: godevo quel silenzio e quegli odori tanto tanto per me consolatori, di basilico d'aglio di cedrina...
Maddalena con sordo brontolio disponeva gli arredi ben detersi, rigovernava lentamente ed io, già smarrito nei sogni più diversi, accordavo le sillabe dei versi sul ritmo eguale dell'acciottolio.
Sotto l'immensa cappa del camino (in me rivive l'anima d'un cuoco forse...) godevo il sibilo del fuoco; la canzone d'un grillo canterino mi diceva parole, a poco a poco, e vedevo Pinocchio e il mio destino...
Vedevo questa vita che m'avanza: chiudevo gli occhi nei presagi grevi; aprivo gli occhi: tu mi sorridevi, ed ecco rifioriva la speranza! Giungevano le risa, i motti brevi dei giocatori, da quell'altra stanza.
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FrancescaR |
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Re: L'angolo della letteratura | #99 |
Mi sento vacillare
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VI
Tu m'hai amato. Nei begli occhi fermi luceva una blandizie femminina; tu civettavi con sottili schermi, tu volevi piacermi, Signorina; e più d'ogni conquista cittadina mi lusingò quel tuo voler piacermi!
Unire la mia sorte alla tua sorte per sempre, nella casa centenaria! Ah! Con te, forse, piccola consorte vivace, trasparente come l'aria, rinnegherei la fede letteraria che fa la vita simile alla morte...
Oh! Questa vita sterile, di sogno! Meglio la vita ruvida concreta del buon mercante inteso alla moneta, meglio andare sferzati dal bisogno, ma vivere di vita! Io mi vergogno, sì, mi vergogno d'essere un poeta!
Tu non fai versi. Tagli le camicie per tuo padre. Hai fatta la seconda classe, t'han detto che la Terra è tonda, ma tu non credi... E non mediti Nietzsche... Mi piaci. Mi faresti più felice d'un'intellettuale gemebonda...
Tu ignori questo male che s'apprende in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti, tutta beata nelle tue faccende. Mi piace. Penso che leggendo questi miei versi tuoi, non mi comprenderesti, ed a me piace chi non mi comprende.
Ed io non voglio più essere io! Non più l'esteta gelido, il sofista, ma vivere nel tuo borgo natio, ma vivere alla piccola conquista mercanteggiando placido, in oblio come tuo padre, come il farmacista...
Ed io non voglio più essere io!
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FrancescaR |
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Re: L'angolo della letteratura | #100 |
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VIII
Nel mestissimo giorno degli addii mi piacque rivedere la tua villa. La morte dell'estate era tranquilla in quel mattino chiaro che salii tra i vigneti già spogli, tra i pendii già trapunti da bei colchici lilla.
Forse vedendo il bel fiore malvagio che i fiori uccide e semina le brume, le rondini addestravano le piume al primo volo, timido, randagio; e a me randagio parve buon presagio accompagnarmi loro nel costume.
"Vïaggio con le rondini stamane..." "Dove andrà?" - "Dove andrò? Non so... Vïaggio, vïaggio per fuggire altro vïaggio... Oltre Marocco, ad isolette strane, ricche in essenze, in datteri, in banane, perdute nell'Atlantico selvaggio...
Signorina, s'io torni d'oltremare, non sarà d'altri già? Sono sicuro di ritrovarla ancora? Questo puro amore nostro salirà l'altare?" E vidi la tua bocca sillabare a poco a poco le sillabe: giuro.
Giurasti e disegnasti una ghirlanda sul muro, di viole e di saette, coi nomi e con la data memoranda: trenta settembre novecentosette... Io non sorrisi. L'animo godette quel romantico gesto d'educanda.
Le rondini garrivano assordanti, garrivano garrivano parole d'addio, guizzando ratte come spole, incitando le piccole migranti... Tu seguivi gli stormi lontananti ad uno ad uno per le vie del sole...
"Un altro stormo s'alza!..." - "Ecco s'avvia!" "Sono partite..." - "E non le salutò!..." "Lei devo salutare, quelle no: quelle terranno la mia stessa via: in un palmeto della Barberia tra pochi giorni le ritroverò..."
Giunse il distacco, amaro senza fine, e fu il distacco d'altri tempi, quando le amate in bande lisce e in crinoline, protese da un giardino venerando, singhiozzavano forte, salutando diligenze che andavano al confine...
M'apparisti così come in un cantico del Prati, lacrimante l'abbandono per l'isole perdute nell'Atlantico; ed io fui l'uomo d'altri tempi, un buono sentimentale giovine romantico...
Quello che fingo d'essere e non sono!
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doktorenko |
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Re: L'angolo della letteratura | #101 |
Dubito ormai di tutto
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Stupidità
Per il bene la stupidità è un nemico più pericoloso della malvagità. Contro il male è possibile protestare, ci si può compromettere, in caso di necessità è possibile opporsi con la forza; il male porta sempre con sé il germe dell’autodissoluzione, perché dietro di sé nell’uomo lascia almeno un senso di malessere. Ma contro la stupidità non abbiamo difese. Qui non si può ottenere nulla, né con proteste, né con la forza; le motivazioni non servono a niente. Ai fatti che sono in contraddizione con i pregiudizi personali semplicemente non si deve credere - in questi casi lo stupido diventa addirittura scettico - e quando sia impossibile sfuggire ad essi, possono essere messi semplicemente da parte come casi irrilevanti. Nel far questo lo stupido, a differenza del malvagio, si sente completamente soddisfatto di sé; anzi, diventa addirittura pericoloso, perché con facilità passa rabbiosamente all’attacco. Perciò è necessario essere più guardinghi nei confronti dello stupido che del malvagio. Non tenteremo mai più di persuadere lo stupido: è una cosa senza senso e pericolosa.
Se vogliamo trovare il modo di spuntarla con la stupidità, dobbiamo cercare di conoscerne l’essenza. Una cosa è certa, che si tratta essenzialmente di un difetto che interessa non l’intelletto, ma l’umanità di una persona. Ci sono uomini straordinariamente elastici dal punto di vista intellettuale che sono stupidi, e uomini molto goffi intellettualmente che non lo sono affatto. Ci accorgiamo con stupore di questo in certe situazioni, nelle quali si ha l’impressione che la stupidità non sia un difetto congenito, ma piuttosto che in determinate situazioni gli uomini vengano resi stupidi, ovvero si lascino rendere tali. Ci è dato osservare, inoltre, che uomini indipendenti, che conducono vita solitaria, denunciano questo difetto più raramente di uomini o gruppi che inclinano o sono costretti a vivere in compagnia. Perciò la stupidità sembra essere un problema sociologico piuttosto che un problema psicologico. E’ una forma particolare degli effetti che le circostanze storiche producono negli uomini; un fenomeno psicologico che si accompagna a determinati rapporti esterni.
Osservando meglio, si nota che qualsiasi ostentazione esteriore di potenza, politica o religiosa che sia, provoca l’istupidimento di una gran parte degli uomini. Sembra anzi che si tratti di una legge socio-psicologica. La potenza dell’uno richiede la stupidità degli altri. Il processo secondo cui ciò avviene, non è tanto quello dell’atrofia o della perdita improvvisa di determinate facoltà umane - ad esempio quelle intellettuali - ma piuttosto quello per cui, sotto la schiacciante impressione prodotta dall’ostentazione di potenza, l’uomo viene derubato della sua indipendenza interiore e rinuncia così, più o meno consapevolmente, ad assumere un atteggiamento personale davanti alle situazioni che gli si presentano. Il fatto che lo stupido sia spesso testardo non deve ingannare sulla sua mancanza di indipendenza. Parlandogli ci si accorge addirittura che non si ha a che fare direttamente con lui, con lui personalmente, ma con slogan, motti, ecc. da cui egli è dominato. E’ ammaliato, accecato, vittima di un abuso e di un trattamento pervertito che coinvolge la sua stessa persona. Trasformatosi in uno strumento senza volontà, lo stupido sarà capace di qualsiasi malvagità, essendo contemporaneamente incapace di riconoscerla come tale. Questo è il pericolo che una profanazione diabolica porta con sé. Ci sono uomini che potranno esserne rovinati per sempre.
Ma a questo punto è anche chiaro che la stupidità non potrà essere vinta impartendo degli insegnamenti, ma solo da un atto di liberazione. Ci si dovrà rassegnare al fatto che nella maggioranza dei casi un’autentica liberazione interiore è possibile solo dopo essere stata preceduta dalla liberazione esteriore; fino a quel momento, dovremo rinunciare ad ogni tentativo di convincere lo stupido. In questo stato di cose sta anche la ragione per cui in simili circostanze inutilmente ci sforziamo di capire che cosa effettivamente pensi il "popolo", e per cui questo interrogativo risulta contemporaneamente superfluo - sempre però solo in queste circostanze - per chi pensa e agisce in modo responsabile. La Bibbia, affermando che il timore di Dio è l’inizio della sapienza (Salmo 111, 10), dice che la liberazione interiore dell’uomo alla vita responsabile davanti a Dio è l’unica reale vittoria sulla stupidità. Del resto, siffatte riflessioni sulla stupidità comportano questo di consolante, che con esse viene assolutamente esclusa la possibilità di considerare la maggioranza degli uomini come stupida in ogni caso. Tutto dipenderà in realtà dall’atteggiamento di coloro che detengono il potere: se essi ripongono le loro aspettative più nella stupidità o più nell’autonomia interiore e nella intelligenza degli uomini.
Dietrich Bonhoeffer
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polaris |
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Re: L'angolo della letteratura | #102 |
Dubito ormai di tutto
Iscritto il: 12/9/2012
Da Tlön
Messaggi: 1640
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Ecco un brano del Morgante di Luigi Pulci, dove il diavolo Astarotte spiega al paladino Rinaldo che oltre le colonne d'Ercole si estende un'altra terra, dove non è mai giunto il verbo cristiano. Pulci prevede (o forse sapeva?) la scoperta dell'America con dieci anni d'anticipo.
Rinaldo allor, ricognosciuto il loco, perché altra volta l’aveva veduto, dicea con Astarotte: - Dimmi un poco a quel che questo segno ha proveduto. - Disse Astaròt: - Un error lungo e fioco, per molti secol non ben cognosciuto, fa che si dice «d’Ercul le colonne» e che più là molti periti sonne.
Sappi che questa oppinïone è vana, perché più oltre navicar si puote, però che l’acqua in ogni parte è piana, benché la terra abbi forma di ruote. Era più grossa allor la gente umana, tal che potrebbe arrossirne le gote Ercule ancor d’aver posti que’ segni, perché più oltre passeranno i legni.
E puossi andar giù nell’altro emisperio, però che al centro ogni cosa reprime, sì che la terra per divin misterio sospesa sta fra le stelle sublime, e laggiù son città, castella e imperio; ma nol cognobbon quelle gente prime: vedi che il sol di camminar s’affretta dove io ti dico, ché laggiù s’aspetta.
[...]
Antipodi appellata è quella gente; adora il sole e Iuppiter e Marte, e piante ed animal, come voi, hanno, e spesso insieme gran battaglie fanno.
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Che epoca terribile quella in cui degli idioti governano dei ciechi.. - Shakespeare
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doktorenko |
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Re: L'angolo della letteratura | #103 |
Dubito ormai di tutto
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Da
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Per chi non si droga, colui che si droga è un "diverso". E come tale viene generalmente destituito di umanità, sia attraverso il rancore razzistico che si attirano sempre addosso i "diversi", sia attraverso l'eventuale comprensione o pietà. Nei rapporti col "diverso" intolleranza o tolleranza sono la stessa cosa. C'è da dire tuttavia che mentre gli intolleranti credono che la diversità dei diversi non abbia spiegazioni e quindi meriti soltanto odio, i tolleranti si chiedono spesso, più o meno sinceramente, quali siano le ragioni di tale "diversità".
Ora tanto io che il mio lettore siamo dei "tolleranti": c'è da avere qualche dubbio su questo? Perciò la domanda che pongo è la seguente: "Per quale ragione quei "diversi" che sono i drogati si drogano?" C'è indubbiamente una spiegazione che riguarda i singoli, e cioè la psicologia. Se io parlo e analizzo - senza né moralismo né sentimentalismo né complicità - un singolo drogato, ho subito una vita concreta da prendere in esame: con la sua infanzia, i suoi genitori, i suoi mali, ecc. Quindi quel poco di sapere psicanalitico di cui ogni intellettuale può disporre è sufficiente a trarre qualche diagnosi: la quale diagnosi è però eternamente la stessa: desiderio di morte. Tale "fine" individuale - spesso anche consapevole - getta una luce, retroattiva e dal basso, su tutta l'individualità analizzata, che ne è così resa profondamente coerente:un tutto unico a sé stante. La "diversità" è sempre inaccessibile.
Ma se il rapporto col singolo drogato non ha, come dire, sbocchi, è irrelato - e l'eccesso di concretezza di un "caso" umano, è come sempre elusivo rispetto alla storia - al contrario il rapporto con la massa dei drogati, o, meglio, col fenomeno della droga, può essere reso parlabile, razionalizzato, storicizzato.
"Per quanto riguarda la mia personale, e assai scarsa esperienza, ciò che mi par di sapere intorno al fenomeno della droga, è il seguente dato di fatto: la droga è sempre un surrogato. E precisamente un surrogato della cultura. Detta così la cosa è certo troppo lineare, semplice e anche generica. Ma le complicazioni realizzanti vengono quando si esaminano le cose da vicino. A un livello medio - riguardante "tanti" - la droga viene a riempire un vuoto causato appunto dal desiderio di morte e che è dunque un vuoto di cultura.
Per amare la cultura occorre una forte vitalità. Perchè la cultura - in senso specifico o, meglio, classista - è un possesso: e niente necessita di una più accanita e matta energia che il desiderio di possesso. Chi non ha neanche in minima dose questa energia, rinuncia. E poiché in genere, a causa dei suoi traumi e della sua sensibilità si tratta di un individuo destinato alla cultura specifica, dell'élite, ecco che si apre intorno a lui quel vuoto culturale da lui del resto disperatamente voluto (per poter morire): vuoto che egli riempie col surrogato della droga. L'effetto della droga, poi, mima il sapere razionale attraverso un'esperienza, per così dire, aberrante ma, in qualche modo, omologa ad esso. Anche a un livello più alto si verifica qualcosa di simile: ci sono dei letterati e degli artisti che si drogano. Perchè lo fanno? Anch'essi, credo, per riempire un vuoto: ma stavolta si tratta non semplicemente di un vuoto di cultura, bensì di un vuoto di necessità e di immaginazione. La droga in tal caso serve a sostituire la grazia con la disperazione, lo stile con la maniera. Non pronuncio un giudizio. Dico una cosa. Ci sono delle epoche in cui gli artisti più grandi sono appunto dei disperati manieristi.
Il lettore avrà sicuramente notato che fin qui ho parlato del fenomeno della droga negli stessi termini in cui avrei potuto parlarne dieci o venti anni fa; per non dire un secolo fa.
Ho parlato cioè di un insieme di singoli, che, per delle loro buone ragioni, hanno voluto perdersi, fare il "gran rifiuto", rinunciando al grande e consolatorio usufrutto dei valori vigenti di una cultura e alle lusinghe di quel possesso oggettivo in cui essa consiste nel caso concreto e individuale. Ho parlato infatti della cultura specifica, di élite: di classe.
Ma la parola "cultura" non indica soltanto la cultura specifica, d'élite, di classe: indica anche, e prima di tutto (secondo l'uso scientifico che ne fanno gli etnologi, gli antropologi, i migliori sociologi) il sapere e il modo di essere di un paese nel suo insieme, ossia la qualità storica di un popolo con l'infinita serie di norme, spesso non scritte, e spesso addirittura inconsapevoli , che determinano la sua visione della realtà e regolano il suo comportamento.
Ora, ci sono dei periodi storici in cui non c'è spazio per la droga: o meglio, tale spazio in altro non consiste che nel vuoto culturale "interiore" di singoli individui, che hanno deciso di anticipare con tale vuoto la propria morte e di accelerarla col surrogato culturale della droga. Uno dei periodi storici in cui non si è avuto spazio per la droga è stato per esempio il periodo storico che abbiamo da poco e, a quanto pare, così felicemente, superato: si trattava infatti di un periodo di repressione clerico-fascista (i vent'anni di fascismo e i trent'anni democristiani). In tale periodo infatti (parlo dell'Italia: sono, ancora, a mio scorno, italianista e dialettologo) persisteva nella classe dominata - cioè praticamente in un paese che non aveva fatto nessuna rivoluzione - in cui la classe dominante era numericamente un'oligarchia (il Vaticano, le grandi industrie del nord e poco altro) - e i ceti medi non erano altro che grandi masse plebee a un livello economico appena più alto - persisteva, dico, nell'intero popolo italiano contadino e paleoindustriale, una cultura - o meglio, un insieme di culture particolariste - in cui i valori e i modelli erano solidissimi, e la "tradizione" esclusiva.
"Reprimere" tale popolo, da parte dei poteri clerico-fascisti che si sono succeduti, consisteva nel dare un senso ufficiale (e quindi idiota, alienato) ai valori reali di tale tradizione popolare: e imporlo con la forza poliziesca.
In una tale situazione storica il fenomeno della droga non poteva che essere un fenomeno strettamente borghese: la droga cioè non poteva che essere il surrogato di una cultura specifica, d'élite, classista. Il popolo non c'entrava. La sua "cultura" non era in discussione né in crisi: era così com'era da secoli, per non dire da millenni (ogni tradizione popolare è in realtà transnazionale). E' vero che anche oggi, se vado a Piazza Navona e incontro un drogato che passa ciondolando con aria noiosa e vagamente sinistra, sento in lui i caratteri dell'infelicità e del rifiuto piccolo borghese: e maledico la misteriosa circostanza che ha costretto, lui singolo, a fumare dell'hascisc invece di leggere un libro. Tuttavia l'incontro di Piazza Navona, pur essendo per così dire rituale, non è però tipico. E' infinitamente più tipico incontrare un drogato in un bar di Piazza del Cinquecento o al Quarticciolo.
Cosa voglio dire con questo? Voglio dire che il fenomeno della droga ha cambiato radicalmente carattere rispetto a quello che esso era dieci o vent'anni fa. E' divenuto cioè un fenomeno che riguarda la massa e comprende dunque tutte le classi sociali (anche se il suo "modello" resta piccolo borghese, ed è magari quello fornito dalla contestazione). Dunque noi oggi viviamo in un periodo storico in cui lo "spazio" (o "vuoto") per la droga è enormemente aumentato. E perché? Perché la cultura in senso antropologico, "totale", in Italia è andata distrutta. Quindi i suoi valori e i suoi modelli tradizionali (uso qui questa parola nel senso migliore) o non contano più o cominciano a non contare più.
Per esempio: i due valori "Dio" e "famiglia", che sono due valori idioti e alienati quando in nome loro parlano i preti o i moralisti (magari in divisa), ma che sono invece due valori tout court, quando in nome loro si istituisce una vita popolare - magari sotto il livello di quella che noi chiamiamo storia - oggi non contano più: in nome loro non si può più parlare ad alcun giovane; e tanto meno ad un giovane drogato. La caduta del prestigio "irrelato" di tutti i valori di una intera cultura, non poteva non produrre una specie di "mutazione" antropologica, e non poteva non causare una crisi "totale". Tutte le classi sociali ne sono coinvolte, e la perdita dei valori riguarda tutti, benché i più colpiti siano i giovani delle classi povere: appunto perchè essi vivevano una "cultura" ben più sicura e assoluta di quella vissuta dai giovani delle classi dominanti.
Vedo che sull'Unità (20 luglio 1975) si tende a "limitare" il fenomeno della droga, con preoccupazione in fondo sdrammatizzante, o colpevolizzando, secondo uno schema troppo classico, la società. In realtà il fenomeno della droga è un fenomeno nel fenomeno: ed è questo secondo fenomeno più vasto che importa: che è, anzi, una vera grande tragedia storica. Si tratta, insisto, della perdita dei valori di una intera cultura: valori che però non sono stati sostituiti da quelli di una nuova cultura (a meno che non ci si debba "adattare", come del resto sarebbe tragicamente corretto, a considerare una "cultura" il consumismo. Il grande fenomeno della perdita non risarcita dei valori - che include il fenomeno estremistico di massa della droga - riguarda dunque tutti i giovani del nostro paese (eccettuati per ora, come ho già avuto occasione di dire, coloro che hanno fatto l'unica scelta culturale elementare possibile: i giovani iscritti al Partito Comunista Italiano). I giovani italiani nel loro insieme costituiscono una piaga sociale forse ormai insanabile: sono o infelici o criminali (o criminaloidi) o estremistici o conformisti: e tutto in una misura sconosciuta fino ad oggi. Poiché i drogati si pongono per così dire all'avanguardia di questa irrevocabile determinazione dei giovani a vivere un vuoto e una perdita, e di mettersi in condizione di essere inaccessibili, cioè di non accettare più nulla in nome di cui parlare loro (a meno che non si tratti di argomenti sotto-culturali) - per questa ragione, dico, non sono affatto tenero con i giovani che si drogano. Anzi tendo ad avere per essi una aprioristica e forte antipatia. Da una parte c'è la loro ricattatoria presunzione nel compiere un atto sotto-culturale che essi mitizzano; dall'altra c'è la mia insofferenza personale ad accettare la fuga, la rinuncia, l'indisponibilità.
E' per questo che quando Pannella ha compiuto il suo gesto di "disobbedienza" per la depenalizzazione della droga leggera, mi sono subito venuti in mente almeno dieci altri motivi per cui compiere un simile gesto di disobbedienza: naturalmente scavalcando Pannella a sinistra. Prima o poi dirò questi motivi. Ma intanto devo dire che ho capito, tuttavia, che la lotta per la depenalizzazione della droga (per quanto mi riguarda, anche di quella pesante) è un atto centrale e non marginale di una lotta per la reale tolleranza. Perchè?
I miei colleghi intellettuali si dichiarano quasi tutti convinti che l'Italia, in qualche modo, sia migliorata. In realtà l'Italia è un luogo orribile: basta andare qualche giorno all'estero e poi ritornare. Ho avuto la misura dell'abisso in cui gli italiani si dibattono, come vermi, addirittura tornando da Barcellona (città peraltro che dà un'angoscia da togliere il fiato: il passato è irrespirabile). E parlo soprattutto dell'Italia dei giovani. Dunque se c'è qualcuno che, accorgendosi inconsapevolmente, magari, e magari attraverso mitizzazioni sotto-culturali, di questo, vuole morire, come può una società che gli offre di sé un così tragico e ripugnante spettacolo, impedirgli di farlo?
Pier Paolo Pasolini Corriere della Sera, 24 luglio 1975
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doktorenko |
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Re: L'angolo della letteratura | #104 |
Dubito ormai di tutto
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Ecco! io vi mostro l’ ultimo uomo.
“Che cos’è l’amore? E creazione? E anelito? E stella?” – così domanda l’ultimo uomo, e strizza l’occhio. La terra allora sarà diventata piccola e su di essa saltellerà l’ultimo uomo, quegli che tutto rimpicciolisce. La sua genia è indistruttibile, come la pulce di terra; l’ultimo uomo campa più a lungo di tutti.
“Noi abbiamo inventato la felicità” – dicono gli ultimi uomini e strizzano l’occhio.
Essi hanno lasciato le contrade dove la vita era dura: perché ci vuole calore. Si ama anche il vicino e a lui ci si strofina: perché ci vuole calore.
Ammalarsi e essere diffidenti è ai loro occhi una colpa: guardiamo dove si mettono i piedi. Folle chi ancora inciampa nelle pietre e negli uomini!
Un po’ di veleno ogni tanto: ciò rende gradevoli i sogni. E molto veleno alla fine per morire gradevolmente.
Si continua a lavorare, perché il lavoro intrattiene. Ma ci si dà cura che il trattenimento non sia troppo impegnativo.
Non si diventa più né ricchi né poveri: ambedue le cose sono troppo fastidiose. Chi vuole ancora governare? Chi obbedire? Ambedue le cose sono troppo fastidiose.
Nessun pastore e un sol gregge! Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono eguali: chi sente diversamente va da sé al manicomio.
“Una volta tutto il mondo era pazzo”- dicono i più raffinati e strizzano l’occhio. Oggi si è intelligenti e si sa per filo e per segno come sono andate le cose: così la materia di scherno è senza fine. Sì, ci si bisticcia ancora, ma si fa pace al più presto – per non guastarsi lo stomaco.
Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte salva restando la salute.
"Wir haben das Glück erfunden" - sagen die letzten Menschen und blinzeln.
Friedrich Nietzsche - La Prefazione di Zarathustra
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Marauder |
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Re: L'angolo della letteratura | #105 |
Mi sento vacillare
Iscritto il: 8/9/2013
Da
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Sto leggendo The Martian. Consigliato agli amanti di Sci-Fi, star trek et similia.
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You'll not see this coming.
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doktorenko |
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Re: L'angolo della letteratura | #106 |
Dubito ormai di tutto
Iscritto il: 7/8/2009
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"Ma sono ancora più strane, nello stesso tempo spaventose e rattristanti, l'audacia e la leggerezza di spirito di uomini che si dicono cattolici, che sognano di rifare la società in simili condizioni e di stabilire sulla terra, al di sopra della Chiesa cattolica, "il regno della giustizia e dell'amore", con operai venuti da ogni parte, di tutte le religioni oppure senza religione, con o senza credenze, purché dimentichino quanto li divide, le loro convinzioni religiose e filosofiche, e mettano in comune quanto li unisce, un 'generoso idealismo' e forze morali prese "dove possono". Quando si pensa a tutto quanto è necessario in forze, in scienza, in virtù soprannaturali per istituire la città cristiana, e alle sofferenze di milioni di martiri, e alle illuminazioni dei Padri e dei Dottori della Chiesa, e alla dedizione di tutti gli eroi della carità, e a una potente gerarchia nata dal Cielo, e ai fiumi di grazia divina, e il tutto edificato, collegato, compenetrato dalla Vita e dallo Spirito di Gesù Cristo, la Sapienza di Dio, il Verbo fatto uomo; quando si pensa, diciamo, a tutto questo, si è spaventati nel vedere NUOVI APOSTOLI intestardirsi a fare di meglio mettendo in comune un vago idealismo e virtù civiche. Che cosa produrranno? Che cosa sta per uscire da questa collaborazione? Una costruzione puramente verbale e chimerica, in cui si vedranno luccicare alla rinfusa e in una CONFUSIONE SEDUCENTE le parole di libertà, di giustizia, di fraternità e di amore, di uguaglianza e di umana esaltazione, il tutto basato su una DIGNITA' UMANA MALE INTESA. Si tratterà di un'AGITAZIONE TUMULTUOSA, sterile per il fine proposto e che avvantaggerà gli agitatori delle masse meno utopisti (....).
Temiamo che vi sia ancora di peggio. Il risultato di questa promiscuità nel lavoro, il beneficiario di quest'azione sociale cosmopolitica, può essere soltanto una democrazia che non sarà né cattolica, né protestante, né ebraica; UNA RELIGIONE...PIU' UNIVERSALE DELLA CHIESA CATTOLICA, che riunirà tutti gli uomini divenuti finalmente fratelli e compagni, nel "regno di Dio".- "Non si lavora per la Chiesa: si lavora per l'umanità". E ora, pervasi dalla più viva tristezza, ci domandiamo, Venerabili Fratelli, che cosa è diventato il cattolicesimo del Sillon [movimento francese- n.p.c.]. Ahimè! Esso...è stato captato, nel suo corso, dai moderni nemici della Chiesa e d'ora innanzi forma solo un misero affluente del grande movimento di APOSTASIA, organizzato, in tutti i paesi, per L'INSTAURAZIONE DI UNA CHIESA UNIVERSALE, CHE NON AVRA' NE' DOGMI, NE' GERARCHIA, né regole per lo spirito, né freno per le passioni, e che, con il PRETESTO DELLA LIBERTA' E DELLA DIGNITA' UMANA, ristabilirebbe nel mondo, qualora POTESSE trionfare, il REGNO LEGALE DELL'ASTUZIA E DELLA FORZA, e l'OPPRESSIONE DEI DEBOLI, di quelli che soffrono e che lavorano".
Notre charge apostolique La concezione secolarizzata della democrazia Lettera agli Arcivescovi e ai Vescovi francesi Roma, 25 agosto 1910 San Pio X
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polaris |
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Re: L'angolo della letteratura | #107 |
Dubito ormai di tutto
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Da Tlön
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Disse Morgante: - Tu sia il ben venuto:[...] Dimmi più oltre: io non t’ho domandato se se’ cristiano o se se’ saracino, o se tu credi in Cristo o in Apollino. -
Rispose allor Margutte: - A dirtel tosto, io non credo più al nero ch’a l’azzurro, ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto; e credo alcuna volta anco nel burro, nella cervogia, e quando io n’ho, nel mosto, e molto più nell’aspro che il mangurro; ma sopra tutto nel buon vino ho fede, e credo che sia salvo chi gli crede;
e credo nella torta e nel tortello: l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuolo; e ’l vero paternostro è il fegatello, e posson esser tre, due ed un solo, e diriva dal fegato almen quello. E perch’io vorrei ber con un ghiacciuolo, se Macometto il mosto vieta e biasima, credo che sia il sogno o la fantasima;
ed Apollin debbe essere il farnetico, e Trivigante forse la tregenda. La fede è fatta come fa il solletico: per discrezion mi credo che tu intenda. Or tu potresti dir ch’io fussi eretico: acciò che invan parola non ci spenda, vedrai che la mia schiatta non traligna e ch’io non son terren da porvi vigna
(Morgante, Luigi Pulci, XVIII, 114-117)
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Che epoca terribile quella in cui degli idioti governano dei ciechi.. - Shakespeare
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doktorenko |
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Re: L'angolo della letteratura | #108 |
Dubito ormai di tutto
Iscritto il: 7/8/2009
Da
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Carissimo Quadrelli, quanto mi dici sul nichilismo presente mi trova perfettamente consenziente.Non è più il nichilismo tragico di cui forse si potevano trovare le ultime tracce nel terrorismo. Questo nichilismo doveva portare a una soluzione rivoluzionaria più o meno confusamente intravista o meglio confusamente ricordata; un qualche elemento di rabbia c’era ancora, e questo gli conferiva una sembianza lontanamente umana.
Ma il nichilismo oggi corrente è il nichilismo gaio, nei due sensi, che è senza inquietudine (cioè cerca una sequenza di godimenti superficiali nell’intento di eliminare il dramma dal cuore dell’uomo) – forse per la soppressione dell’inquietum cor meum agostiniano – e che ha il suo simbolo nell’omosessualità (per il fatto che intende sempre l’amore “omosessualmente”, anche quando mantiene il rapporto uomo-donna)».
Il giudizio che qui ci interessa è antropologico, non anzitutto etico: il nichilismo gaio “non vedendo” la differenza, anche sessuale, come segno dell’altro, rischia di concepire l’amore come puro prolungamento dell’io (appunto “omosessualmente”). Non per nulla trova i suoi rappresentanti in ex cattolici, corteggiati ancora da cattolici che riconoscono in loro qualcosa che trovano sul loro fondo.
Tale nichilismo è esattamente la riduzione di ogni valore a “valore di scambio”; l’esito borghese massimo, nel peggiore dei sensi, del processo che comincia con la prima guerra mondiale. Il peggiore annebbiamento che il nichilismo genera è la perdita del senso dell’interdipendenza dei fattori nella storia presente; infatti, a ben guardare non è che l’altra faccia dello scientismo e della sua necessaria autodissoluzione da ogni traccia di valori che non siano strumentali; e in ciò, come dici giustamente, è l’esatto opposto dell’umanesimo (…).
Quanto ai cattolici, quel che li caratterizza è l’accettazione di un pensiero del proprio tempo di origine marxista o neoborghese. Il risultato è che non possono più pensare la loro metafisica e la loro religione come verità; questa impotenza si manifesta nel loro presentarla in un linguaggio allusivo e metaforico, con cui pretendono distinguersi dai cattolici comuni e tradizionali, e veramente ci riescono. La loro scuola di miscredenza, è senza pari.
Mi parli di autori a cui sia possibile far riferimento. Di quelli che hanno pensato negli anni tra il ’30 e il ’40, perché dopo non si è più pensato, la sola a cui si possa far riferimento perché, anche se oscuramente, previde il corso del quarantennio presente è Simone Weil; non tanto però come guida, ma come autrice che può essere ritrovata con un processo personale (…). Penso che l’unica via per sfuggire alla desolazione presente sia riprendere la famosa frase di Hegel (che però penso valida indipendentemente dalla sua filosofia) secondo cui la filosofia “è il proprio tempo appreso col pensiero”. Esistono due interpretazioni del nostro tempo che condizionano tutti i giudizi particolari, l’illuministico massonica (nelle sue varietà) e la marxistica, entrambe false. Si tratta di uscire da questa “falsità condizionante” ma i passi in questa direzione sono stati per ora assai scarsi. Gravissime soprattutto le colpe dei cattolici che dopo il ’60 hanno pensato di “aggiornarsi” facendo proprie le tesi dell’una o dell’altra di queste linee. Col risultato di mettere nella difficoltà di credere.
Con viva amicizia
tuo Augusto Del Noce, 1984
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FrancescaR |
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Re: L'angolo della letteratura | #109 |
Mi sento vacillare
Iscritto il: 15/10/2014
Da Colonia usa
Messaggi: 309
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L'abbiamo rimpianto a lungo l'infilascarpe, il cornetto di latta arrugginito ch'era sempre con noi. Pareva un'indecenza portare tra i similori e gli stucchi un tale orrore. Dev'essere al Danieli che ho scordato di riporlo in valigia o nel sacchetto. Hedia la cameriera lo buttò certo nel Canalazzo. E come avrei potuto scrivere che cercassero quel pezzaccio di latta? C'era un prestigio (il nostro) da salvare e Hedia, la fedele, l'aveva fatto.
Eugenio Montale
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Calvero |
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Re: L'angolo della letteratura | #110 |
Sono certo di non sapere
Iscritto il: 4/6/2007
Da Fleed / Umon
Messaggi: 13165
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Citazione: Marauder ha scritto: Sto leggendo The Martian. Consigliato agli amanti di Sci-Fi, star trek et similia.
Spero sia meglio del film, molto meglio
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Misti mi morr Z - 283 - Una volta creato il manicomio, la ragione l'ha sempre il direttore; che l'abbia o meno
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FrancescaR |
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Re: L'angolo della letteratura | #111 |
Mi sento vacillare
Iscritto il: 15/10/2014
Da Colonia usa
Messaggi: 309
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Nessun estimatore o (meglio ancora) autore di limerick, qui su Lc? Mi riferisco, in particolar modo, a quelli in lingua italiana e ai fantastici limericchi di Giampiero Orselli. Qualcuno forse li conosce?
Un saluto.
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doktorenko |
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Re: L'angolo della letteratura | #112 |
Dubito ormai di tutto
Iscritto il: 7/8/2009
Da
Messaggi: 2332
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Citazione: Non solo non sono stato capace di diventare cattivo, non sono stato capace di diventare niente: né cattivo, né buono, né disonesto, né onesto, né un eroe, né un insetto. Adesso vivacchio, ormai, nel mio angolo, dicendo che sono cattivo, eccitandomi con una malvagia, inutile consolazione, che un uomo intelligente non può seriamente diventar niente, e che diventan qualcuno soltanto i coglioni. Eh, sì, l’uomo intelligente del diciannovesimo secolo è obbligato, moralmente tenuto, a essere la creatura priva di carattere per eccellenza; e un uomo con del carattere, un uomo d’azione, a essere la creatura limitata per eccellenza. Questa è la mia convinzione di quarantenne. Io adesso ho quarant’anni, e quarant’anni, poi, sono una vita; è la massima vecchiaia consentita. Vivere più di quarant’anni non sta bene, è di cattivo gusto, è immorale. Chi vive più di quarant’anni, dite la verità, chi vive di più? Ve lo dico io, chi è: i coglioni e i delinquenti, vivon di più. Lo dico in faccia a tutti i vecchi, a tutti quei vecchi rispettabili coi capelli d’argento, che profuman di buono! Lo dico in faccia al mondo! Ho diritto di dirlo, perché io vivrò fino a sessant’anni. Fino a settant’anni, vivrò. Fino a ottant’anni, vivrò io…
Fëdor Dostoevskij Memorie del sottosuolo
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FrancescaR |
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Re: L'angolo della letteratura | #113 |
Mi sento vacillare
Iscritto il: 15/10/2014
Da Colonia usa
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<><><><><> * Il ritorno di Giuseppe * Stelle già dal tramonto si contendono il cielo a frotte, luci meticolose nell'insegnarti la notte. L'asino dai passi uguali compagno del tuo ritorno scandisce la distanza lungo il morire del giorno. Ai tuoi occhi, il deserto: una distesa di segatura, minuscoli frammenti della fatica della natura. Gli uomini della sabbia hanno profili da assassini rinchiusi nei silenzi di una prigione senza confini. Odore di Gerusalemme, la tua mano accarezza il disegno di una bambola magra intagliata nel legno. La vestirai, Maria ritornerai a quei giochi lasciati quando i tuoi anni erano così pochi. E lei volò fra le tue braccia come una rondine. E le sue dita come lacrime, dal tuo ciglio alla gola suggerivano al viso una volta ignorato la tenerezza d'un sorriso, un affetto quasi implorato. E lo stupore nei tuoi occhi salì dalle tue mani che vuote intorno alle sue spalle, si colmarono ai fianchi della forma precisa d'una vita recente, di quel segreto che si svela quando lievita il ventre. E a te, che cercavi il motivo di un inganno inespresso dal volto, lei propose l'inquieto ricordo tra i resti di un sogno raccolto. https://m.youtube.com/watch?v=ST_GI44B_7I* Il sogno di Maria * Nel grembo umido, scuro del tempio l'ombra era fredda, gonfia d'incenso. L'angelo scese, come ogni sera ad insegnarmi una nuova preghiera. Poi d'improvviso mi sciolse le mani e le mie braccia divennero ali, quando mi chiese "Conosci l'estate?" io per un giorno, per un momento corsi a vedere il colore del vento. Volammo davvero, sopra le case oltre i cancelli, gli orti e le strade. Poi scivolammo tra valli fiorite dove all'ulivo si abbraccia la vite. Scendemmo là, dove il giorno si perde a cercarsi da solo, nascosto tra il verde, e mi parlò come quando si prega ed alla fine d'ogni preghiera contava una vertebra della mia schiena. Le ombre lunghe dei sacerdoti costrinsero il sogno in un cerchio di voci. Con le ali di prima cercai di scappare ma il braccio era nudo e non seppi volare. Poi vidi l'angelo mutarsi in cometa e i volti severi divennero pietra, le loro braccia profili di rami nei gesti immobili d'un'altra vita: foglie le mani, spine le dita. Voci di strada, rumori di gente mi rubarono al sogno per ridarmi al presente. Sbiadì l'immagine, stinse il colore ma l'eco lontana di brevi parole ripeteva d'un angelo la strana preghiera dove forse era sogno, ma sonno non era: Lo chiameranno figlio di Dio, parole confuse nella mia mente svanite in un sogno ma impresse nel ventre. E la parola ormai sfinita si sciolse in pianto. Ma la paura dalle labbra si raccolse negli occhi semichiusi nel gesto d'una quiete apparente, che si consuma nell'attesa d'uno sguardo indulgente. E tu piano posasti le dita all'orlo della sua fronte. I vecchi quando accarezzano hanno il timore di far troppo forte. https://m.youtube.com/watch?v=JWuZPRaXsskFabrizio De André. Incanto.
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Marauder |
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Re: L'angolo della letteratura | #114 |
Mi sento vacillare
Iscritto il: 8/9/2013
Da
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ANDREA CAMILLERI CI RACCONTA: "IL GIORNO DEI MORTI"
Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio. Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre. I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza. A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo. Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine. Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire. (da Racconti quotidiani di Andrea Camilleri)
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Marauder |
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Re: L'angolo della letteratura | #115 |
Mi sento vacillare
Iscritto il: 8/9/2013
Da
Messaggi: 866
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Citazione: Calvero ha scritto: Citazione: Marauder ha scritto: Sto leggendo The Martian. Consigliato agli amanti di Sci-Fi, star trek et similia.
Spero sia meglio del film, molto meglio
i dettagli del film sono impressionanti, la tuta la voglio per la moto. Ma in effetti sí, anche stavolta il libro da una parte é migliore. Ovviamente scava di più nella psicologia di Mark, ha tante simpatiche chicche ma spesso annoia con doverose ma alla lunga pallose descrizioni tecniche. Avendo letto prima il libro, il film me lo sono goduto: quando leggi un libro anche se parla solo un personaggio non è pesante; considera che a differenza di Cast Away il protagonista non fa cose note come pescare, accendere il fuoco coi legnetti e via discorrendo, ma le azioni per ottenere il risultato, semplice, sono molto più complesse. In definitiva ho trovato sensato che la forbice del regista abbia colpito la parte intima di Watney. Inguardabile, invece, la riparazione dell HAB ... mooooolto diversa nel libro e tecnicamente più credibile. Ma d'altronde lo sponsor é l'agenzia, per cui ci sta.
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Giano |
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Re: L'angolo della letteratura | #116 |
Dubito ormai di tutto
Iscritto il: 18/3/2011
Da
Messaggi: 1424
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Grazie Doktorenko per la citazione di Dostoevskij, non credevo che l' avrei mai letto e invece l' ho finito in un sol fiato. Grazie ancora.
Incollo un altro brano del libro, anche questo, a mio parere, significativo.
(Copiando da un PDF sono sparite le virgole, abbiate pazienza.)
"Signori, io naturalmente scherzo, e so bene che i miei scherzi non fanno ridere, ma non si può volgere tutto in scherzo. Io, forse, scherzo a denti stretti. Signori, dei problemi mi assillano; risolvetemeli. Ecco, voi, per esempio, volete far perdere all’uomo le vecchie abitudini e correggere la sua volontà, in conformità alle esigenze della scienza e del buon senso. Ma come fate a sapere che l’uomo non solo si possa, ma si debba riformare in questo modo? Da cosa deducete che sia così indispensabile per la volontà umana correggersi? Insomma, come fate a sapere che tale correzione porterà davvero un vantaggio all’uomo? E, se vogliamo dir tutto, perché siete così sicuramente convinti che il non andare contro i veri, normali interessi, garantiti dagli argomenti della ragione e dell’aritmetica, sia davvero sempre vantaggioso per l’uomo e sia legge per tutta l’umanità? Perché finora questa è soltanto una vostra supposizione. Ammettiamo che sia una legge della logica, ma può non esserlo affatto dell’umanità. Voi forse pensate, signori, che sia pazzo? Permettete che chiarisca. Sono d’accordo: l’uomo è un animale essenzialmente creatore, destinato a tendere consapevolmente a uno scopo e a esercitare l’arte dell’ingegneria, cioè a costruirsi eternamente e incessantemente una strada, non importa dove conduca. Ma ecco, forse, ogni tanto ha voglia di svicolare via proprio perché è destinato ad aprirsi quella strada, e ancora, forse, perché per quanto stupido in generale sia l’uomo immediato e d’azione, talvolta tuttavia gli viene in mente che quella strada, a quanto pare, conduce sempre non importa dove e che l’essenziale non è dove vada, ma solo che vada e che il bravo bambino, disdegnando l’arte dell’ingegneria, non si abbandoni a un ozio pernicioso, il quale, come è noto, è padre di tutti i vizi. L’uomo ama creare e costruire strade, questo è indubbio. Ma com’è che ama anche appassionatamente la distruzione e il caos? Ecco, ditemelo un po’! Ma su questo argomento voglio dire io stesso due parole a parte. Non sarà che ama tanto la distruzione e il caos (infatti è indubbio che talvolta li ama molto, è un dato di fatto), perché istintivamente teme di raggiungere lo scopo e di completare l’edificio che sta co- struendo? Che ne sapete, forse quell’edificio gli piace solo da lontano, ma non da vicino; forse gli piace solo crearlo, ma non viverci, e preferisce assegnarlo aux animaux domestiques, come formiche, montoni e via dicendo. Le formiche, infatti, hanno tutt’altri gusti. Loro hanno un edificio sorprendente di questo stesso genere, indistruttibile in eterno: il formicaio.
Col formicaio le stimabilissime formiche hanno cominciato, e col formicaio probabilmente finiranno, il che fa molto onore alla loro costanza e positività. Ma l’uomo è creatura frivola e disordinata e, forse, come il giocatore di scacchi, ama soltanto il processo del raggiungimento del fine, e non il fine in sé. E, chissà (non si può garantire), forse tutto il fine a cui tende l’umanità sulla terra consiste solo in questa continuità del processo di raggiungimento, in altre parole nella vita stessa, e non propriamente nel fine, che, s’intende, dev’essere null’altro che il due più due quattro, cioè una formula, perché due più due quattro non è già più la vita, signori, ma l’inizio della morte. Se non altro l’uomo ha sempre avuto una certa paura di questo due più due quattro, e io ne ho paura anche adesso."
Fëdor Dostoevskij
Memorie dal sottosuolo
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FrancescaR |
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Re: L'angolo della letteratura | #117 |
Mi sento vacillare
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* Quei bambini che giocano *
Un giorno perdoneranno se presto ci togliamo di mezzo. Perdoneranno. Un giorno. Ma la distorsione del tempo il corso della vita deviato su false piste l'emorragia dei giorni dal varco del corrotto intendimento: questo no, non lo perdoneranno. Non si perdona a una donna un amore bugiardo, l'ameno paesaggio d'acque e foglie che si squarcia svelando radici putrefatte, melma nera. "D'amore non esistono peccati", s'infuriava un poeta ai tardi anni, "esistono soltanto peccati contro l'amore". E questi no, non li perdoneranno.
Vittorio Sereni
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FrancescaR |
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Re: L'angolo della letteratura | #118 |
Mi sento vacillare
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* Inverno a Luino *
Ti distendi e respiri nei colori. Nel golfo irrequieto, nei cumuli di carbone irti al sole sfavilla e s'abbandona l'estremità del borgo. Colgo il tuo cuore se nell'alto silenzio mi commuove un bisbiglio di gente per le strade. Morto in tramonti nebbiosi d'altri cieli sopravvivo alle tue sere celesti, ai radi battelli del tardi di luminarie fioriti. Quando pieghi al sonno e dài suoni di zoccoli e canzoni e m'attardo smarrito ai tuoi bivi m'accendi nel buio d'una piazza una luce di calma, una vetrina.
Fuggirò quando il vento investirà le tue rive; sa la gente del porto quant'è vana la difesa dei limpidi giorni. Di notte il paese è frugato dai fari, lo borda un'insonnia di fuochi vaganti nella campagna, un fioco tumulto di lontane locomotive verso la frontiera.
Vittorio Sereni
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* Altro effetto di luna *
La trama del carrubo che si profila nuda contro l'azzurro sonnolento, il suono delle voci, la trafila delle dita d'argento sulle soglie,
la piuma che si invischia, un trepestìo sul molo che si scioglie e la feluca già ripiega il volo con le vele dimesse come spoglie.
Eugenio Montale
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FrancescaR |
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Re: L'angolo della letteratura | #119 |
Mi sento vacillare
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* Supplica a mia madre *
È difficile dire con parole di figlio ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere: è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame d'amore, dell'amore di corpi senza anima.
Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l'infanzia schiavo di questo senso alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l'unico modo per sentire la vita, l'unica tinta, l'unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile...
Pier Paolo Pasolini
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doktorenko |
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Re: L'angolo della letteratura | #120 |
Dubito ormai di tutto
Iscritto il: 7/8/2009
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Cominciamo oggi il secondo capitolo del nostro trattato. Dopo il linguaggio pedagogico delle cose, che tanta e così definitiva influenza ha avuto nel farti come sei, passiamo al linguaggio pedagogico dei tuoi coetanei: i quali, in questo momento della tua vita (quindici anni) sono i tuoi più importanti educatori.
Essi esautorano ai tuoi occhi sia la famiglia che la scuola. Riducono a ombre boccheggianti padri e maestri. E non hanno affatto bisogno di un grande sforzo per ottenere questo risultato. Anzi, non ne sono nemmeno coscienti. È sufficiente per loro - per distruggere il valore di ogni altra fonte educativa - semplicemente esserci: esserci così come sono.
Essi hanno in mano un'arma potentissima: l'intimidazione e il ricatto. Cosa, questa, antica come il mondo. Il conformismo degli adulti è tra i ragazzi già maturo, feroce, completo. Essi sanno raffinatamente come far soffrire i loro coetanei: e lo sanno molto meglio degli adulti perché la loro volontà di far soffrire è gratuita: è una violenza allo stato puro. Scoprono tale volontà come un diritto.
Vi investono tutta la loro vitalità intatta, e anche, naturalmente, la loro innocenza. La loro pressione pedagogica su te non conosce né persuasione, né comprensione, né alcuna forma di pietà, o di umanità. Solo nel momento in cui i tuoi compagni divengono amici scoprono forse persuasione, comprensione, pietà, umanità: ma gli amici sono quattro o cinque, al massimo. Gli altri sono lupi: e adoperano te come cavia su cui sperimentare la loro violenza e nei cui confronti verificare la bontà del loro conformismo. Il loro conformismo è acquisito di peso dal mondo degli adulti. Lo schema è identico. Ma tuttavia essi hanno sempre qualcosa di nuovo, rispetto agli adulti. Essi, cioè, vivono esistenzialmente valori nuovi rispetto a quelli vissuti, e codificati, dagli adulti. È in ciò che consiste la loro forza. È attraverso quel qualcosa di nuovo che essi, col loro modo di essere e di comportarsi (poiché si tratta di puro «vissuto»), vanificano il conformismo pedagogico degli adulti e si impongono come i veri reciproci maestri.
La loro «novità» non detta, e neanche pensata, ma solo vissuta, andando oltre il mondo degli adulti, lo contesta anche quando lo accetta totalmente (come accade nelle società repressive o addirittura fasciste). Tu sei schiacciato da tale «novità»: ed è questa «novità» - che tu temi di vivere imperfettamente, mentre la vedi vissuta perfettamente dai tuoi compagni - che costituisce il nucleo della tua ansia di apprendere.
Essa non può esserti insegnata dagli adulti (me compreso), e quindi tu, pur ascoltando gli adulti, pur mettendoci tutta la buona volontà ad assimilare il sapere dei padri - in realtà hai in cuore una sola assillante avidità: quella di condividere con i tuoi compagni, apprendendola da loro ossessivamente ogni giorno, questa novità. Insomma i tuoi compagni sono i depositati e i portatori di quei valori che sono gli unici che ti interessano. Anche se essi non sono che leggerissime, quasi impercettibili varianti dei valori dei padri.
Ci sono dei momenti storici - come quello che stiamo vivendo - in cui però i ragazzi credono anche di sapere quali sono i nuovi valori che essi vivono, oppure credono di sapere qual è il nuovo modo con cui essi vivono valori già istituiti. In questi momenti la forza di intimidazione e di ricatto dei giovani coetanei è ancora più violenta. Essi aggiungono, dentro lo schema del conformismo assimilato - come ai tempi delle orde - dall'ordine sociale paterno, una nuova dose di conformismo: quello della rivolta e dell'opposizione.
Il caso di una società esplicitamente repressiva o fascista non è dunque il nostro. Noi viviamo almeno nominalmente un periodo di democrazia parlamentare, di benessere e di tolleranza. Il «più» che vivono i ragazzi non è dunque un «più» fascista, un «più» di dedizione all'autorità: o almeno non è solo questo: c'è anche un «più» di disobbedienza, di anarchia, o di dedizione alla rivoluzione operaia.
Al tempo del fascismo, quando ero adolescente io, i miei compagni mi davano quotidianamente lezione non solo di come essere virili e volgari, ma anche di come essere teppisticamente lealisti all'autorità fascista. Oggi a te, i tuoi compagni impartiscono «repressive» lezioni non solo di attaccamento all'autorità, non solo di attaccamento all'autorità nel suo aspetto eversivo (fascista), ma anche - e certo soprattutto - di spirito rivoluzionario, comunista o extraparlamentare.
Contemporaneamente, tutti quanti, ti danno ogni giorno una tremenda lezione di come comportarsi e pensare in una società consumistica.
Come vedi siamo nella fossa dei serpenti. I casi sono infiniti e sempre ambigui. Non è facile aiutarti nella tua lotta di complessato e di debole contro tutti gli altri, forti in quanto singolarmente campioni della maggioranza. Tuttavia io cercherò, appunto, di aiutarti, anche se la via che ti indicherò sarà più difficile. Naturalmente dovremo restare per molto tempo su questo capitolo che riguarda i ragazzi tuoi coetanei, cercando di riordinare il groviglio in cui essi si affollano intorno a te, e da cui tu tuttavia deduci un unico e ben chiaro modo di essere.
15 maggio 1975 Lettere luterane di Pier Paolo Pasolini
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