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NERONE |
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Re: Il rifiuto dell’autorità | #1 |
Mi sento vacillare
Iscritto il: 13/9/2004
Da
Messaggi: 441
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E visto che mi ci trovo, appioppo pure io un fragoroso copia/incolla....alla bontà di chi vorra' leggerlo....
--- RIMOSSO
La Redazione (Abulafia) ---
Che il dovere morale parli dentro di noi con la stessa perentorietà con cui ci sovrasta il cielo stellato, secondo la nota formula kantiana, è idea che riflette una concezione straordinariamente ottimista dell’umanità, quella per cui basta dare ascolto a se stessi per comportarsi, nel complicato dai e prendi dei rapporti con gli altri, nel più virtuoso dei modi possibili, affermando la libertà propria senza ledere quella altrui. L’ipotesi contraria, quella per cui il dovere, dovunque abbia origine, ci viene presentato dal di fuori come legge da rispettare, asseverata dalla minaccia di adeguate punizioni per chi non vi si adegua, nasce da una considerazione forse un po’ più pessimista, ma certo largamente diffusa. Non è facilissima da giustificare sul piano teologico e religioso, visto che il mito della caduta, comunque formulato, convince solo fino a un certo punto; crea parecchi problemi ai filosofi, che tendono, all’uso socratico, a identificare virtù e conoscenza e fanno fatica a concepire un soggetto alieno da entrambe, ma trova tante conferme nella vita pratica che non c’è società umana che non l’abbia, più o meno esplicitamente, adottata. Di solito le due teorie vengono fatte (un po’ forzosamente) convivere. Si ammette che siamo tutti perfettamente capaci di distinguere il bene dal male, ma si aggiunge, o si sottintende, che nulla impedisce che questa capacità venga, per così dire, rafforzata dalla consapevolezza che a chi non farà la scelta “giusta” toccherà una certa dose di salutari legnate. La scelta giusta, naturalmente, è quella che ogni società si aspetta dai suoi membri in base ai parametri di comportamento che ha definiti (e da cui, tra parentesi, dipende anche il numero delle legnate da infliggere ai riottosi) e questo, a rigore, porrebbe il problema dei criteri che vengono impiegati per quella definizione, ma solo pochi, per fortuna, si arrampicano a questo livello dialettico. Cosa sia “giusto” o “sbagliato”, di solito, sono convinti di saperlo tutti. La legge morale dentro di me, dunque, e la legge della comunità (dello stato, nel nostro caso) fuori, e al di sopra, di me. Da questa difficile dualità sembra non si possa sfuggire. Naturalmente i due ambiti sono diversi e molto diversamente articolati. Io sono solo io e posso cercare soltanto di non entrare in contraddizione con me stesso, mentre la comunità organizzata ha meno problemi di coerenza e dispone, per far rispettare i propri parametri, di un imponente apparato di strumenti dissuasivi. Finché i due imperativi concordano, tutto fila abbastanza bene (anche i peccatori o i delinquenti, di solito, sono convinti di essere tali e di meritare una punizione, anche se non proprio quella che gli si vuole infliggere), ma è quando non corrispondono, nel senso che la società organizzata vuole che io faccia qualcosa che preferirei non fare, o viceversa, che cominciano i guai. Perché in questi casi, ahimè, il mio dovere non può che essere quello di cambiare la legge che sento ingiusta con tutti gli strumenti di cui riesco a disporre, senza badare al fatto che alcuni di quegli strumenti sono rigorosamente vietati dalla legge stessa. I codici e le costituzioni vigenti tendono a escludere, se non esplicitamente la rivoluzione, tutte le attività che a essa preludono e conducono. E allora? Se la mia libertà si limita a quella di accettare le normative che mi vengono sottoposte, più o meno forzosamente, dal di fuori, della legge morale dentro di me, con tutto il rispetto per Immanuel Kant, posso benissimo fare a meno. Mi può portare, in realtà, più problemi che vantaggi. Il fatto è che nulla esclude che le due leggi siano, almeno in certe circostanze, inconciliabili, il che significa che di una delle due, in quelle circostanze, bisogna saper fare a meno. Ed è sempre piuttosto difficile, si sa, che a cedere il passo sia la norma dello stato. Lo stato può sempre contare su ogni sorta di apparati giustificativi: le sue leggi ci sono state portata direttamente dalla vetta del Sinai, con accompagnamento di tuoni e fulmini, o nascono da un consenso che si presenta (o asserisce) come talmente ampio da trascendere ogni interesse personale o di gruppo. Oggi non si parla volentieri di “stato etico”, si tende anzi a relegarne il concetto nella storia del pensiero politico, ma ciò non toglie che tutti gli stati, quale che sia la dottrina in base a cui si giustificano, siano inguaribilmente etici, almeno nella misura in cui propongono una norma obbligata di comportamento e la considerano “giusta”. E forse bisogna rassegnarsi al fatto che l’unica possibilità di assicurare a tutti una pacifica convivenza sia quella di richiedere loro la rinuncia ai propri eventuali convincimenti in contrario con quella norma (come a dire alla propria libertà), presupponendo, o sperando, che il sistema cui gli si chiede di aderire non sia troppo determinato da interessi diversi da quello generale. Sì, se c’è una cosa di cui i ceti dominanti sono convinti è che il loro interesse coincida con quello di tutti, ma la storia ci insegna che, in questo, ogni tanto si sbagliano. L’altra ipotesi, quella di una società di liberi che agiscono soltanto in base al proprio convincimento, senza che questo leda l’opportunità degli altri di fare altrettanto, coincide con la teoria anarchica ed è, naturalmente, un’utopia. È in grado, come teoria, di risolvere quasi tutte le contraddizioni che abbiamo passato in rassegna, ma ha il difetto di non essere mai stata applicata e (forse) di non essere affatto applicabile. Da un certo punto di vista, questo è un vero peccato, del quale possiamo consolarci solo riflettendo su come il suo imperativo di fondo, l’accettazione del dovere etico e sociale per scelta, non per imposizione, sia condiviso, più o meno in buona fede, da tutti i sistemi politici storicamente noti. Un’altra contraddizione, certo, ma forse più apparente che reale. L’anarchismo, dopo tutto, non è un sistema: è una tensione, che alligna, in un modo o nell’altro, in ciascuno di noi e ci aiuta spesso a conciliare l’inconciliabile. Se non proprio il fine della storia, come credono i suoi ostinati seguaci, può rappresentare l’unica speranza che la storia ci offre. Carlo Oliva
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