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  Testimonianza da New Orleans - ciò che non viene detto in TV-

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Testimonianza da New Orleans - ciò che non viene detto in TV-
#1
Ho qualche dubbio
Iscritto il: 9/1/2006
Da Orione
Messaggi: 69
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Testimonianza da New Orleans - ciò che non viene detto in TV-
Nell’uragano

di Larry Bradshaw e Lorrie Beth Slonsky (Trad. M.G. Di Rienzo.)

Ringraziamo Maria G. Di Rienzo per averci messo a disposizione la sua traduzione di questa significativa testimonianza su ciò che è accaduto a New Orleans. I due autori dell’articolo, entrambi paramedici di San Francisco, si trovavano in visita a New Orleans quando l’uragano Katrina ha colpito. 11.9.2005

Due giorni dopo l’uragano il supermercato Walgreen, all’angolo delle strade Royal e Iberville, rimaneva chiuso. I prodotti erano ben visibili attraverso le vetrine. Erano 48 ore che la città era senza elettricità, acqua corrente, servizi idraulici. Latte, yogurt e formaggi stavano andando a male nel tremendo calore. I proprietari dei negozi avevano chiuso a chiave cibo, acqua, pannolini e medicinali, ed erano fuggiti dalla città. Fuori dalle vetrine di Walgreen, la gente stava diventando sempre più assetata ed affamata. Gli aiuti reiteratamente promessi a livello federale, statale e locale non si materializzavano, e le vetrine di Walgreen sono venute giù per il saccheggio.

Ci sarebbe stata un’alternativa. La polizia poteva rompere una piccola finestra, entrare, e distribuire il cibo e le bevande in maniera organizzata. Ma non è stato fatto. I poliziotti hanno preferito passare ore a giocare a “guardie e ladri”, cacciando i saccheggiatori solo temporaneamente. Noi siamo finalmente riusciti a lasciare New Orleans in aereo due giorni fa, e siamo arrivati a casa ieri (sabato 10 settembre u.s.). Dobbiamo ancora vedere un servizio televisivo o leggere un giornale, ma sospettiamo che i media siano stati inondati da immagini “eroiche” della Guardia Nazionale, dell’esercito e della polizia che lottavano per aiutare le vittime dell’uragano. Ciò che non vedrete mai, ma che noi abbiamo testimoniato con i nostri occhi, sono gli eroi e le eroine del soccorso umanitario: si tratta della classe lavoratrice di New Orleans. Gli operai della manutenzione che usavano i loro mezzi per portare i malati e i disabili. Gli ingegneri, che hanno fatto funzionare i generatori. Gli elettricisti, che hanno improvvisato collegamenti volanti per condividere la poca elettricità e liberare le auto incastrate nei parcheggi sopraelevati. Le infermiere, che hanno manovrato a mano per ore i ventilatori meccanici, soffiando aria nei polmoni di pazienti inconsci per tenerli in vita. Gli operai delle raffinerie, che hanno fatto irruzione nel porto dei barconi da lavoro, e li hanno “rubati” ed usati per salvare i loro vicini di casi aggrappati ai tetti delle loro case. I meccanici, che hanno messo in moto qualunque automobile trovassero affinché la persone potessero essere portate fuori dalla città. E i lavoratori delle mense e dei ristoranti, che hanno utilizzato le cucine commerciali e improvvisato pasti per centinaia e centinaia di persone rimaste senza nulla. La maggior parte di questi lavoratori e lavoratrici avevano perso le loro case, non sapevano nulla delle loro famiglie, eppure sono rimasti dov’erano ed hanno provveduto le sole infrastrutture a servizio di quel 20% di New Orleans che non era annegato.

Al secondo giorno, eravamo in circa 500 negli hotel del Quartiere Francese. Un misto di turisti stranieri, cittadini e gente come noi che avrebbe dovuto presenziare a conferenze. Alcuni avevano cellulari ed erano in contatto con familiari ed amici fuori città. Ci fu ripetutamente assicurato che ogni sorta di risorse, inclusa la Guardia Nazionale e dozzine di autobus, si stavano riversando in città. Forse erano risorse invisibili, perché nessuno di noi le ha viste. Decidemmo di salvarci. Perciò mettemmo in comune il denaro ed arrivammo a contare 25.000 dollari: il che ci avrebbe permesso di noleggiare, via telefono, 10 autobus. Chi non aveva i 45 dollari del biglietto sarebbe stato coperto da coloro che li avevano. Aspettammo i mezzi 48 ore, le ultime dodici all’esterno, condividendo quel poco di acqua, cibo e vestiario che avevamo. Ma gli autobus non arrivarono mai. Avremmo appreso più tardi che, giunti ai confini della città, erano stati sequestrati dall’esercito.

Il quarto giorno i nostri hotel avevano terminato le scorte di acqua potabile e carburante. La situazione degli impianti igienici era disastrosa. Mentre la disperazione e la paura crescevano, i crimini di strada crebbero altrettanto, allo stesso ritmo in cui saliva il livello delle acque. I padroni degli hotel ci cacciarono fuori e chiusero gli edifici, dicendoci che i governanti avevano ordinato che noi ci recassimo al centro di raccolta, ad aspettare i mezzi per andarcene. Al nostro ingresso in centro città, incontrammo finalmente la Guardia Nazionale. I suoi membri ci dissero che non saremmo stati ammessi al Superdome, perché là c’era l’inferno, e che l’unico altro rifugio, il centro di raccolta, stava rapidamente diventando simile, perciò la polizia non ci avrebbe permesso di entrare. Naturalmente chiedemmo: “Se non possiamo andare agli unici due rifugi in città, qual è l’alternativa?” Le Guardie risposero che era un problema nostro e che no, non avevano acqua da darci. Questo sarebbe stato solo il primo di numerosi incontri con insensibili ed ostili membri delle “forze dell’ordine”. Al comando di polizia di Canal Street ci dissero le stesse cose, che dovevamo arrangiarci da soli e che non avevano acqua da darci. Nel frattempo eravamo cresciuti sino a diventare circa settecento.

Tenemmo una specie di assemblea di massa per decidere cosa fare e ci accordammo sull’accamparci fuori dal comando di polizia. Saremmo stati visibili ai media, e fonte di imbarazzo per i governanti. La polizia ci ammonì che non potevano restare. Ci accampammo lo stesso. In breve arrivò il comandante, con la soluzione: dovevamo camminare lungo la Pontchartrain Expressway ed attraversare il grande Ponte di New Orleans, ed avremmo trovato gli autobus della polizia che ci avrebbero portati fuori città. La folla si rianimò di speranza e cominciò a muoversi, ma noi chiamammo tutti indietro. Spiegammo al comandante che avevamo avuto molte informazioni false o sbagliate e gli chiedemmo se era proprio sicuro di quel che diceva. Egli si girò verso la folla e rispose con molta enfasi: “Vi giuro che gli autobus ci sono!” Ci organizzammo, e in duecento partimmo per la destinazione indicataci, con grande ottimismo. Mentre camminavamo oltrepassammo il centro di raccolta, e vedendoci così determinati molti che ne erano rimasti fuori ci chiesero dove stessimo andando. Raccontammo la buona novella, e immediatamente intere famiglie raccolsero i loro pochi averi e si unirono a noi. Presto il nostro numero raddoppiò, e poi raddoppiò di nuovo. Ora con noi c’erano neonati nei carrozzini, gente con le stampelle, anziani che stentavano a camminare e persone in carrozzella. Finalmente, dopo 2 o 3 miglia di cammino, la strada inclinò verso il Ponte. Aveva cominciato a piovere a dirotto, ma questo non aveva spento il nostro entusiasmo. Come ci avvicinammo al Ponte, sceriffi armati formarono una linea ai piedi di esso. Prima che potessimo avvicinarci e parlare, avevano già cominciato a sparare sopra le nostre teste. Mentre la folla impazziva e si disperdeva, alcuni di noi continuarono ad avanzare e riuscimmo a parlare con alcuni degli sceriffi. Essi ci informarono che non c’erano autobus ad attenderci. Il comandante di polizia ci aveva mentito per farci spostare. Chiedemmo perché non potevamo attraversare il Ponte comunque, visto anche che c’era pochissimo traffico sulla sopraelevata. Ci risposero che la West Bank non intendeva diventare New Orleans, e che non c’erano Superdome nelle loro città. Queste sono parole in codice, che vanno tradotte così: “Se sei povero e nero tu non passerai il Mississippi e non uscirai da New Orleans.” Alla fine alcuni di noi si accamparono nel mezzo della Ponchartrain Expressway; avevamo convenuto che in quel modo saremmo stati visibili e più o meno al sicuro, nel mentre avremmo avuto un punto d’osservazione per l’arrivo dei fantomatici autobus. Per tutto il giorno famiglie, gruppi e individui tentarono di attraversare il ponte, solo per essere cacciati via. Alcuni con il fuoco dei fucili, altri con un semplice “no”, altri ancora con l’abuso verbale e l’umiliazione. A migliaia di abitanti di New Orleans è stato impedito di lasciare la città a piedi. Il nostro accampamento cominciò a crescere. Qualcuno rubò un camion pieno di bottiglie d’acqua e ce lo portò. Eccolo, il saccheggio! Un miglio circa più in giù sulla strada, un mezzo dell’esercito perse un paio di pallet piene di razioni d’emergenza nel prendere una curva stretta. Portammo il cibo all’accampamento utilizzando dei carrelli da spesa. Ora che avevamo le due necessità di base, l’acqua ed il cibo, la cooperazione, il senso di comunità e la creatività fiorirono. Organizzammo il servizio di pulizia, costruimmo letti con tavole di legno e cartoni, utilizzammo una conduttura di scolo come gabinetto e i bambini vi elaborarono una struttura, per garantire la privacy, fatta di pezzi di plastica, ombrelli rotti e altre macerie. Organizzammo persino un sistema di riciclaggio del cibo, in cui gli individui potevano scambiare parti delle razioni d’emergenza (diteci chi le pensa: succo di mela per i neonati, e caramelle per i bambini!). Questo processo lo abbiamo visto ripetersi ovunque, a New Orleans, nei giorni successivi l’uragano. Quando gli individui devono combattere per il cibo e l’acqua si curano solo di se stessi. Si farebbe qualsiasi cosa per avere l’acqua per i propri bambini, o il cibo per i propri genitori. Ma se questi due bisogni sono appagati, allora la gente si cerca, le persone si rivolgono l’una all’altra, e lavorano insieme, e costruiscono comunità. Se le organizzazioni di soccorso avessero saturato la città con cibo ed acqua nei primi due o tre giorni, la disperazione, la frustrazione, e l’immensa bruttezza che abbiamo visto non avrebbero preso piede. Non più braccati dal bisogno, noi offrivamo cibo ed acqua ai passanti. Molti decisero di restare con noi. Il nostro accampamento finì per contare una novantina di persone. Da una radio a pile venimmo a sapere che i media stavano parlando di noi. Eravamo in piena vista, per tutti: chiunque entrasse in città non poteva fare a meno di vederci. Ai governanti i giornalisti chiedevano cosa stavano facendo per quelle famiglie in mezzo alla strada. E i governanti rispondevano che avrebbero avuto cura di noi. Il nostro morale si abbassò immediatamente: “ci prenderemo cura di loro” era una frase che aveva in sé un sentore di minaccia.

Sfortunatamente, avevamo ragione. Giusto al tramonto si materializzò uno sceriffo, sceso al volo dalla sua auto, ci puntò in faccia un fucile e si mise ad urlare: “Via dalla fottuta strada!”. Un elicottero stazionava sopra di noi, e usò il vento delle pale per spazzare via le nostre incerte strutture. Mentre ci ritiravamo, lo sceriffo si portò via il camion che conteneva il nostro cibo e la nostra acqua. Fummo costretti dagli altri sceriffi a lasciare la strada. Tutti i membri delle forze dell’ordine sembravano impazzire di paura non appena le persone si riunivano in gruppi: in ogni assembramento di “vittime” vedevano disordini. Noi percepivamo sicurezza nel numero, ma il nostro “dobbiamo restare insieme” era impossibile per quanto ce lo ripetessimo. Le forze dell’ordine ci costringevano a dividerci in gruppi più piccoli.

Nel pandemonio che seguì la distruzione dell’accampamento, ci disperdemmo ancora. Rimasti in otto, nel buio, ci rifugiammo in uno scuolabus abbandonato, nei pressi di Cilo Street. Ci nascondevamo per paura dei criminali, ma egualmente e definitivamente ci stavamo nascondendo dalla polizia e dagli sceriffi, dalla loro legge marziale, dai loro coprifuochi e dalle loro scelte di sparare e uccidere.

Il giorno successivo incontrammo i vigili del fuoco della città e fummo finalmente condotti, con un piccolo aereo, vicino all’aeroporto. Da lì ci proseguimmo in custodia della Guardia Nazionale. I due giovani ufficiali si scusarono con noi per il poco aiuto che le Guardie della Louisiana avevano potuto dare. Ci spiegarono che una larga parte di loro si trova in Iraq, e che quelli che restano sono troppo pochi per tutto il lavoro che c’è da fare. Quando arrivammo all’aeroporto, esso si era trasformato in un inferno come il Superdome. Noi otto restammo incastrati in un costante flusso di umanità, mentre i voli venivano sospesi diverse ore per dar modo a George Bush di atterrare per pochi minuti e farsi una foto. Infine, ci trasportarono a San Antonio, in Texas.

Le umiliazioni e la deumanizzazione continuarono. Fummo portati in autobus a grandi campi dove fummo costretti a restare seduti per ore e ore. Chi aveva con sé ancora qualcosa, spesso in borse di plastica semi sfondate, fu soggetto due volte alla perquisizione con cani poliziotto che sniffavano in cerca di droga. Non avevamo mangiato in tutto il giorno, perché le razioni d’emergenza c’erano state confiscate all’aeroporto: i loro contenitori facevano suonare i metal detector. Nessuno pensò di provvedere del cibo ad uomini, donne, bambini, anziani e disabili mentre sedevano per ore in attesa dello screening medico, che doveva assicurare come non stessimo portando con noi malattie contagiose.

Questo trattamento ufficiale è stato in netto contrasto con il caldo, affettuoso benvenuto datoci dagli ordinari texani. Abbiamo visto un lavoratore delle linee aeree togliersi le scarpe per darle ad un uomo che non le aveva. Estranei totali ci offrivano denaro, oggetti da toilette, parole di conforto. Il soccorso “ufficiale”, per contrasto, è stato insensibile, inetto e razzista. C’è stata molta più sofferenza di quanta ne avesse prodotta l’uragano. E sono andate perdute vite che non c’era alcun motivo di perdere.




Giovedì, 15 settembre 2005

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Inviato il: 20/2/2006 12:54
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  •  fiammifero
      fiammifero
Re: Testimonianza da New Orleans - ciò che non viene detto in TV-
#2
Sono certo di non sapere
Iscritto il: 28/2/2005
Da ROMA
Messaggi: 5691
Offline
Orione,quello della via lattea?
allora ecco alcuni aggiornamenti su New Orleans vedi anche gli articoli correlati
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Citazione:
le cose di cui ci sentiamo assolutamente certi non sono mai vere (Oscar Wilde)
Inviato il: 20/2/2006 13:34
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