L'ideologia della Provocazione - Un breve saggio di Enrico Voccia


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Enrico Voccia




color="#000000">L'ideologia della provocazione



di Enrico Voccia




 



Premessa




color="#000000">La simulazione è un concetto semanticamente assai
ambiguo. Una delle tante ambiguità che le sono strutturalmente connesse
è quella relativa alla dimostrabilità o meno della volontarietà di un
meccanismo simulatorio in atto. Da questo punto di vista, la premessa
metodologica del comportamentismo si dimostra, in un caso come quello
che analizziamo, valida. Noi non possiamo presumere a priori le
motivazioni mentali alla base di un comportamento simulatorio, dal
momento che ogni dichiarazione in merito può essere parte della
simulazione stessa e, di conseguenza, non costituire una
metacomunicazione chiarificatrice su di essa. Ciononostante, esistono
comportamenti simulatori che, anche se non distinguibili oggettivamente
come tali caso per caso, devono di necessità, per la logica stessa del
loro funzionamento, essere volontari o involontari. Può essere allora
interessante analizzare due casi limite di ognuna di queste categorie
di atti simulatori, per scoprirne tratti in comune, specificità,
interazioni.



 



Una
simulazione involontaria: l'ideologia



face="Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif" color="#000000">Per ideologia
non intendiamo qui un generico sistema di idee, bensì quei determinati
e particolari meccanismi — mentali, politici e sociali allo stesso
tempo — che posseggono alcune caratteristiche del tutto specifiche:




  1. face="Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif" color="#000000">Il
    sistema di idee in questione si propone come realizzatore di obiettivi
    altamente desiderabili, generalmente per l'umanità nel suo complesso.




  2. face="Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif" color="#000000">Tradotto
    in prassi politico/sociale, gli obiettivi previsti dal meccanismo
    ideologico non sono raggiunti e, al loro posto, si ottengono risultati
    assolutamente controproducenti rispetto alla soddisfazione dei bisogni
    e dei desideri della maggior parte delle persone e, solitamente,
    perfettamente rispondenti a quelli della sola minoranza dominante.




  3. face="Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif" color="#000000">Paradossalmente,
    proprio in virtù di tali plateali fallimenti, tale sistema d'idee è in
    grado di continuare ad essere circondato da una particolare luce di
    positività. Esso è infatti in grado di ricondurre — "ideologicamente" —
    il suo materiale fallimento rispetto agli obiettivi propagandati, non
    alla sua concreta prassi politico/sociale bensì ad una "cattiva
    applicazione" di questa.




  4. face="Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif" color="#000000">In virtù
    di tale sua caratteristica, questo sistema di idee permane a lungo
    nella mente e nei comportamenti delle classi dominate e risulta di
    difficile estirpazione, continuando a produrre i propri effetti di
    subordinazione delle classi soggiogate, che sembrano nei suoi confronti
    in preda ad una sorta di coa-zione a ripetere, apparentemente incuranti
    dei fallimenti a ripetizione e dei relativi danni che esso gli procura.






face="Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif" color="#000000">Un'ideologia
è dunque un classico esempio di simulazione involontaria, che si
distingue dalla truffa proprio per il suo carattere inconscio. Nel caso
che intendessimo truffare una persona vendendogli, ad esempio, un
videoregistratore finto, saremmo perfettamente coscienti dell'imbroglio
e, noi, un tale oggetto non l'acquisteremmo mai. Se, invece, fossimo
preda di un tipico meccanismo ideologico, non solo cercheremmo di
"venderlo" ad altri propagandolo, ma lo faremmo innanzitutto nostro,
"acquistandolo" in prima persona e pagandone il relativo prezzo. É per
questo motivo che l'ideologia ha una maggiore potenza di propagazione
virale rispetto alla banale truffa. Mentre il truffatore gode
platealmente i vantaggi dell'azione, svoltasi tutta a nostro danno,
l'ideologo assai spesso non riceve alcun vantaggio dalla sua adesione
comportamentale al meccanismo ideologico, anzi ne condivide con gli
altri i danni. Per cui, se è raro che il truffatore imbrogli due volte
di seguito la stessa persona, l'ideologo appare, anzi è, in perfetta
buona fede e, denunciando il mancato raggiungimento degli obiettivi
come dovuto a cause esterne all'ideologia stessa, può continuare a
propagarne il meccanismo, proiettandone potenzialmente all'infinito i
danni.


face="Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif" color="#000000">Ovviamente
c'è anche chi, appartenendo alle classi dominanti, riceve notevoli
vantaggi dalla prassi sociale innescata dall'ideologia e, di
conseguenza, se ne fa anch'esso propagatore. Nonostante le apparenze
però, il suo ruolo nella nascita, sopravvivenza e diffusione
nell'"ecologia delle idee" del meccanismo ideologico è secondario: egli
appare agli occhi delle masse più come un truffatore cosciente che
altro, venendo etichettato, all'interno stesso del meccanismo
ideologico, come una sorta di profittatore dell'idea, un "profanatore"
di essa. Si pensi, solo per fare un esempio, all'immagine che semplici
fedeli e basso clero di un po' tutte le religioni hanno del rapporto
delle loro alte gerarchie con la religione in quanto tale. Questa non è
vissuta come il fondamento ideologico dei privilegi goduti dai loro
superiori, bensì come la "pura fonte" che questi, con il loro
comportamento e la loro posizione nella gerarchia sociale, profanano e
che occorre ricostituire nella sua purezza originaria. Lo stesso,
sostanzialmente, può dirsi per il rapporto base/vertice nei movimenti
politico/sociali organizzati gerarchicamente.


face="Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif" color="#000000">Da questo
punto di vista l'ideologia possiede un'affinità formale con la
provocazione perfetta — quella in cui polizie o servizi segreti
riescono a convincere l'"utile idiota" a compiere direttamente l'azione
provocatoria. In questo caso, infatti, possono essere le stesse vittime
ad abbracciare la loro croce, difendendola a spada tratta contro ogni
evidenza contraria, mostrando in pieno la loro "buona fede" nel subire
insieme con gli altri le conseguenze negative delle loro azioni,
anch'esse, come vedremo, ideologicamente condizionate.



face="Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif" color="#000000"> 


color="#000000">Una simulazione volontaria: la provocazione


face="Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif" color="#000000">Un'azione
provocatoria è invece un classico esempio di simulazione volontaria.
Abitualmente nel bel mezzo della crescita di un movimento
d'opposizione, viene compiuta — o fatta eseguire da quello che nel
gergo dei servizi segreti si definisce l'"utile idiota" di turno —
un'azione armata, le cui caratteristiche sono pressappoco le seguenti:




  1. face="Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif" color="#000000">L'azione
    in questione è rivolta o contro una parte della società "neutra"
    rispetto allo scontro in atto (e rispetto alla cui presa di posizione
    si svolge una battaglia politica tra l'apparato di potere e gli
    oppositori) o — in apparenza — contro lo stato stesso.




  2. face="Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif" color="#000000">L'azione
    è in varie maniere rivendicata o a nome di qualche parte del movimento
    d'opposizione (per giustificare la repressione complessiva di
    quest'ultimo e/o innescare processi di desolidarizzazione al suo
    interno), oppure a nome di un nemico paraistituzionale di questi (per
    compattare il movimento antigovernativo intorno alla struttura statale
    contro il "nemico comune").




  3. face="Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif" color="#000000">Una
    provocazione ben costruita è tipicamente ambigua. In altri termini,
    tale azione è volta ad ingenerare nel movimento d'opposizione
    l'irrisolvibile dubbio che essa possa essere stata effettivamente
    compiuta da qualche propria "scheggia impazzita", e/o la falsa certezza
    della colpevolezza del nemico politico paraistituzionale. Sia il dubbio
    sia la falsa certezza ingenerano automaticamente nel movimento
    un'enorme difficoltà a reagire in modo opportuno. In un caso, per paura
    di criminalizzare ulteriormente dei "compagni che sbagliano" ma che, in
    ogni modo, non sono "soggettivamente" dei provocatori, o, al contrario,
    per la frettolosa volontà irrazionale (scusa non richiesta, accusa
    manifesta) di dissociarsi al più presto possibile dai presunti
    provocatori, "soggettivi" o "oggettivi" che siano. Nell'altro caso, per
    l'automatica reazione di sdegno contro il nemico politico e/o per
    scaricare immedia-tamente su di lui eventuali responsabilità. Tutte
    queste reazioni sono proprio quelle volute dall'azione provocatoria.
    Esse conducono, le prime due, ad una sorta d'autorivendicazione
    dell'atto provocatorio; l'ultima, ad un'alleanza di fatto con lo Stato
    che si stava combattendo; in tutti i casi ad una paralisi, per lo meno
    momentanea, del movimento nei confronti dei suoi obiettivi iniziali.




  4. face="Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif" color="#000000">Il dubbio
    e la confusione aumentano nel movimento in maniera esponenziale se lo
    stato, invece di compiere in prima persona l'azione incolpandone poi
    altri, riesce a farla compiere all'utile idiota di turno. Il massimo si
    raggiunge quando i corpi dello stato riescono a far eseguire da
    infiltrati su cui non gravano sospetti — o addirittura da persone in
    buona fede — un'azione in sé per lo meno "giustificabile" agli occhi
    del movimento antigovernativo, ma che per motivi "accidentali", per un
    "errore", ecc., si trasforma in un'azione esecrabile.




  5. face="Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif" color="#000000">Immediatamente
    dopo l'azione provocatoria parte una massiccia campagna di
    disinformazione da parte dei mass-media di regime, mentre si
    intralciano e criminalizzano le strutture di controinformazione dei
    movimenti d'opposizione. S'impedisce così la comunicazione corretta
    sull'accaduto, costringendo lo stesso movimento antigovernativo a
    parametrare, almeno in un momento iniziale, le proprie opinioni sulle
    informazioni fornite ad arte dallo Stato.




  6. face="Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif" color="#000000">Quanto
    finora detto, utilizzando a scopo esemplificativo lo stato ed i
    movimenti di opposizione ad esso, è ampiamente replicabile all'interno
    dei singoli corpi sociali. Le dinamiche descritte restano
    sostanzialmente le stesse anche quando sono parti dello Stato a porsi
    l'obiettivo di provocare altri corpi dello Stato, quando parti dei
    movimenti di opposizione fanno lo stesso nei confronti di alcuni loro
    compagni di strada, ecc.






face="Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif" color="#000000"> 


color="#000000">Il "dilemma dei prigionieri"



color="#000000">Una provocazione struttura quindi un contesto di
totale indecidibilità, da parte dei movimenti d'opposizione, sulla
condotta da tenere e determina, solitamente, paralisi o atteggiamenti
del tutto irrazionali rispetto allo scopo. I movimenti d'opposizione
vengono, in pratica, a trovarsi in una situazione molto simile al
"dilemma dei prigionieri" presentato e studiato dalla Teoria dei Giochi.





color="#000000">Un giudice istruttore sta trattenendo due uomini
sospetti di rapina a mano armata. Le prove sono insufficienti (...)
[dice allora loro] che per farli condannare ha bisogno di una
confessione. Non nasconde che se nessuno dei due confessa, può
accusarli soltanto del possesso illegale di armi da fuoco,
un'imputazione che comporta sei mesi di reclusione. Se entrambi
confessano riceveranno la condanna minima prevista per la rapina a mano
armata, cioè due anni. Tuttavia, se a confessare è soltanto uno dei
due, questi sarà considerato testimone di stato e verrà liberato,
mentre l'altro riceverà vent'anni, la sentenza massima prevista dalla
legge. Senza dare ai due uomini l'opportunità di giungere ad una
decisione unanime, il procuratore li fa rinchiudere subito in due celle
separate in modo che non possano comunicare.


color="#000000">[Ai prigionieri], dal momento che sei mesi di prigione
sono senz'altro il male minore in paragone ai due anni, per non parlare
dei venti, la logica detta loro di non confessare. Ma giunti a questa
conclusione, nella solitudine delle loro celle separate, sorge nella
loro mente un dubbio: "E se il mio compagno (...) approfitta della
situazione e confessa? In tal caso lui viene liberato, ed è questa la
cosa più importante per lui, e io non ricevo più sei mesi, bensì
vent'anni. Pertanto (...) sarò più al sicuro confessando, poiché se lui
non confessa, sarò io a essere liberato. Ma (...) se faccio questo, non
solo tradisco la fiducia del mio compagno (...) [ma] se lui è sleale
quanto me (...) confesseremo tutti e due e saremo condannati a due
anni, un esito peggiore dei sei mesi che potremmo ricevere se negassimo
entrambi il crimine". (...)


color="#000000">Le situazioni umane tipiche del dilemma dei
prigionieri (...) insorgono ogni qual volta due o più persone vengono a
trovarsi in uno stato di disinformazione conseguente alla necessità di
prendere una decisione in comune, e per una ragione o per l'altra non
possono comunicare e accordarsi sul corso di azione migliore. Nel caso
dell'originale dilemma dei prigionieri abbiamo visto che esistevano due
ragioni per questa incapacità di giungere ad una decisione definitiva:
la mancanza di fiducia e l'impossibilità di comunicare. Nelle
situazioni di vita reale uno solo di questi fattori è già sufficiente
per creare un punto morto. (...)


color="#000000">Ma si deve decidere, e quindi cosa si può fare? La
risposta non è semplice e, come accade spesso con problemi difficili,
la domanda più semplice è: cosa non si deve fare?


color="#000000">É evidente che la decisione non va presa sulla base
del proprio giudizio meditato (che è l'unico criterio importante in una
decisione non interdipendente). Piuttosto la mia decisione deve basarsi
sulla mia meditata supposizione riguardo a quale l'altra persona
riterrà essere la soluzione migliore e, esattamente come nel caso dei
due prigionieri, la decisione dell'altra persona sarà a sua volta
determinata da quel che lui pensa che io pensi sia la decisione
migliore. Troviamo pertanto che tutte le decisioni interdipendenti,
nell'assenza di comunicazione aperta e libera, si basano su questo
regresso teoricamente infinito di quel che penso che lui pensa che io
penso che... (...)


color="#000000">Una decisione interdipendente, per riuscire
(nell'assenza di comunicazione diretta), deve basarsi su qualche
"visione del mondo" comune a entrambe le parti, su qualche assunto
tacitamente condiviso, o su qualche elemento che, per la sua evidenza,
la sua eminenza fisica o metaforica o qualche altra sua qualità unica,
si distingua particolarmente dalle altre numerose possibilità
egualmente presenti nella maggior parte delle situazioni.





color="#000000">É da notare ora che i prigionieri potrebbero essere
anche entrambi innocenti (di conseguenza il comportamento del giudice
potrebbe inserirsi in un'azione provocatoria vera e propria) e,
ciononostante, potrebbero trovarsi a decidere entrambi di confessare un
delitto non commesso. L'azione provocatoria tende a creare esattamente
contesti di tal genere, in cui svanisca il senso stesso del termine
"evidenza" ed il tessuto sociale colpito si trovi letteralmente
avviluppato dall'ambiguità radicale della provocazione.



 



Il
"dilemma dei movimenti"




color="#000000">Utilizziamo ora il modello del dilemma dei prigionieri
per comprendere il "dilemma dei movimenti" politici antigovernativi
sottoposti ad una provocazione. Innanzitutto, tali movimenti sono di
solito compositi ed eterogenei, ed esistono ordinariamente forti
battaglie tra le varie componenti per la supremazia. Lo Stato, nel
portare avanti l'azione provocatoria, fida nel fatto che le gelosie
reciproche renderanno difficile prendere le decisioni corrette; ad ogni
buon conto, provvede a rendere ancor più difficile la comunicazione —
isolando i prigionieri eventualmente accusati dell'atto, veicolando
campagne di stampa depistanti, operando arresti e perquisizioni a
tappeto, ecc.


color="#000000">L'ambiguità dell'azione provocatoria compiuta o fatta
compiere dallo stato mette quindi il movimento antigovernativo in una
situazione di stallo. Questi non ha sufficienti informazioni e/o
fiducia sul fatto di essere "del tutto innocente" per agire in modo
efficace. Puntando tutto sulla sua "innocenza", corre il rischio di
risultare "colpevole" agli occhi delle masse per via
dell'incriminazione senza possibilità di scampo di qualche propria
componente. Accentrando invece la propria strategia di difesa sulla
colpevolezza e/o provocatorietà ("soggettiva" o "oggettiva") di una
qualche "scheggia impazzita" senza potere oggettivamente dimostrare
tale premessa, corre il rischio di creare spaccature al proprio
interno. Il risultato finale di tale situazione di stallo sono reazioni
disordinate ed inefficaci.



 



Le
autoprovocazioni dei movimenti



color="#000000">Al movimento in questione viene insomma a mancare un
elemento unitario di decisione in tali frangenti, una "visione del
mondo comune" sul da farsi. In effetti una visione del mondo tesa ad
annullare gli effetti dell'azione provocatoria si scontra con due
enormi condizionamenti mentali che, solitamente, sono presenti in modo
forte nella mentalità dei militanti dei movimenti antigovernativi:
innanzitutto un irrazionale sentimento di responsabilità collettiva e,
in secondo luogo, un fraintendimento del concetto di solidarietà.


color="#000000">Abbiamo ricordato che all'interno dei movimenti
d'opposizione antigovernativi si svolgono lotte feroci per il
predominio politico. V'è però almeno una fase in cui tutte le tendenze
che lottano per la conquista del potere politico svolgono una strategia
comune: quella di trasformare l'abitudine dei militanti allo scontro
contro il nemico comune in una sorta di sentimento di "appartenenza al
branco". Tale strategia si concreta nella demonizzazione di fatto del
dissenso, nell'invocazione dell'"unità del movimento" contro il nemico
comune, nelle accuse di "essere fuori dal movimento" rivolte contro
chiunque non vuol rinunciare alla propria opinione e conseguente prassi
politica. Un irrazionale senso di responsabilità collettiva invade così
completamente il movimento d'opposizione invischiatosi in tali
tentativi di unitarietà politica a tutti i costi.


color="#000000">Tale senso di responsabilità collettiva porta
istintivamente i militanti di movimenti d'opposizione (che contano
magari milioni d'aderenti e decine di componenti interne!) a sentirsi
irrazionalmente responsabili della condotta politica di tutti gli altri
membri. Un tale "sentimento del branco" è tra le cose che invischiano i
movimenti antigovernativi nelle trame di una provocazione statale. Si
tratta di un sentimento del tutto inutile operativamente — essendo
impossibile un tale paranoico controllo — ma che crea nella mente dei
militanti d'opposizione un ineliminabile senso di corresponsabilità per
l'eventuale altrui idiozia. Accade così che il senso di responsabilità
collettiva porti il movimento a comportarsi come l'innocente che, di
fronte alla polizia, pensa di poter essere in qualche modo ritenuto
corresponsabile di un delitto perché conosceva, anche se in maniera del
tutto accidentale, l'assassino. Tali suoi comportamenti "nervosi",
verbali e non verbali, verranno in modo implicito e/o esplicito
veicolati dai mass-media alle masse come segni di "colpevolezza
collettiva", rendendo difficile la credibilità della strategia di
difesa contro la provocazione.


color="#000000">Altro elemento di difficoltà è, come dicevamo, un
malinteso senso di solidarietà. É tradizionale nei movimenti, di fronte
agli autori di un'azione avente le caratteristiche della
provocatorietà, operare la classica distinzione tra il provocatore
"soggettivo" (l'infiltrato vero e proprio) e quello solamente
"oggettivo" (il "compagno che sbaglia" in buona fede). Tale distinzione
può anche avere un fondamento: il problema è che il solo tentare di
porla aumenterà a dismisura l'ambiguità dell'azione provocatoria,
rafforzandola enormemente.


color="#000000">Cercando di operare tale distinzione si entra difatti
in un terreno a dir poco minato, dal momento che è assolutamente
impossibile distinguere tali elementi in modo oggettivo. Il tentativo
di discernere il provocatore "soggettivo" da quello solamente
"oggettivo", per comportarsi conseguentemente, avrà dunque il solo
effetto di creare spaccature e nuove lacerazioni nel movimento tra chi
rivendica al movimento — di là dall'oggettivo errore compiuto —
l'autore dell'atto provocatorio e chi nutre forti dubbi in proposito.
Gli effetti negativi di un'azione provocatoria, compiuta in buona fede
o meno nei confronti di un movimento, possono così durare decenni.



 



Il
"compito in classe del tutto imprevisto ed imprevedibile"



color="#000000">Come possono i movimenti antigovernativi difendersi
dalle provocazioni degli organi dello Stato? Almeno in teoria, la
faccenda non è impossibile da affrontare, dal momento che il carattere
di strutturale ambiguità dell'azione provocatoria la rende facilmente
riconoscibile. In realtà, è solo il tentativo di volerla analizzare
troppo in profondità — in particolare l'impossibile ma fascinosa
lusinga di cercare di capire se si tratti di una provocazione statale
diretta o dell'azione di "utili idioti", "schegge impazzite", ecc. —
che avviluppa il movimento in una spirale di contraddizioni e lo riduce
all'impotenza.


color="#000000">Ancora una volta la Teoria dei Giochi può offrirci uno
spunto interessante per comprendere la situazione. La situazione
analizzata è quella di una classe che ha completa fiducia nel fatto che
il suo professore mantiene sempre le sue promesse. Un sabato questi si
presenta in aula ed annuncia alla classe: "La prossima settimana vi
sarà un compito, in un giorno per voi del tutto imprevisto ed
imprevedibile".


color="#000000">É ovvio che l'intenzione del docente è di esaminare i
suoi allievi un giorno in cui essi non si siano specificamente
preparati ad affrontare un lavoro scritto. Alcuni studenti tra i più
"intelligenti" cercano di affrontare il problema. Cominciano con
l'escludere il sabato come possibile giorno del compito in base al
seguente ragionamento: "Se saremo arrivati fino il venerdì senza che ci
sia stato il preannunziato compito imprevisto, non potrà certamente
esserci il sabato, perché altrimenti il compito non sarebbe più, per
definizione, imprevisto". Non appena essi hanno escluso il sabato, essi
si rendono conto che un tale ragionamento è perfettamente ripetibile
anche per il venerdì, anzi per tutti gli altri giorni della settimana
prossima: "Se abbiamo già escluso il sabato, allora il compito
imprevisto non potrà esserci nemmeno il venerdì; ma allora neanche il
giovedì, il mercoledì e il martedì, poiché lo stesso trascorrere dei
giorni ci offrirebbe di volta in volta informazioni sul giorno del
compito, rendendo tali giorni prevedibili e, quindi, inadatti allo
svolgimento di un compito imprevisto. Resterebbe solo il primo giorno
della settimana, il lunedì, ma proprio per ciò esso è il più
prevedibile di tutti ed è quindi anch'esso da scartare."


color="#000000">Questi studenti comunicano il loro ragionamento,
acquistando vari consensi sul fatto che il professore non può assegnare
alcun compito in un giorno del tutto imprevisto ed imprevedibile —
dunque non ne assegnerà nessuno. Ma il professore faceva affidamento
proprio su tale ragionamento per rendere del tutto imprevisto ed
imprevedibile l'assegnazione di un compito durante la settimana
seguente. Questo così potrà arrivare in un qualsiasi giorno e
ciononostante essere davvero del tutto imprevisto ed imprevedibile,
cogliendo così alla sprovvista la maggior parte della classe.


color="#000000">Gli studenti, insomma, si sono raggirati da soli
proprio tramite il tentativo di capire il giorno in cui poteva arrivare
il compito "del tutto imprevisto e imprevedibile". Si sono salvati,
nella classe, preparandosi al compito, gli studenti troppo "stupidi"
per seguire i compagni intelligenti nei loro ragionamenti ed hanno
colto, nel discorso del professore, solo l'informazione essenziale —
che in un giorno della settimana seguente si sarebbe svolta una
verifica delle loro conoscenze. Si sono salvati anche gli studenti
molto intelligenti, che hanno compreso che il tentativo stesso di
cercare di comprendere la data del compito era ciò che lo rendeva "del
tutto imprevisto ed imprevedibile", adeguandosi perciò alla prassi
degli studenti "stupidi" (ma fino a che punto, vista la magra figura
dei loro compagni "intelligenti"?).


color="#000000">I movimenti antigovernativi dovrebbero perciò
rifiutare le false alternative — "soggettività" o "oggettività",
"colpevolezza" o "innocenza" — innescate dall'azione provocatoria dello
stato. Dovrebbero, invece, accentrare la loro attenzione esclusivamente
sul fatto che un'azione provocatoria è stata compiuta, e che occorre
assolutamente mettere fuori gioco la sua potenza devastante — insomma
toglierne di mezzo l'ambiguità.



 



L'ideologia
all'opera



color="#000000">Come nella provocazione è simulata un'inesistente
azione armata contro se stessi, nell'ideologia troviamo la simulazione
di un altrettanto inesistente rapporto mezzi/fini nell'azione politica.
In entrambi i casi il risultato è un "vantaggio di posizione" a tutto
favore delle classi dominanti. Per approfondire i legami che uniscono
strutturalmente la simulazione volontaria della provocazione con la
simulazione involontaria dell'ideologia, analizzeremo ora un caso
specifico. Il nostro intento sarà quello di mostrare all'opera i
meccanismi di formazione, sopravvivenza e diffusione di un meccanismo
ideologico oggi assai diffuso: "La situazione attuale è dovuta al fatto
che finora abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi, per cui se
vogliamo uscire dalla crisi adesso occorre che facciamo sacrifici".


color="#000000">La situazione, ben conosciuta, è la seguente. I
governi di tutto il mondo piangono miseria, sbandierando ai quattro
venti lo spettro della recessione e di un deficit pubblico simile ad un
baratro senza fondo; allora, per "combattere" detta recessione e
contemporaneamente risanare le finanze statali, tagliano le spese ed
aumentano le entrate. Le spese tagliate sono solitamente quelle
cosiddette sociali (assistenza sanitaria, servizi pubblici, ecc.) e le
nuove entrate sono ricavate quasi esclusivamente dal reddito della
classe lavoratrice. Contro le previsioni, immancabilmente, anno per
anno, il deficit di bilancio aumenta e la recessione pure. I governi
allora piangono nuove lacrime e invitano "tutti" ad ulteriori
sacrifici, aumentando le tasse e diminuendo le spese con le stesse
modalità di prima, dopo di che l'anno dopo ci si accorge nuovamente che
deficit e recessione aumentano invece di diminuire; quindi la storia
ricomincia identica.


color="#000000">Il motivo fondamentale di tale situazione, in
apparenza alquanto strana, per cui uno stato tutto teso al risparmio
non fa che aggravare il suo deficit, è in realtà assai semplice: gli
stati riconvertono tutti i denari "risparmiati" in finanziamenti
versati più o meno direttamente nelle tasche delle grandi aziende
pubbliche e private. Il meccanismo è il seguente. Gli stati accusano in
continuazione i lavoratori di "guadagnare troppo", d'essere sino a
questo momento "vissuti al di sopra dei propri mezzi" (o meglio, di
quelli della nazione) e, di conseguenza, d'essere la causa della
recessione in atto. Riducono pertanto il salario reale di questi
ultimi, i quali ovviamente sono costretti a contrarre i propri consumi;
tale fatto di per sè aggrava la recessione in atto. Le grandi aziende
allora chiedono allo stato varie forme di finanziamento a fondo perduto
per assorbire le conseguenze delle minori spese dei lavoratori
salariati, finanziamenti che lo stato regolarmente concede chiedendo,
al contempo, nuovi sacrifici ai lavoratori per contenere il deficit.
Grazie a questi nuovi sacrifici i salariati hanno ancora meno soldi da
spendere, la recessione riprende, le grandi aziende ottengono nuovi
finanziamenti dallo stato, questo impone ai lavoratori nuovi sacrifici,
ecc.


color="#000000">Resta da domandarsi perché i lavoratori non riescano a
ribellarsi a questo stato di cose. Il fatto è che la maggioranza di
essi é più o meno consciamente convinta che la colpa della recessione é
tutta loro, che essi in pratica "guadagnano troppo" per permettere
l'ordinato svolgersi dell'accumulazione capitalistica — mentre la causa
reale della recessione é esattamente l'inverso: che essi guadagnano
troppo poco per sostenere la crescita dell'economia in un momento dato.
I sindacalisti quindi, nei confronti con la base, si giustificano col
fatto che i sacrifici cui hanno dato il loro consenso sono rivolti ad
evitare il male peggiore in tempo di crisi, in altre parole i
licenziamenti a catena; i lavoratori solitamente mugugnano, fischiano,
alzano anche le mani ma, alla fine, lasciano stare solitamente le cose
come stanno. Ovviamente la minaccia dei licenziamenti é una cosa di cui
non si dovrebbe tenere alcun conto — tanto questi avverranno in ogni
caso, visto che grazie alla politica "risanatrice" del governo la
recessione aumenterà proprio a causa di questi stessi sacrifici — ma i
lavoratori sono oramai entrati in questo perverso gioco di
autocolpevolizzazione e nella gran maggioranza dei casi non sanno
chiedere altro che nuovi finanziamenti a fondo perduto alle proprie
imprese in crisi, perpetuando in una spirale perversa la propria
miseria materiale e sudditanza politica.


 



La
simulazione involontaria della vittima come fondamento della
simulazione volontaria del carnefice




color="#000000">Ora possiamo giungere a comprendere un dato
fondamentale: ciò che definivamo in precedenza le "autoprovocazioni"
dei movimenti, non sono altro che meccanismi ideologici. In apparenza
il ragionamento dei lavoratori che si ritengono in qualche misura
"colpevoli" della recessione in atto, sembra avere un "ovvio"
fondamento. In fin dei conti, se una famiglia è rovinata dai debiti,
ciò non significa che "è vissuta al di sopra dei propri mezzi", in
altre parole che ha speso in misura maggiore delle proprie entrate? Ciò
non varrà dunque, così si dice o sottintende, anche per quella "grande
famiglia" che in fondo è una nazione?


color="#000000">Ebbene, se la prima cosa è sicuramente vera, la
seconda no. Quest'analogia, nonostante la sua apparente "ovvietà", non
ha alcun senso logico né tanto meno oggettivo. Come abbiamo appena
visto, infatti, le leggi che regolano il deficit di bilancio di un
sistema economico ristretto e relativamente chiuso come una famiglia di
lavoratori dipendenti, non sono affatto le stesse che regolano un
sistema economico ampio e interconnesso come una nazione — tant'è vero
che, applicando alla pretesa "grande famiglia" le regole che riducono
il deficit di bilancio della famiglia in senso stretto, i risultati
sono disastrosi. Credendo di fare i propri interessi, nel momento
stesso in cui accusano le classi dominanti di aver speso le pubbliche
risorse di là dalle possibilità di bilancio, accettano di fatto l'idea
che sia necessario, per uscire dalla recessione, fare "sacrifici" (sia
pure "tutti", "egualitariamente", ecc.). Le classi lavoratrici offrono
così spontaneamente allo stato la copertura ideologica perché questi
diminuisca il loro livello di vita e di capacità contrattuale,
aumentando di conseguenza quello delle classi dominanti.


color="#000000">Niente di sostanzialmente diverso avviene quando i
movimenti politici d'opposizione si lasciano avviluppare dai sensi di
responsabilità collettiva. Anche qui quella che scatta è un'analogia
tanto apparentemente ovvia quanto oggettivamente del tutto impropria.
Una famiglia, di fronte alle difficoltà della vita, non raggiunge i
migliori risultati se si comporta unitariamente? Lo stesso non deve
allora fare la "grande famiglia" del movimento politico/ sociale contro
il nemico comune?


color="#000000">Come nel caso precedente, se la prima cosa è vera, la
seconda è invece del tutto falsa. Una famiglia, e in genere una piccola
comunità umana, è composta di pochi membri; il coordinamento delle loro
azioni è perciò relativamente agevole e, di conseguenza, vantaggioso
nell'ottica del rapporto sforzi/benefici. La stessa cosa non si può
affatto dire per un gruppo umano un po' più numeroso e, nel caso di
movimenti politico/sociali composti da centinaia, migliaia, magari
milioni di individui raggruppati in varie sottocomponenti interne, un
simile coordinamento delle azioni diventa addirittura del tutto
impossibile. Questo a meno che l'eterogeneo movimento in questione si
trasformi in un partito rigidamente centralizzato — ma tutto ciò
implica, nella maggior parte dei casi e a parte qualunque altra
considerazione, un abbandono degli obiettivi ini-ziali del movimento
stesso a tutto vantaggio di una feroce lotta intestina per il
predominio politico di una parte su tutte le altre.


color="#000000">Ciononostante, la maggioranza dei membri di un
movimento d'opposizione, in preda al meccanismo ideologico della
"necessaria unità del movimento contro il nemico comune", vorrebbe la
botte piena e la moglie ubriaca. Vorrebbe, in altri termini, che il
movimento agisse come un sol'uomo gratuitamente, senza pagare lo scotto
del feroce scontro interno per il predominio. Il risultato di tale pia
speranza è un puro sentimento di responsabilità collettiva, che ha
l'unico effetto d'esporre il movimento alla potenza devastante di una
provocazione politica sufficientemente ben organizzata. Lo stesso
discorso può farsi per il malinteso senso di solidarietà di un
movimento nei confronti di un provocatore "oggettivo" ma non
"soggettivo". Non giudichiamo un nostro errore assai diversamente se
sappiamo d'averlo compiuto in buona o in cattiva fede? Non dobbiamo
allora fare la stessa nei confronti del provocatore "oggettivo",
distinguendolo dall' infiltrato? Il fatto è però che quest'ultima
operazione, come abbiamo visto in precedenza, è del tutto impossibile
da compiere, e porta l'unico risultato concreto di aumentare a
dismisura la potenza dell'azione provocatoria.


color="#000000">Un movimento che rifiuta il senso di responsabilità
collettiva e di interrogarsi sulle dinamiche interne dell'autore del
gesto provocatorio, che rimanda continuamente alla responsabilità
individuale degli atti compiuti, è pressoché impermeabile alle
provocazioni. La provocazione, quale particolare e devastante forma di
simulazione volontaria di un comportamento sociale distruttivo, con
tutto il suo corollario di devastazioni, di morti, di angosce
individuali e collettive, si mostra possibile solo a partire
dall'accettazione, da parte delle persone avviluppate nella sua logica,
di determinati e di per se altrettanto devastanti meccanismi
ideologici. La simulazione involontaria della vittima è il fondamento
della possibilità di riuscita della simulazione volontaria del
carnefice. Lo stesso credere che le forme di responsabilità collettiva
siano costitutive di un movimento, è il risultato di infinite
provocazioni portate a buon termine, che hanno portato a interiorizzare
le proprie catene.


color="#000000">Come nel caso del compito "imprevisto ed
imprevedibile", ci vediamo anche qui portati verso un paradossale
elogio della "stupidità". Di fronte ad un meccanismo ideologico,
l'unica via di fuga è attenersi strettamente all'informazione
essenziale, l'unica che si può ragionevolmente controllare: gli
obiettivi propagandati vengono raggiunti? In altri termini, cui
prodest
? E, di fronte ad una risposta negativa od inquietante,
comportarsi "stupidamente" di conseguenza.


color="#000000">Enrico Voccia 
(Shevek)











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