Marco Cedolin 
 
 
 
 
 CRESCITA E DECRESCITA
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 Una persona felice non consuma
 antidepressivi, non consulta psichiatri, non tenta di suicidarsi, non
 rompe le vetrine dei negozi, non acquista continuamente oggetti costosi
 e inutili, insomma, partecipa solo marginalmente all’attività economica
 della società. - Hervé Martin
 
 
 
 
 
 Lo “sviluppo” è simile ad una stella morta, di cui ancora percepiamo la luce, anche se si è spenta da tempo, e per sempre. - Gilbert Rist
 
 
 
 
 
 
 
 Non si tratta assolutamente di tornare indietro, si tratta di deviare collettivamente, prima che sia troppo tardi per farlo. - Paul Aries
 
 
 
 
 
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 a) LA CRESCITA INFINITA
 
 
 
 
 
 Il tema dell’Alta Velocità, oltre ad evidenziare in maniera
 definita i legami indissolubili che saldano fra loro le grandi
 oligarchie di potere, coese intorno ad un obiettivo unico che è
 costituito dalla ricerca sistematica del profitto, ci porta ad alcune
 riflessioni di più ampio respiro concernenti la gestione delle
 risorse e del territorio in una società complessa come quella
 contemporanea.
 
 
 
 
 
 La gestione di tipo capitalista delle risorse economiche, finanziarie,
 sociali ed ambientali, propria dei sistemi politici occidentali si sta
 ormai diffondendo sempre più in tutti i paesi del mondo, in
 seguito ad un fenomeno di globalizzazione che tende ad uniformare le
 varie specificità nazionali, appiattendole su di un unico
 modello gestionale.
 
 
 
 
 
 Al modello capitalista della borghesia industriale che accumulava
 profitto costruendo ricchezza si è sostituito quello del
 capitalismo di rapina che accumula profitti con la speculazione, la
 sopraffazione militare, la devastazione ambientale.
 
 
 
 
 
 L’occidentalizzazione del mondo e il conformismo planetario impongono
 il saccheggio senza freni della natura e la distruzione di tutte le
 culture differenti.
 
 
 
 
 
 La logica del profitto assurta a monovalore assoluto, l’esasperata
 tendenza al gigantismo, la concentrazione delle ricchezze nelle mani di
 una cerchia sempre più ristretta di persone, l’abitudine a
 monetizzare ogni aspetto della realtà che ci circonda,
 l’assoluta incapacità di rapportarci con la natura, il prevalere
 del nozionismo sulla cultura, del vociare scomposto sull’ascolto, della
 violenza sul dialogo, sono solo alcuni aspetti della nostra
 società contemporanea.
 
 
 
 
 
 La grande imprenditoria industriale, economica e finanziaria è
 stata oggetto di concentrazioni sempre più massicce (fusioni,
 incorporazioni ecc.) che hanno avuto la conseguenza di creare veri e
 propri colossi transnazionali (Corporation, Multinazionali) che sono in
 grado di controllare tanto i mercati quanto le scelte politiche dei
 singoli governi.
 
 
 
 
 
 La tendenza esasperata alle privatizzazioni ha permesso ai grandi
 poteri privati di subentrare sempre più allo Stato nella
 gestione della cosa pubblica, a tutto svantaggio della
 collettività che sta pagando il conto sotto forma di maggiori
 costi dei servizi e minore qualità degli stessi.
 
 
 
 
 
 Tutto ciò che risulta essere “piccolo” è stato liquidato
 come arcaico, inutile, desueto, sacrificabile, in ossequio ad una
 logica distorta che pone il “grande” come unico esempio di
 modernità, progresso, futuro.
 
 
 
 
 
 Le piccole attività commerciali sono così diventate prima
 grandi magazzini e poi ipermercati, i negozi si sono trasformati in
 grandi catene di franchising, le piccole banche in grandi gruppi
 bancari, i piccoli coltivatori e allevatori hanno lasciato il posto
 alle grandi coltivazioni e ai grandi allevamenti a sfruttamento
 intensivo, i cinema alle multisala, la piccola imprenditoria edile
 è stata fagocitata dalle grandi imprese di costruzione, le quali
 a loro volta sono confluite in grandi gruppi o cooperative. Gli esempi
 potrebbero essere migliaia e ribadiscono sempre il concetto secondo il
 quale solo ciò che è grande può essere funzionale
 ad un modello di sviluppo basato su una logica che privilegia la
 dimensione e non la qualità.
 
 
 
 
 
 Si tratta di una società dove ogni cosa è funzionale al
 mito della crescita, che visualizza gli uomini esclusivamente come
 produttori e consumatori, il consumo non risponde più alla
 soddisfazione di un bisogno, ma si caratterizza soprattutto come un
 mezzo di produzione. Quando le persone non percepiscono il bisogno di
 merci o servizi, è necessario che detto bisogno sia prodotto
 artificialmente attraverso l’uso (e l’abuso) della pubblicità.
 
 
 
 
 
 Una società sacrificata al progresso, inteso come enfatizzazione
 della produzione, dove l’accrescimento degli scambi commerciali e del
 volume dei beni prodotti, rappresenta un valore di per sé, senza
 tenere nella minima considerazione le qualità dei beni e le
 conseguenze della loro produzione sulla socialità, sull’ambiente
 e sul vivere quotidiano di noi tutti.
 
 
 
 
 
 Le conseguenze di tutto ciò sono sotto gli occhi di ciascuno di
 noi, il tessuto sociale è stato violentato in profondità,
 il piccolo commercio e la piccola imprenditoria (fiori all’occhiello
 della nostra economia nel periodo dell’espansione) hanno praticamente
 cessato di esistere, il libero mercato si è trasformato in una
 sorta di oligopolio controllato dalle multinazionali e il mondo del
 lavoro si sta trasformando ogni giorno di più in una terra di
 nessuno dove dominano la precarietà, l’incertezza e la
 disperazione.
 
 
 
 
 
 Anche il linguaggio sta cambiando in profondità, le parole non
 hanno più una valenza specifica funzionale al proprio contenuto,
 ma sono diventate gusci vuoti privati di un significato intrinseco,
 adatti non a rappresentare un concetto ma semplicemente a soggiogare
 emotivamente l’interlocutore.
 
 
 
 
 
 Quante volte guardando la televisione o leggendo i giornali
 c’imbattiamo in concetti quali “strategicità di un’opera”,
 “necessità di sviluppo”, “funzionale agli obiettivi di
 crescita”, “indispensabile alla ripresa economica”,
 “democraticizzazione di un popolo”, “recupero di competitività”,
 “maggiore flessibilità”, “mercato globale”, “grandi
 infrastrutture d’importanza internazionale”.
 
 
 
 
 
 Si tratta di frasi fatte, luoghi comuni, esternazioni ad effetto che
 pur essendo prive di un reale significato sortiscono comunque il
 risultato voluto, poiché tendiamo ad essere influenzati dalla
 ridondanza del concetto, senza preoccuparci di scavare nel suo
 contenuto. Chi ha fatto l’esternazione non sarà mai in grado di
 spiegarci perché quella determinata opera è strategica o
 le motivazioni della necessità di sviluppo, oppure le ragioni
 per le quali una decisione è funzionale agli obiettivi di
 crescita o indispensabile alla ripresa economica. Nessuno sarà
 in grado di spiegarci come sia possibile esportare la democrazia, cosa
 significhi realmente recuperare competitività, quale sia
 l’importanza internazionale di un’infrastruttura o perché sia
 indispensabile avere maggiore flessibilità e quali siano i
 parametri di un mercato globale.
 
 
 
 
 
 Nonostante ciò noi avremo metabolizzato l’importanza prioritaria
 ed imprescindibile del concetto, accettandolo come necessario ed
 indispensabile.
 
 
 
 
 
 Un altro esempio del condizionamento che ogni giorno ci viene imposto
 tramite l’uso improprio delle parole è costituito da quei
 termini che vengono usati come sinonimo di modernità, pur non
 avendo di per se stessi alcuna valenza specifica.
 
 
 
 
 
 Veloce, grande, globale, sostenibile, internazionale, imprescindibile,
 strategico, europeo, progresso, futuro, sviluppo, nuovo, crescita,
 competitività, prioritario, sono tutti termini che vengono con
 violenza ripetuti dai media in maniera martellante e ossessiva per dare
 ai concetti più svariati una patente di buono, bello e moderno.
 
 
 
 
 
 E ancora “sviluppo sostenibile”, “ecologia industriale”, “crescita
 verde”, “produzione pulita”, “economia solidale”, “guerra pulita”,
 “globalizzazione dal volto umano”, sono tutte contraddizioni in termini
 che rivelano il tentativo di attribuire una funzione ecologica o
 sociale ad elementi che per la loro stessa natura mai potrebbero
 vantarla.
 
 
 
 
 
 Costruendo il mito dell’onnipotenza della tecnica, sia essa scientifica
 o economica, si cerca di proporre come rimedio la causa stessa della
 malattia, nell’ottica di una visione riduttiva e regressiva dell’uomo,
 inteso solo come consumatore, tubo digerente e ingranaggio della
 macchina produttiva.
 
 
 
 
 
 Ho aperto questa piccola parentesi concernente il linguaggio
 perché proprio attraverso di esso i grandi poteri politici
 economici e finanziari tentano di veicolare quello della crescita
 infinita come l’unico modello di sviluppo possibile e praticabile.
 
 
 
 
 
 In realtà questa sorta di oligarchia preposta a prendere le
 decisioni e operare le scelte è talmente preoccupata ed
 ossessionata dall’obiettivo di mantenere la propria posizione di
 preminenza sociale, da avere perso ogni contatto con il mondo reale,
 con le persone, con il territorio e l’ambiente.
 
 
 
 
 
 Gli oligarchi che accusano di arretratezza i cittadini della Valle di
 Susa, di Acerra, di Scanzano, di Forlì, definendoli nemici del
 progresso hanno solamente paura di guardare negli occhi il nuovo che
 avanza.
 
 
 
 
 
 Sono piccoli anacronistici retaggi del passato, ricchi e potenti
 cavernicoli imbalsamati che non riescono ad immaginare il futuro se non
 come il perpetuarsi sistematico del passato. Tentano d’imporre con i
 manganelli e la prevaricazione un modello di sviluppo ispirato alla
 crescita infinita, senza tenere conto della realtà oggettiva che
 le risorse, la terra e l’ambiente sono realtà finite che pongono
 limiti invalicabili.
 
 
 
 
 
 Scavano nuovi tunnel, costruiscono nuove strade, nuovi viadotti, nuovi
 ponti, nuove ferrovie, fingendo d’ignorare il fatto che l’unico tunnel
 dal quale dovremmo seriamente preoccuparci di uscire è quello
 del disastro ecologico/ambientale che abbiamo innescato attraverso il
 perseguimento di un progresso insensato che ci ha portato a fagocitare
 la natura e l’ambiente.
 
 
 
 
 
 Parlano d’incrementi esponenziali del traffico, di milioni di
 tonnellate di merci, di raddoppio della produzione, senza rendersi
 conto che i cittadini quelle merci non potranno mai acquistarle
 perché grazie alle loro scelte non guadagnano più
 abbastanza nemmeno per arrivare alla fine del mese.
 
 
 
 
 
 Immaginano un mondo nel quale si moltiplichi all’infinito il numero
 delle auto circolanti, dei camion, dei treni, delle navi, delle merci,
 delle industrie, dei grattacieli, delle centrali nucleari e
 termoelettriche, degli oleodotti, dei tralicci elettrici, delle antenne
 TV, dei beni di consumo, ma dimenticano che il mondo è finito,
 come il petrolio e la capacità del sistema ambiente di sopperire
 alla devastazione. Fra poco non ci saranno più prati da
 cementare, colline da spianare, montagne da perforare, terreni da
 asfaltare, fiumi da inquinare, aria da soffocare e mancherà
 anche il combustibile per fare funzionare le trivelle, le frese, le
 locomotive, i motori, i martelli pneumatici, le gru, le fabbriche.
 
 
 
 
 
 Vaneggiano di progresso ma stanno costruendo una civiltà
 frenetica, priva di valori, votata all’ipercinetismo, all’insicurezza,
 alla precarietà, alla paura del futuro.
 
 
 
 
 
 Perseguono la velocità degli spostamenti ed ignorano quella
 pensiero, costruiscono treni ed auto sempre più veloci, senza
 accorgersi che se non ci si ferma un attimo a riflettere fra poco non
 ci sarà più nessun posto in cui andare.
 
 
 
 
 
 Guardano al mondo come ad una materia prima ed osteggiano coloro che
 riescono a vederlo come un organismo vivente, guardano alle persone
 come a delle risorse e le manganellano quando prendono coscienza di
 sé e chiedono di poter decidere del proprio futuro.
 
 
 
 
 
 Inseguono un modello di sviluppo che in realtà non riesce
 più a progredire ma sta sortendo il solo effetto di riportare
 indietro la qualità della vita di tutti.
 
 
 
 
 
 Sono loro gli arretrati, i nemici del progresso, i dinosauri
 incartapecoriti, non gli abitanti della Valle di Susa e tutti coloro in
 Italia e nel mondo che stanno prendendo coscienza di come questa non
 sia la strada giusta, in quanto destinata a non portare da nessuna
 parte.
 
 
 Sono loro che guardano senza vedere e ascoltano senza sentire,
 impegnati a perpetuare l’unica logica che conoscono, quella delle
 speculazioni, dei giochi di potere, delle scalate societarie, degli
 intrighi di palazzo, della malversazione.
 
 
 
 
 
 
 
 
 b) DECRESCITA E FUTURO
 
 
 
 
 
 Una società sana adatta il proprio stile di vita all’ambiente
 che la circonda, la stortura del nostro sistema attuale consiste invece
 nella pretesa di adattare l’ambiente al proprio stile di vita,
 assalendolo e violentandolo, senza minimamente preoccuparsi delle
 conseguenze derivanti da queste violenze che non si ripercuotono
 solamente in termini di devastazione ambientale, ma anche di giustizia
 ed equilibrio sociale, dimostrando come sopravvivenza biologica e
 sopravvivenza sociale siano elementi indissolubilmente legati fra loro.
 
 
 
 
 
 L’unica strada percorribile passa attraverso il superamento dei
 concetti di modernità e di sviluppo, in quanto essi contengono
 implicitamente la volontà di mercificare i rapporti fra le
 persone e con la natura. Non possiamo, come scrive Nicholas Georgescu –
 Roegen, produrre frigoriferi, automobili o aerei migliori e più
 grandi, senza produrre anche dei rifiuti migliori e più grandi
 che contribuiranno ad accentuare i termini del problema.
 
 
 
 
 
 Occorre necessariamente accostarsi ad un concetto di decrescita, intesa
 non come recessione o impoverimento, bensì come un’occasione per
 tutti, che sia funzionale ad un nuovo tipo di società, nella
 quale la qualità della vita,  il tempo libero, le relazioni
 sociali, siano valorizzati e prevalgano sulla produzione e sul consumo
 di prodotti inutili e nocivi.
 
 
 
 
 
 Una società nella quale i valori economici siano ricollocati
 nella loro giusta funzione di semplice mezzo della vita umana e
 abbandonino quella posizione di assoluta centralità che li porta
 a rappresentare il fine ultimo della nostra esistenza.
 
 
 
 
 
 La prospettiva della decrescita, accettata e meditata, non si pone come
 antagonista al mito della crescita, ormai senza futuro in quanto
 vittima delle sue stesse contraddizioni, bensì come alternativa
 alla recessione che sarebbe inevitabile conseguenza di un risultato di
 crescita negativa (che già oggi abbiamo iniziato a sperimentare)
 applicato ad una società che identifica nella crescita economica
 l’unico monovalore assoluto.
 
 
 
 
 
 Entrare nell’ottica della decrescita significa innanzitutto aggiogarsi
 dall’immaginario economico che la pubblicità e le regole del
 modello consumistico hanno instillato nella nostra mente. Un
 immaginario che mette i beni di consumo e non la persona al centro
 della nostra esistenza e c’impone di ricercare il benessere e la
 felicità solo attraverso il successo economico, la competizione,
 il possesso delle cose.
 
 
 
 
 
 Il benessere e la felicità si possono realizzare attraverso la
 soddisfazione di una quantità limitata di bisogni reali,
 anziché attraverso il soddisfacimento illusorio di un’infinita
 miriade di bisogni effimeri e indotti dal modello culturale dominante.
 
 
 
 
 
 La vera ricchezza e la vera gioia allignano nella costruzione di
 relazioni sociali conviviali, nel godimento del tempo liberato, nella
 riscoperta della nostra natura umana, piuttosto che nella nevrotica
 bulimia  che ci porta a fagocitare senza sosta quantità
 sempre maggiori di beni materiali, nel vano tentativo di riempire quei
 vuoti esistenziali che devastano la nostra interiorità. Come
 sottolinea Hervé Martin, “Una
 persona felice non consuma antidepressivi, non consulta psichiatri, non
 tenta di suicidarsi, non rompe le vetrine dei negozi, non acquista
 continuamente oggetti costosi e inutili, insomma, partecipa solo
 marginalmente all’attività economica della società”.
 
 
 
 
 
 Liberarsi dai condizionamenti psicologici che decenni di cultura
 dominante, ispirata al mito della crescita per la crescita e del
 progresso inteso come consumo e ragione ultima della nostra esistenza,
 hanno costruito nel nostro intimo è prerogativa imprescindibile.
 Questo poiché sarebbe impensabile immaginare un progetto di
 decrescita che si inneschi su un modello di società come quello
 attuale, imperniato esclusivamente sull’economia, sul lavoro e sul
 capitale. La popolazione, posta nell’impossibilità di perseguire
 l’enorme mole di stimoli indotti, non necessari ma percepiti come tali,
 perderebbe ogni punto di riferimento e si costruirebbero le prerogative
 per una situazione di caos sociale dalle conseguenze catastrofiche.
 
 
 
 
 
 Solamente anteponendo nuovi valori a quelli attualmente dominanti e
 decolonizzando le nostre menti dall’egemonia che concetti come crescita
 e sviluppo detengono nel nostro immaginario, sarà possibile
 concepire e realizzare una società di decrescita serena,
 antitetica a quella dell’economia.
 
 
 
 
 
 La cooperazione dovrebbe prevalere sulla competizione sfrenata,
 l’altruismo sull’egoismo, il piacere dello svago e dell’accrescimento
 culturale sull’ossessione del lavoro, l’importanza della vita sociale
 sul consumo illimitato, il gusto per la qualità del nostro
 operato sull’efficientismo produttivista, il ragionevole sul razionale,
 il piccolo sul grande e così via.
 
 
 
 
 
 A questo punto sarebbe possibile pianificare la decrescita, ridurre al
 massimo l’impatto ambientale derivante dall’attività umana,
 ridimensionare l’enorme mole di spostamenti di uomini e merci e tutte
 le loro conseguenze negative, eliminare l’eccessiva invadenza della
 macchina pubblicitaria, contrastare la pratica che accelera
 artificialmente l’obsolescenza dei manufatti e la diffusione dei
 prodotti usa e getta, perseguire un nuovo rapporto, d’interscambio e
 non di aggressione fra l’uomo e la natura e fra uomo e uomo.
 
 
 
 
 
 Il passaggio da una società capitalista, imperniata sul consumo
 e figlia del mito della crescita e dello sviluppo, ad una
 società più sobria e consapevole, votata ad una
 decrescita serena che armonizzi i nostri bisogni e le nostre
 attività con l’ambiente che ci circonda, riconoscendo la
 realtà oggettiva che le risorse naturali e il sistema terra sono
 entità finite e non possono perciò venire depauperate e
 violentate senza che ci si ponga dei limiti, è una sfida
 estremamente ambiziosa e delicata che non può essere affrontata
 con superficialità. Al tempo stesso si tratta di un passaggio
 obbligato se vogliamo scendere dolcemente e lentamente il declivio in
 maniera costruttiva, serena e non traumatica, anziché
 sprofondare con violenza nel baratro che ormai si pone minaccioso
 dinanzi ai nostri occhi.
 
 
 
 
 
 Nessuna scelta in questo senso potrà mai provenire
 dall’oligarchia di potere dominante, interessata esclusivamente al
 perseguimento del profitto che trova possibilità di concretarsi
 solo in una società basata sull’incremento continuo della
 crescita e dei consumi.
 
 
 
 
 
 La spinta verso il cambiamento dovrà avvenire necessariamente
 dal basso, dalla gente comune, dai cittadini, che iniziano a percepire
 la condizione di disagio all’interno delle loro realtà
 personali. La protesta contro la TAV in Valle di Susa e molte altre
 situazioni ad essa assimilabili, testimoniano un primo tentativo ancora
 in fase embrionale di esternare questo disagio e collocarlo al di fuori
 del microcosmo locale e personale nel quale è nata la
 percezione. Proprio per questa ragione occorre guardare a questi
 fenomeni, cercando di leggerli in profondità, con l’occhio
 disincantato di chi riesce a concepire il futuro come un qualcosa di
 diverso che non sia necessariamente una serie infinita di repliche del
 presente.
 
 
 
 
 
 Marco Cedolin
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 Crescita e decrescita è un capitolo tratto dal libro di Marco Cedolin "TAV - In val di Susa", pubblicato da Macroedizioni. Ne è permessa la
 riproduzione, limitatamente alla Rete, purchè a) vengano citati
 Autore e fonte, b) il pezzo rimanga inalterato e venga riprodotto per
 intero. (Tutti gli altri diritti riservati.)
 
 
 
 
 
  T.A.V. in Val di Susa 
 
 
 Un buio tunnel nella Democrazia
 
 
 
 Autore: Marco Cedolin,
 
 
 
 Prezzo: €10,50
 
 
 
 Prefazione di Massimo Fini
 
 
 
 
 
 
 
 I
 progetti, i costi e i benefici della costruzione delle linee
 ferroviarie per i treni ad Alta Velocità/Capacità, una serie di opere
 faraoniche inutili dal punto di vista economico, ecologico e
 strategico.
 
 
 
 
 
 
 
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 Di Marco Cedolin vedi anche:
 
 
  Le grandi dighe rappresentano, forse meglio di qualsiasi altra
 faraonica infrastruttura, l’ambizione di dominio dell’uomo moderno che
 ha relegato la natura nel ruolo improprio di “nemico” da soggiogare,
 sconfiggere, umiliare a proprio piacimento. La costruzione di una
 grande diga implica sempre lo stravolgimento (tanto più intenso quanto
 più grande è l’opera) di vastissimi territori, la cui realtà verrà
 modificata in profondità dal punto di vista ambientale, economico,
 sociale e climatico, con risultati spesso catastrofici tanto nel breve
 quanto nel lungo periodo.
 
 La diga delle Tre Gole che sorge nella
 provincia cinese dello Hubei e sbarra il flusso dello Yangtze (il
 grande fiume azzurro) è stata inaugurata nel mese di giugno 2006.
 Soprannominata “la Grande Muraglia” del terzo millennio è alta 185
 metri (come la Torre Eiffel) e lunga quasi 2,5 km, una volta a regime
 nel 2009 le sue 26 megaturbine produrranno 84,7 miliardi di kilowattora
 ogni anno (l’equivalente di una ventina di centrali nucleari) e
 forniranno circa il 10% della richiesta energetica del paese. (continua)
 
 
 
 
 
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 Al posto del TAV, nasce la solidarietà
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 Più veloci di che cosa?
 
 
 
 Quando i caprioli danneggiano l'ambiente
 
 
 
 Incubo TAV
 
 
 
 
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 IL PRODOTTO NAZIONALE LORDO - SECONDO BOB KENNEDY
 
 
 
 
 "Non troveremo mai un fine per la
 nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero
 perseguimento
 del benessere economico, nell'ammassare senza fine beni terreni.
 
 
 
 Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell'indice
 Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto
 nazionale
 lordo. Il prodotto nazionale lordo comprende anche l'inquinamento
 dell'aria e
 la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le
 nostre
 autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
 
 
 
 Il prodotto nazionale lordo mette nel conto le serrature speciali per
 le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di
 forzarle. Comprende la distruzione delle sequoie e la morte della fauna
 nel Lago Superiore. Comprende programmi televisivi che valorizzano la
 violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la
 produzione di napalm, missili e testate nucleari, e comprende anche la
 ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica.
 [Siamo nel 1968 - ndr]
 
 
 
 Il prodotto nazionale lordo si accresce con gli equipaggiamenti che la
 polizia usa per sedare le rivolte nelle nostre città, e non fa
 che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi
 popolari.
 
 
 
 E se il prodotto nazionale lordo comprende tutto questo, non calcola
 però molte altre cose. Non tiene conto della salute delle nostre
 famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei
 loro
 momenti di svago. E' indifferente alla decenza del luogo di lavoro o
 alla sicurezza nelle
 nostre strade. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la
 solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro
 dibattere o
 l'onestà dei nostri pubblici dipendenti.
 
 
 
 Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali,
 né dell'equità
 nei rapporti fra di noi. Il prodotto nazionale lordo non misura
 né la
 nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra
 saggezza né la
 nostra conoscenza, né la nostra compassione né la
 devozione al nostro
 paese.
 
 
 
 Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente
 degna
 di essere vissuta. Può dirci tutto sull'America, ma non se
 possiamo
 essere orgogliosi di essere americani."
 
 
 
 
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