Uzbekistan: un ritorno alla Guerra Fredda?

Data 27/11/2005 8:59:29 | Categoria: news internazionali

Le manovre geo-politiche e l'avvicendamento fra USA e Russia, a cui la costante violazione dei diritti della popolazione fa soltanto da sfondo, pongono l'Uzbekistan come il primo consistente segnale di un odioso revival di Guerra Fredda.

di Andrea Franzoni

Convenzionalmente siamo abituati a dividere la storia in epoche staccate, spesso, da violente cesure. Se con il crollo del muro di Berlino e la dissoluzione dell'URRS mettiamo infatti la parola fine alla guerra fredda, con l'attacco alle torri gemelle dell'11 settembre 2001 designiamo l'inizio dell'era della lotta al terrore. Tuttavia, nella realtà, le vicende politiche del mondo tendono spesso a fondersi rendendo l'interpretazione della realtà tremendamente complicata.

E' questo il caso dell'Uzbekistan, stato dell'Asia Centrale dove si sta giocando una partita d'enorme importanza strategica nella quale si intrecciano le vecchie rivalità tra USA e Russia, le minacce del terrorismo islamico e la guerra al terrore, l'esportazione di diritti umani e la tortura. Un giorno, forse, si parlerà dell'Uzbekistan …
… come precursore di una nuova contrapposizione netta (e forse orwelliana) fra occidente e oriente e come punto di svolta nell'equilibrio della zona di mezzo (appunto dell'Asia Centrale) tanto delicata per la definizione dei rapporti di forza mondiali.

La polveriera uzbeka si è accesa prepotentemente nella primavera del 2005.

Fino ad allora l'Uzbekistan era il classico stato autoritario retto da un vecchio dittatore di formazione sovietica pronto ad ogni alleanza pur di rimanere al potere, e pronto ad ogni forma barbara di repressione pur di rimanere in sella allo sgangherato stato asiatico. Uno stato povero e profondamente corrotto, dove i diritti umani fondamentali venivano calpestati e dove non vigeva alcuna libertà di opinione, di culto o di manifestazione del dissenso.

Dal famoso settembre del 2001, poi, in Uzbekistan si erano insediati gli USA. Alla proclamazione della guerra globale al terrore il presidente uzbeko Islam Karimov si era infatti detto pronto a fornire tutto il supporto necessario alla crociata di Bush. Aveva infatti concesso l'utilizzo di due grosse basi militari, in particolare di un vecchio aeroporto costruito ancora in epoca sovietica, dove gli americani si erano rapidamente istallati. L'Uzbekistan, stato confinante con l'Afghanistan (che sarebbe stato attaccato da lì a poco), ex-feudo sovietico e paese importante anche economicamente, in quanto pieno di petrolio e minerali preziosi, era in effetti un bocconcino troppo prelibato perchè gli USA non ne potessero godere. Gli USA avevano proprio messo le tende contando di rimanerci. Avevano infatti trasferito una quantità ingente di mezzi e di tecnologie, rifacendo la vecchia pista d'atterraggio e dotandola dei più sofisticati radar e di strumentazioni d'avanguardia.

In quel periodo Islam Karimov aveva anche fatto visita alla Casa Bianca, accolto in pompa magna da Bush, ben contento di rinsaldare i rapporti con il leader indiscusso di una regione tanto importante strategicamente. A nulla erano servite, all'epoca, le proteste degli attivisti per i diritti umani che denunciavano frequenti torture, rapimenti, violenze e intimidazioni ai danni della popolazione civile. Come motivazione sommarie per le catture, le lunghe detenzioni e le sparizioni, gli uomini di Karimov avevano inoltre iniziato a utilizzare la scusa dell'eliminazione di presunte cellule islamiche che stavano progettando un colpo di stato per instaurare un qualche califfato dell'Asia Centrale.

A nulla erano servite le continue denunce delle organizzazioni in difesa dei diritti umani. Nemmeno l'ambasciatore britannico, Craig Murray, che venuto a conoscenza delle pratiche di tortura aveva provato a portare la questione agli occhi dell'occidente, era riuscito a modificare l'atteggiamento di Bush nei confronti di Karimov. Lo stesso Craig Murray, profondamente sconvolto dalle barbarie all'ordine del giorno in uno dei primi alleati della coalizione, ha continuato a gridare la sua indignazione per il silenzio-assenso della Gran Bretagna, che pure (attraverso i documenti da lui raccolti) era venuta a conoscenza delle pesanti violazioni dei diritti umani.

"UK receives this intelligence material not occasionally, not fortuitously, but in connection with a regular programme of torture with which we are intimately associated. Uzbekistan is one of those security services from whose "friendly liaison" services we obtained information. And I will tell you what torture means. It means the woman who was raped with a broken bottle in both vagina and anus, and who died after ten days of agony. It means the old man suspended by wrist shackles from the ceiling while his children were beaten to a pulp before his eyes. It means the man whose fingernails were pulled before his face was beaten and he was immersed to his armpits in boiling liquid", scriveva ancora Craig Murray sull'Independent un mese fa.

(http://comment.independent.co.uk/commentators/article322520.ece)

Le foto procurate dagli attivisti per i diritti umani in quel periodo buio di collaborazione fra noi e Karimov rimbalzano ancora per internet mostrando i cadaveri di dissidenti torturati a morte, magari bolliti vivi. Evito di fornire i link a questo materiale, decisamente stomachevole. Vi basti sapere che tutti questi resoconti erano sulle scrivanie di tutti i potenti britannici e americani che stringevano a quei tempi la mano al dittatore Karimov.

Per quale motivo Karimov si era appoggiato con tanta convinzione agli USA, però? Una delle tante spiegazioni possibili è questa: oltre ai benefici economici e di immagine di tale mossa si può azzardare che Karimov avesse fiutato, con enorme abilità politica, il "vento di rinnovamento" che attraversava molti stati ex sovietici. Basti pensare alla Georgia, all'Ucraina e al Kirghizistan che, negli ultimi anni, a seguito di sommosse democratiche organizzate e finanziate da potenti industriali statunitensi spinti dal desiderio di liberare i popoli dall'oppressione o, in alternativa, di mettere le mani sulle ricchezze (cosa poi successa, negli stati sopracitati, con la vendita massiccia di risorse e impianti ai colossi statunitensi), hanno rovesciato altrettanti governi autoritari per totalmente simili a quello di Karimov, giudicati troppo filo-russi. Karimov, quindi, avrebbe potuto, per un semplice calcolo politico, allearsi con gli USA prima che gli USA lo eliminassero in qualche modo spingendo al suo posto qualche fazione filooccidentale e "progressista".

Gli eventi a cui accennavo prima, però, hanno cambiato violentemente la situazione. Proviamo a descriverli brevemente, ricucendo le poche fonti arrivate a noi e riconducibili principalmente al circuito di IWPR (Institute for War and Peace Reporting) e Peace Reporter.

Il punto di svolta è stato il cosiddetto massacro di Andjian (seconda città uzbeka, la capitale è Tashkent), che, citando l’IWPR, è stato la più grande strage di piazza dall’epoca di piazza Tienanmen, attorno alla metà del maggio 2005.

Un’enorme corteo di uomini e di donne sfila per le vie della città, in tutto 10-15.000 persone. Sfilano con le famiglie anche migliaia di bambini, portati dai genitori in quella che era nata come una manifestazione pacifica. La folla chiede principalmente lavoro e trasparenza, veri miraggi in uno stato condotta da una oligarchia corrotta e con le spalle ben coperte. La causa contingente è l’arresto di 23 uomini, conosciuti per le frequenti donazioni a scuole e ospedali, accusati da Karimov di essere pericolosi destabilizzatori in contatto con l’estremismo islamico (tutto ciò sembra altamente improbabile). Ad un tratto la folla si ritrova in una piazza; le vie di uscita vengono chiuse da cordoni di polizia e da autobus e camion sistemati di traverso per bloccare la strada. E qualcuno inizia a sparare.

I testimoni parlano di raffiche di mitragliatori da tank, di mezzi blindati che sparano all’impazzata a mezza altezza, di cecchini che dai palazzi martellano la folla disperata. Le testimonianze sono struggenti. Fra esse merita una menzione l’ammissione di un poliziotto pentito e sconvolto dalla crudeltà con cui l’esercito ha ucciso, secondo alcuni, addirittura 4.500 persone. Sono centinaia e migliaia gli uomini, le donne e i bambini che rimangono a terra in una pozza unica di sangue. I militari, una volta dispersa la folla, passano per le strade dando il colpo di grazia ai feriti che ancora si muovono e, nella notte, caricano i cadaveri su camion e autobus e li seppelliscono in fosse comuni. 500, tutti uomini, vengono fatti identificare ufficialmente. Molti altri, insieme a tutte le donne e i bambini, scompaiono nelle viscere della terra senza una spiegazione.

Le reazioni ufficiali sono blande. Karimov, inizialmente, minimizza affermando di non aver dato l’autorizzazione all’esercito e alla polizia di sparare, e dicendo di non avere avuto notizia di incidenti se non dell’uccisione di alcuni pericolosi terroristi islamici. Tutti i giornalisti occidentali e i membri delle ONG vengono allontanati, senza una spiegazione, e tutto il loro materiale viene sequestrato. Karimov, alla lunga, ammette poche decine di morti. Ancora oggi non c’è la certezza sul numero totale delle vittime. Mentre le cifre ufficiali sono salite fino a 176 morti (quasi tutti terroristi islamici), le stime più credibili parlano di un numero di morti che varierebbe tra i 500 e i 4.500.

La versione ufficiale non convince la comunità internazionale che, seppur lentamente, reagisce. Gli USA e l'UE inizialmente chiedono spiegazioni al presidente dell'U. che continua a dichiarare poche decine di morti, tutti guerriglieri impegnati in una rivolta di ispirazione islamica, mentre si accumulano le testimonianze di parenti delle vittime costrette a scappare clandestinamente all’estero perché perseguitati e si infittiscono gli arresti di presunti “ispiratori della rivolta”. La Rice dichiara addirittura che chiederà una inchiesta indipendente sulla strage, e ciò effettivamente avviene: si crea un "forum" tra USA e UE da cui esce una richiesta ufficiale di spiegazioni seguita da un invito a permettere un’inchiesta indipendente sulle vicende di Andjian.

Il presidente Karimov, decisamente innervosito dall’ingerenza estera e dalle insinuazioni che anche gli USA, a rimorchio dell’unione europea, fanno, inizia a ricattare gli alleati occidentali. Si inizia sospendendo il permesso ai voli notturni dei velivoli americani in territorio uzbeko, ma è soltanto l’inizio.

Gli Usa, spaventati all’idea di perdere il super-attrezzato aeroporto e l’importanza strategica della pedina Uzbekistan, mettono il veto alla richiesta ufficiale di un’inchiesta indipendente, ma è ormai troppo tardi. Karimov, che nel frattempo ha intensificato i contatti con Cina e Russia, sfratta gli USA che sono costretti ad abbandonare le basi. Passerà alla storia la versione secondo la quale l’Uzbekistan ha respinto gli USA in quanto essi hanno preteso un’inchiesta sul rispetto dei diritti umani e sulla strage di Andjian, ma questa è (probabilmente) soltanto una montatura propagandistica.

Oggi le vecchie basi sovietiche sono occupate dai militari russi. La Russia stessa ha siglato con l’Uzbekistan un interessante accordo di cooperazione che comprende la difesa reciproca e l’aiuto di Putin nella risoluzione di eventuali dissesti interni all’Uzbekistan. Gli investimenti cinesi e russi si sono intensificati dando una boccata d’ossigeno all’economia mentre la propaganda interna, sputata senza sosta dai media di proprietà dello stato, accusano gli USA di fomentare rivolte interne finanziando e appoggiando (apparentemente ciò è un paradosso) gli estremisti islamici pur di far fuori Karimov. Le organizzazioni per la tutela dei diritti umani, coerentemente, sono state quindi allontanate dall’Uzbekistan in quanto considerate fiancheggiatrici degli USA con il compito di mettere in cattiva luce il regime del padre-padrone Karimov.

Il Parlamento Europeo, dal canto suo, si è spesa in parole di condanna combinando, in una risoluzione del 3 ottobre, l’embargo alla vendita di armi, richiedendo formalmente la liberazione di tutti gli attivisti per i diritti umani.

Questa presa di posizione segue lo svolgimento del primo processo a parte dei presunti sobillatori che sono stati arrestati in quanto ritenuti responsabili della sommossa di Andjian. Il tribunale uzbeko, infatti, li ha condannati tutti a lunghe pene detentive in un processo farsa nel quale i prigionieri, visibilmente intimoriti, hanno confessato ciò che dovevano confessare mentre gli avvocati difensori, assegnati d’ufficio, si scusavano con la corte per dover essere costretti a difendere personaggi simili.

Elevandoci un po’ dal triste piano del rispetto dei diritti umani, con tutte le meste considerazioni annesse e tutte le responsabilità dei nostri governi ben evidenti, è utile concludere con una breve ma significativa considerazione di carattere geo-politico: per la prima volta da qualche tempo, forse per la prima volta gli USA rimangono in maniera così evidente con un pugno di mosche e perdono una casella di importanza cruciale a danno dei rivali cinesi e russi. E, mentre il terrorismo si prepara, forse, a sgonfiarsi come una bolla di sapone, o come una facciata passeggera utile per raggirare l’opinione pubblica, si fa avanti l’idea, nemmeno tanto fantasiosa, di un odioso revival di guerra fredda.

Andrea Franzoni (Mnz86)






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