Dove abbiamo sbagliato?

Data 3/11/2005 21:05:57 | Categoria: opinione

"E’ come se un terremoto avesse messo a soqquadro il corpo - scrive un malato di CFS (sindrome da affaticamento cronico) in un accorato appello - e ci si ritrova, da soli, con la propria vita cambiata in un attimo, con i medici che con sanno dirti cosa hai, con gli amici che si allontanano (pensando anche che hai qualcosa di contagioso o che sei impazzito improvvisamente) . E poi si perde il lavoro, il partner, si smette di sognare un futuro, come se una futuro non ci fosse più. Si resta da soli, come farfalle cui hanno spezzato le ali, con la malattia che non ha cure, con la propria disperazione, con la miseria che incombe e peggiora ogni cosa. E le Istituzioni cosa fanno? Niente…per lo Stato italiano noi non esistiamo, neppure la nostra malattia esiste."

Di fronte a casi come questo, o quello citato nel recente articolo sulla MCS, ci si ritrova a perdere il senso dell'orientamento, poichè ci vengono a mancare i parametri a cui da sempre siamo abituati a fare riferimento, nel nostro agire quotidiano: come sarebbe a dire "i medici non ci curano"? E allora, cosa sono lì a fare? E perchè mai lo Stato ...
... non dovrebbe occuparsi di noi? Non siamo noi, dopotutto, "lo Stato"?

Ebbene sì, lo stato siamo noi, ma lo siamo soprattutto nel momento in cui si considerano tutti insieme cinquanta milioni di individui abituati a farsi gli affari propri, e ad alzare la testa solo quando qualcuno rischia di rubare le galline nel tuo pollaio. Altrimenti, "lo stato" sono gli altri, e che non mi vengano a rompere i coglioni.

Ammettiamolo. Riconosciamo questa cruda verità, altrimenti non potremo superare l'ostacolo fondamentale che frena ogni vero progresso collettivo, e quindi anche quello individuale. Un saggio orientale disse, sul finire del secolo scorso: " I problemi rimasti nel mondo sono soltanto due: "io", e "mio".

Ma qui non si tratta di vestirsi di arancione, acchiappare il tamburello e andare in giro per il mondo a fare i tarantolati. Si tratta prima di tutto di imparare a vedere l'altro come un secondo sè, un equivalente a sè, e non come un'alternativa a quel sè. Come un co-protagonista, e non un antagonista.

Di fronte ad un unico pezzo di pane lasciato sul tavolo, si tratta di imparare a pensare "lui ha esattamente la stessa fame che ho io", e non "se non me lo mangio in fretta se lo mangia lui". Con il secondo pensiero in testa, infatti, il passo che segue è una bella legnata sul capoccione dell'altro, per potersi mangiare in pace l'intera pagnotta. Il problema è che anche lui ragiona così, e una volta su due la legnata in testa arriva prima a te.

Qualcuno potrebbe sostenere, giustamente, che in fondo la legge della sopravvivenza impone proprio quello.

Verissimo: accade in natura, accade fra gli animali, e perchè quindi non dovrebbe accadere anche tra gli uomini? Curioso però che questo tipo di obiezione arrivi sempre e soltanto da quelli che hanno il bastone più grosso degli altri. Mai sentito un pezzente parlare di darwinismo sociale. Non uno.

Il buon Bush vuole un mondo di pura competitività, in un sistema che premi il migliore, a vantaggio prima di tutto del sistema stesso. Dimentica però che lui è nato ricco sfondato, e parla seduto dal bordo della sua piscina riscaldata, mentre quello che dovrebbe competere "alla pari con lui" è ancora giù in miniera a cavare il carbone che serve per tenergli il culo tiepido.

Questo genere di ipocrisia si trova nel macro come nel micro: vedi Iraq, Medio Oriente e petrolio. "American interest abroad", lo chiamano con eleganza a Washington, "interessi americani all'estero". Che sarebbe come definire "interessi erotici fuori casa" la moglie del tuo amico. Prova a spiegarlo a lui, che sua moglie rientra nei tuoi interessi all'estero.

Ma se il bastone più grosso ce l'hai tu, lo zittisci con un colpo di clava e poi dici alla moglie con un sospiro "Ah, è dura la legge della jungla".

Questo siamo noi, signori cari, questo è l'occidente, questa è la sua cultura, questi sono i parametri con i quali cresciamo e nei quali siamo abituati a vivere. La colpa non è di nessuno di noi, ovviamente, ma ciò non toglie che sia un dato di fatto.

E allora, perchè stupirsi poi se "lo stato", ovvero gli altri, non si occupano di noi? Noi ci occupiamo per caso degli altri? No, anzi. Mors tua vita mea, abbiamo detto finora. E allora? Dov'è lo stupore? Dove sta lo scandalo?

E se questa è la logica, non deve nemmeno stupire che la medicina non sia lì necessariamente per curare gli individui, ma casomai per arricchirne degli altri.

(*) Di cancro - non è una battuta, ma una cruda statistica - c'è più gente che ci vive di quella che ci muore. Un malato di cancro rende agli ospedali decine di migliaia di Euro, fra cicli di chemio, radioterapie ed altre cure assolutamente inutili. Che facciamo? Vogliamo per caso guarirlo, magari con un'erbetta da 30 Euro che non vendiamo nemmeno noi? E poi come li ammortizziamo, i macchinari? E poi a chi li vendiamo, quei medicinal inutili?

Abbiamo quindi un crudele paradosso in cui il paziente va all'ospedale per sottoporsi ad una cura costosissima ma illusoria, solo per tornare a casa e pagare le tasse con cui lo Stato rimborserà all'ospedale quella cura. Cornuto, e pure mazziato.

Mentre desterebbe scandalo una casa farmaceutica che rinunciasse ad un profitto per favorire un qualunque bisogno altrui. Casomai, se proprio qualcuno scopre una cura nuova, gli daremo il Nobel. Li abbiamo inventati apposta, per tacitare la nostra coscienza, senza accorgerci che in quel modo attribuiamo uno status di eccezione a quella che dovrebbe essere la regola.

Provate solo a pensare: un milione di dollari a uno che magari scopre la cura per l'unghia incarnata, quando questo dovrebbe essere il risultato quotidiano a cui siamo abituati ormai da qualche decennio.

Con tutti i soldi che finiscono nella ricerca invece, gli unici risultati di un certo spessore, da alcuni anni a questa parte, sembrano essere nuove medicine che curano mali fino a ieri inesistenti.

Quanti soldi vengono versati, ogni anno, in tutto il mondo, per la "ricerca sul cancro"? Eppure, di risultati non se ne vedono: siamo esattamente dove eravamo 30 anni fa. E non è un modo di dire. Tanto per cominciare, allora, perchè non domandarsi perchè si chiama ricerca sul cancro, e non ricerca "contro" il cancro?

Abbiamo creato il mostro corporativo, che ci ha assolto dal penoso compito di depredare personalmente i nostri simili, lasciando che sia "l'esigenza dell'azienda" a dettare le scelte e le strategie che fanno di tutto meno che alleviare le sofferenze di chi è malato.

Di fronte ad un sistema che ci sta chiaramente sfuggendo di mano, l'unica speranza è questa: se è stato l'individuo a creare la logica delle corporation, l'individuo sarà anche in grado di disfarla, e di sostituirla con qualcosa più a misura uomo. Ma per farlo, deve prima capire.

E' perfettamemte inutile prendersela "con la società", oggi. La società siamo noi. Se non cambieremo prima noi, non cambierà mai il mondo.

Massimo Mazzucco

(* Da questo punto in poi l'articolo è stato riscritto, dopo la pubblicazione)




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