L'ultimo golpe: la strage di Capaci

Data 22/5/2013 0:00:00 | Categoria: storia & cultura

di Massimiliano Paoli

"L'esistenza di eventuali, quanto non improbabili mandanti occulti, che restano sullo sfondo di questa vicenda, costituisce il principale enigma a cui questo processo non ha dato una convincente ed esaustiva risposta. [...] Appare necessario indagare nelle opportune direzioni per individuare gli eventuali convergenti interessi di chi a quell'epoca era in rapporto reciproco di scambio con i vertici di Cosa nostra e approfondire, se e in che misura, sussista un collegamento tra le indagini di Tangentopoli e la campagna stragista, e, infine, per meglio sviscerare i collegamenti e le reciproche influenze con gli eventi politico-istituzionali che si verificarono in quegli anni". Estratto dalla motivazione dei giudici della Corte d'assise d'appello di Caltanisetta per il processo inerente alla strage di Capaci.

"Mandanti occulti". Quante volte abbiamo letto o sentito queste due parole apparentemente vaghe, inafferrabili, quasi dietrologiche?

Molte, forse troppe volte.

Troppe perché per lunghi anni, per molte stragi italiane, quelle due parole sono spesso andate a braccetto col termine impunità; due parole che trasudano verità indicibili. Verità indicibili che si sanciscono sul grande scacchiere della politica internazionale: un'inevitabile partita a scacchi giocata tra stati e lobby sulla pelle di tanti, di troppi. Una partita che ha tolto al nostro paese eccellenze sul fronte morale e professionale, ma soprattutto ha privato esseri umani del calore dei propri cari e viceversa. La più tragica delle banalità.

La nostra storia però, di banale ha ben poco.

La nostra storia comincia con le dichiarazioni del vecchio boss di Altofonte (da tempo collaboratore di giustizia) Francesco Di Carlo. [...]

L'atmosfera, sul piano internazionale, è quella del riassestamento geopolitico dopo il crollo del muro di Berlino; in Sicilia invece è quella dei veleni, delle missive anonime del famigerato "corvo" di Palermo, del fallito attentato all'Addaura(1) contro Giovanni Falcone, Carla Del Ponte e Claudio Lehmann.

"[...] Di Carlo, nel corso del dibattimento inerente al fallito attentato all'Addaura, ha riferito di aver ricevuto, intorno al 1990, quindi dopo il fallito attentato dell'Addaura, due visite all'interno dell'istituto penitenziario di Full Sutton [situato in Inghilterra], da parte di soggetti appartenenti ai servizi segreti. Di Carlo ha correlato questi colloqui al proposito di eliminazione di Giovanni Falcone. Più in particolare, ha riferito che, nell'istituto penitenziario [...] si è trovato a condividere, dall'86, il regime carcerario con Nezzar Hindawi, soggetto di origine palestinese, che aveva lavorato per i servizi segreti siriani, coinvolto nell'attentato all'aereo di linea caduto in Scozia che provocò la morte di circa 300 persone [la strage di Lockerbie]. [...]. Nezzar Hindawi era riuscito a procurargli un incontro con soggetti provenienti da Roma, uno dei quali verosimilmente di nazionalità italiana, mentre gli altri tre provenienti da altri Paesi, tutti appartenenti o, comunque, in contatto, secondo quanto riferitogli da Hindawi, con i servizi segreti arabi con ruoli di comando. [...]. Questi appartenenti alle strutture dei servizi segreti, gli hanno richiesto un supporto per un progetto di eliminazione di Giovanni Falcone al quale, in Italia, alcuni personaggi già stavano lavorando. Gli chiesero se poteva fornire loro un'indicazione di individui in grado di agevolare l'esecuzione di un attentato. Francesco Di Carlo, avendo motivi di rancore personale nei confronti di Falcone, che lo «aveva fatto condannare», forniva loro il nominativo di suo cugino Antonino Gioè, il quale, poi, veniva effettivamente contattato. Lo stesso Di Carlo, successivamente, avvertiva Gioè di essere cauto con tali personaggi"(2).

Al riguardo, queste sono le sue rivelazioni:

Mi dissero che in Italia - dichiarerà in seguito ai magistrati - c'era chi lavorava a togliere di mezzo Falcone. E chiedevano un aiuto. Io gli indicai mio cugino Nino Gioè. Poi so che si sono incontrati. Lui [Gioè] mi disse: «Hanno mezza Italia nelle mani, possiamo fare tante cose». Io avevo avuto per amico un generale che comandava i servizi segreti [il piduista del SISMI Giuseppe Santovito] a Roma. [...]. Perciò capivo un po' di servizi e quello che c'era sotto. E allora mio cugino cercavo di guidarlo: «Si, fanno favori, però vedi che al minuto opportuno scaricano, stai attento sempre». L'unica cosa che potevo dire era questa. Non lo so se poi si era esposto tanto, perché l'ultima volta che l'ho sentito Nino era molto preoccupato.

"Di Carlo ha riferito anche di un secondo incontro, svoltosi a distanza di 4-6 mesi dal primo, una sera intorno alle 20, con quattro personaggi dall'accento americano o inglese, che, mostrando di essere a conoscenza del precedente incontro, lo invitavano a collaborare con la giustizia, chiedendogli informazioni sull'omicidio del banchiere [piduista] Roberto Calvi e minacciandolo di morte. Di Carlo ha aggiunto, inoltre, di aver fatto avere a Salvatore Riina, tramite suo fratello Giulio [...] e [...] Antonino Gioè, una lettera con la quale spiegava quanto era accaduto e di aver avuto, in seguito, nel corso di un colloquio telefonico, assicurazioni da parte di Riina, che lo ha tranquillizzato con la promessa che si sarebbe occupato della situazione e avrebbe risolto il problema"(3).

"[I]l procuratore Tescaroli parlò di «riottosa indisponibilità delle autorità della Gran Bretagna a collaborare per l'espletamento della commissione rogatoria richiesta, tesa a verificare le […] indicazioni [del Di Carlo]»"(4).

L'enigma Gioè

Come evidenzia la sopracitata testimonianza, un ruolo centrale nello sviluppo delle trame che vedono protagonista Cosa Nostra (in particolar modo lo zoccolo duro dei cosiddetti corleonesi) e certi settori degli apparati di sicurezza nei primissimi anni novanta, viene ricoperto da Nino Gioè: autorevole esponente della cosca di Altofonte.

Nella "biografia non autorizzata" di Nino si scorge subito un'anomalia: secondo l'ex parà della "Folgore" Fabio Piselli, Gioè era «un ex sottufficiale dei paracadutisti», e quindi «il ministero [della Difesa] lo conosceva bene».

Questa notizia, che proviene da "fonte di autorità giudiziaria", se confermata darebbe un notevole impulso di credibilità (se ce ne fosse ulteriore bisogno) a chi, come il sottoscritto, crede che nella torbida stagione delle stragi, strutture clandestine dei servizi segreti abbiamo quantomeno fornito alla mafia il retroterra logistico-informativo per mettere a segno quei gravissimi delitti.

Ma mettiamo momentaneamente da parte questa "suggestiva" pista investigativa e torniamo al boss della "famiglia" di Altofonte ed al suo identikit ufficiale.

Nato il 4 febbraio del 1948, Gioè gestisce un distributore di benzina nel piccolo comune palermitano. Viene arrestato per la prima volta nel '79 con l'accusa di detenzione d'armi e traffico di stupefacenti; in seguito verrà accusato di sequestro di persona, omicidio e occultamento di cadavere.

Nel 1981, detenuto nel carcere siciliano di Sciacca, ha il piacere di conoscere il signor Roberto Da Silva, nato a Rio de Janeiro nel 1953 e arrestato il 14 febbraio del 1981 per un furto pluriaggravato di mobili antichi.

"L'8 gennaio 1982 [...] Da Silva, fu colpito da un altro mandato di cattura del giudice istruttore del Tribunale di Reggio Emilia, per associazione a delinquere finalizzata, anche in questo caso, alla ricettazione di mobili antichi. [...]. Nello stesso mese, il 18 gennaio 1982, [...] fu accertato che il Da Silva Roberto non era altri che Bellini Paolo(5). Per effetto di questa vicenda furono arrestate quattro persone, tra cui un tenente colonnello dell'esercito del Distretto militare di Modena, perché era stata asportata la cartella contenente le impronte digitali del Bellini, che poi servirono per la comparazione con le impronte digitali del Da Silva Roberto"(6).

"Dal rapporto tra Bellini e Gioè, dieci anni dopo, avrebbe preso corpo l'idea delle stragi mafiose sul continente [quelle del '93]"(7).

Ma andiamo per gradi...

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L'articolo prosegue qui, a pag. 5 del PDF (scaricabile).

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Di Massimiliano Paoli (m4x) vedi anche "L'affaire Moro: un caso mai risolto".



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