Avatar: requiem per la settima arte

Data 31/1/2010 14:30:00 | Categoria: media



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Avatar: requiem per la settima arte

Aveva perfettamente ragione Wim Wenders quando disse, oltre 30 anni fa, che “gli americani ci stanno colonizzando il subconscio”.

Con il successo mondiale di un film come Avatar possiamo affermare che ci sono riusciti in pieno. Questo film infatti decreta la completa, definitiva ed irreversibile morte di quello che una volta era chiamato “cinema”.

Purtroppo non è facile parlare di cinema, poichè non esistono dei canoni assoluti per giudicare i film. L’unico strumento oggettivo a cui possiamo fare ricorso è il cosiddetto "successo di botteghino", che ci permette almeno di stabilire una graduatoria di gradimento universale, che superi il giudizio individuale.

Negli anni ’50 “Via col vento” fu un grande successo commerciale, per cui possiamo dire che ”Via col vento” fosse un film “bello” per la sua epoca. Negli anni 80 “Bladerunner” fu un grande successo commerciale, per cui possiamo definirlo “bello” per i gusti di quegli anni.

Nel caso di Avatar siamo nuovamente di fronte a record assoluti di incasso, per cui possiamo dichiarare che questo film sia certamente "bello", rispetto agli attuali canoni di gradimento.

Tutto questo non significa che non si possano giudicare questi canoni, traendo eventuali conclusioni sul cinema in generale, ...

.. e non sul film in particolare.

Quando nacque il cinema – dal greco “kinèma”, che significa “movimento” - sembrò prima di tutto un grande miracolo della tecnologia di quei tempi: l’idea di poter riprendere degli operai che escono dalla fabbrica, oppure l’arrivo di un treno in stazione, per poi rivederli “tali e quali” sullo schermo di una sala buia, sembrò a tutti eccitante, magica e meravigliosa.

Presto però i primi autori si accorsero che la vera “magia” del cinema non stava nella riproduzione di un fatto reale, ma nel poterne modificare a piacimento il significato finale, grazie alla tecnica del montaggio.

Tali si rivelarono le potenzialità espressive del montaggio, che il regista russo Eisenstein arrivò a teorizzarne le regole principali nel suo famoso libro “La forma del film”.

Da quel momento in poi il cinema si guadagnò il diritto di comparire accanto alle più nobili forme espressive, fino ad essere acclamato universalmente come “settima arte”.

Nel frattempo i film diventavano sempre più lunghi e complessi, e si cominciò a pensare al cinema come strumento narrativo vero e proprio, introducendo così le stesse problematiche di tipo strutturale già conosciute in letteratura.

Fu sempre un russo, Vladimir Propp, a definire i principi universali della struttura narrativa nel suo libro “Morfologia della fiaba”. Dopo aver analizzato un centinaio di fiabe e racconti popolari, Propp si accorse che seguivano tutti lo stesso schema narrativo, nonostante i personaggi e le ambientazioni fossero completamente diversi l’uno dall’altro.

Si trattava, in realtà, degli stessi principi già individuati da Aristotele nella tragedia greca, che però Propp aveva approfondito al punto da poterli rappresentare con una precisa formula matematica, che conteneva oltre trenta funzioni narrative.

Nel frattempo era scesa in campo Hollywood.

Da sempre sensibili alle nuove possibilità di fare soldi, gli americani avevano capito che quella del cinema poteva diventare una fonte di guadagno praticamente inesauribile.

Per ottenere questo risultato occorreva però togliere il cinema dalle mani dell’autore, per trasformarlo in una vera e propria industria, impersonale ed efficiente, in grado di funzionare indipendentemente dalle persone utilizzate nei vari ruoli di volta in volta.

Proprio “Via col vento” ci offre uno degli esempi più eclatanti, in quanto fu possibile realizzare un campione assoluto di incassi ingaggiando tre registi diversi nel corso della produzione.

L’altro elemento che Hollywood si preoccupò di standardizzare fu quello della struttura narrativa. Esattamente come per le favole di Propp – da cui gli americani avevano imparato la lezione – anche i film di Hollywood ricevevano luce verde solo se le sceneggiature rispettavano certi schemi narrativi, che da un lato garantivano una facile ricezione popolare, ma dall’altro limitavano alla radice la fantasia degli autori.

Ecco perchè a molte persone oggi i film americani sembrano “tutti uguali” . In realtà lo sono: cambiano solo personaggi e ambientazione, ma la “storia” intesa come “protagonista”, “identificazione”, “ricerca dell’oggetto desiderato”, “antagonista”, “conflitto” e “risoluzione” è sempre invariabilmente la stessa.

Iniziarono così due vicende parallele: quella del cinema europeo, autoriale e indipendente, e quella del cinema americano, impersonale e programmato, che avrebbero viaggiato senza mai incontrarsi fino alla fine degli anni ‘70.

Mentre Hollywood sfornava prodotti di intrattenimento, che sacrificavano regolarmente i contenuti a favore dell’aspetto commerciale, sulla nostra sponda gente come Rossellini o Visconti realizzava capolavori assoluti improvvisando con attori della strada, utilizzando avanzi di pellicola e set già esistenti, e facendo ovunque ricorso alla nostra proverbiale “inventiva” per supplire alla cronica mancanza di mezzi.

Negli anni ’60 toccava ai francesi imbracciare la cinepresa e tuffarsi fra la gente, dando così vita al cosiddetto cinema-veritè, mentre negli anni ’70 erano i tedeschi a creare la loro “nouvelle vague”, con le opere di Herzog, Wenders e Fassbinder che appartengono oggi alla storia del cinema. Attraverso gli stessi decenni abbiamo anche opere di grande valore da parte di autori isolati, come Ingmar Bergman, Andrei Tarkovsky o Luis Bunuel, che non erano legati ad una cinematografia particolare, confermando così la fondamentale importanza dell’autore nella creazione di un film europeo.

Ma sul finire degli anni '70 avvenne il cortocircuito fra i due sistemi.

Preoccupati da costi di produzione sempre maggiori, dovuti soprattutto alla nascita dello star-system, gli americani si accorsero che il mercato nazionale non era più sufficiente a ripagare con buoni margini i loro investimenti, e cominciarono a guardare al resto del mondo come possibile mercato aggiuntivo. (Oggi il mercato estero rappresenta per un film americano circa il 40% del ritorno sugli investimenti).

Nel frattempo da noi era arrivata la TV, il “cavallo di troia” culturale che aveva già iniziato ad erodere il nostro sistema di valori a favore di quello, molto più vacuo e superficiale, degli americani.

Questo fatto, sommato alla potenza economica del dollaro, rese facile la progressiva conquista del nostro mercato da parte di produzioni molto più commerciali delle nostre, che risultavano ovviamente più gradite al grande pubblico.

Da quel momento il cinema europeo si è andato lentamente estinguendo, senza mai avere la possibilità di riprendersi, poichè condannato in partenza dai costi proibitivi, che gli impedivano di fare concorrenza al prodotto americano. (Per coprirsi le spalle, in ogni caso, gli americani pensarono bene di comperare anche tutti i maggiori circuiti di distribuzione europei, in modo da essere comunque loro a decidere le sorti di qualunque film sul mercato).

Nel 1980 il sottoscritto ebbe la possibilità di conoscere Wim Wenders, a New York, alla presentazione di “Lightning over water”, lo straziante documento da lui realizzato insieme al morente Nicholas Ray. Fu in quell’occasione, mentre gli chiedevo consigli per realizzare il mio primo film, che mi disse con amarezza “lascia perdere, il cinema ormai è morto”. Trovai la cosa sorprendente, soprattutto in bocca ad un autore che si trovava in quel momento all’apice della sua carriera, ma in seguito ebbi a comprendere molto bene il significato di quelle parole. Naturalmente, per “cinema”, Wenders intendeva quello europeo.

Il resto, purtroppo, è storia nota.

Lo strapotere americano nelle nostre sale, e conseguentemente sui nostri schermi TV, si è andato progressivamente rafforzando, fino a portare quell’appiattimento culturale che assimila oggi un italiano ad un portoghese, un tedesco ad un francese, senza più nessuna differenza sostanziale.

Cambia forse il modo di dire “whao!”, ma la parola pronunciata è sempre la stessa.

Arriviamo così ad Avatar, quintessenza del cinema “spettacolare” americano, e ultimo chiodo nella bara di un cinema europeo già agonizzante da oltre 20 anni.

Senza voler entrare nel merito della vicenda, possiamo affermare che l’importanza primaria data al computer rispetto alla cinepresa sancisce già di per sè una sostanziale mutazione nel linguaggio, al punto che l’effetto diventa predominante rispetto al contenuto.

In altre parole, la scena “ha valore” soprattutto se funziona l’effetto visivo, e solo secondariamente se il passaggio narrativo è interessante. (Questo fenomeno si verifica già da tempo, in molti film di Hollywood, ma raramente si era vista una tale preponderanza dell’effetto sul contenuto).

L’utilizzo inoltre di personaggi “artificiali” - generati cioè dal computer, anche se sulla traccia di movimenti umani – permette un enorme risparmio dal punto di vista produttivo (non devi nè pagare il “grande attore” nè costruire dei set reali), ma penalizza l’espressività al punto da ridurla ad un cartone animato, dove i personaggi hanno sei o sette espressioni al massimo, e con quelle ti fanno tutto il film.

Le emozioni sottili, date dalle sfumature della recitazione umana, vengono così sacrificate a favore di un “codice universale”, molto più semplice e comprensibile, ma di portata decisamente limitata. (Anche la grammatica di Word, il noto programma di scrittura della Microsoft, invita apertamente ad usare termini semplici, con frasi brevi, evitando possibilmente la forma passiva).

E’ sempre stato il sogno degli americani, che forse intuiscono i propri limiti culturali, di ridurre ai minimi termini tutto ciò che possa sfuggire alla loro capacità di comprensione, creando un sistema preciso, organizzato e codificato che sia per loro più facile da controllare.

Alcuni lo chiamano pragmatismo, altri vi vedono un poderoso strumento di imperialismo culturale.

Resta in ogni caso da spiegare il grande successo del film, che viene attribuito soprattutto - a quanto si legge un pò dovunque – alla “storia interessante”, o meglio ai “concetti innovativi” che rappresenta.

Nuovamente, senza entrare nel merito, bisogna ricordare che il rapporto forma-contenuto è di fondamentale importanza in qualunque mezzo di espressione artistica. “Ladri di biciclette” farebbe ridere se fosse girato in stile hollywoodiano, con inquadrature “leccate”, attori superstar e contoluce a tutto spiano. Esattamente come farebbe ridere Bladerunner se fosse girato con due lire nel garage di casa nostra.

Più in generale, tutti gli elementi espressivi che compongono un film (soggetto, linguaggio, struttura narrativa, stile di ripresa, montaggio, ecc.) dovrebbere essere armonizzati al meglio fra di loro, mentre un tale abisso fra una “storia interessante” – presumendo che lo sia - ed un utilizzo così pervasivo del computer può soltanto danneggiare il risultato finale.

Se ne può avere un riscontro tangibile ogni volta che la storia passa dal mondo reale a quello reso al computer, e viceversa. Nel primo caso si fatica decisamente a “vivere” la transizione dal punto di vista del protagonista, con il quale manca completamente il meccanismo di identificazione. Nel secondo invece ci si accorge ogni volta di un ritorno brutale alla realtà, che avevamo momentaneamente dimenticato.

Ma i due livelli narrativi non si compenetrano mai in un’unica soluzione, fluida e coinvolgente, proprio a causa della distanza abissale fra i due linguaggi utilizzati.

Eppure, come dicevamo, il film piace.

Questo può solo significare, a mio parere, che gli americani ci hanno rincoglionito a tal punto da indurci ad apprezzare un qualunque frullato di elementi – stilistici, tecnici e narrativi - senza più capo ne coda.

Esiste una regola molto semplice da applicare, per valutare l’equilibrio fra i vari elementi che rende un film degno di quel nome: se gli stessi concetti possono essere espressi con pari efficacia da uno speaker che parla alla radio, vuol dire che quello non è un film ma solo un testo con immagini.

Il mio sospetto – visto la naturale repulsione che provo per i personaggi creati al computer - è che Avatar sarebbe stato addirittura meglio come semplice programma radiofonico.

Almeno quella faccia da melanzana del protagonista potevamo immaginarla come piaceva a noi.

Massimo Mazzucco



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