Massimo Fini e il "fenomeno Obama"

Data 16/11/2008 8:10:00 | Categoria: opinione

Massimo Fini ha scritto questo articolo sul “fenomeno Obama”, schierandosi decisamente dalla parte di coloro che “tanto non cambia nulla”. Lo pubblichiamo per intero, con mia risposta a seguire.

M.M.


Tutti pazzi per Obama? di Massimo Fini

Tutti pazzi per Obama. Oltre, e forse più, che negli Stati Uniti, in Europa e soprattutto in Italia dove non siamo mai secondi a nessuno nel flaianesco correre "in soccorso del vincitore". Tutti pazzi per Obama , a sinistra come a destra. A sinistra perché si ritiene che rappresenti "il cambiamento" (parola magica e taumaturgica che, per se stessa, non significa assolutamente nulla se non l'eterno bisogno dell'uomo di illudersi che le cose, nel futuro, vadano meglio), a destra però l'elezione di un presidente nero, o comunque mezzo nero, dimostrerebbe, come scrive, sia pur a denti stretti, Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, quanto "aperta e libera" sia la società americana.

Ho ascoltato in questi giorni un'infinità di stucchevoli dibattiti sulle elezioni americane, ma alla domanda perché mai Barack Obama debba essere considerato se non "l'uomo della Provvidenza" almeno quello del "cambiamento" (concetto che, se ha mai un senso, contiene in sè quello di "miglioramento") la sola risposta comprensibile che politici, politologi, esperti, commentatori, eccetera, hanno saputo dare è questa: perché è un nero. Ora un nero non è per ciò stesso, migliore di un bianco. Questo lo può pensare solo una società intimamente razzista come resta quella americana ...
... e, in sottofondo, anche come quella europea e italiana (altrimenti il fatto che il nuovo inquilino della Casa Bianca sia un nero, o comunque un mezzo nero, non susciterebbe tanto scalpore).

Anche Condoleezza Rice è nera, e per sopramercato donna, eppure è stata un'assatanata guerrafondaia, più del suo bianco superiore. Uno degli equivoci in cui cade la sinistra europea, e in particolare quella italiana, è di credere che i democratici americani siano, in politica estera, meno aggressivi dei repubblicani. Ma fu il democraticissimo Kennedy (e Obama è chiamato "il Kennedy nero") a iniziare la guerra del Vietnam e fu il disprezzatissimo repubblicano Nixon (forse il miglior presidente che gli Stati Uniti abbiano avuto nel dopoguerra, non a caso fatto fuori per una bagatella) a chiuderla. Fu sempre Kennedy a combinare il pasticcio della "Baia dei porci" e il democratico Carter quello del blitz nell'Iran khomeinista. Ed è stato il democratico Clinton, il sassofonista che tanto piacque a Veltroni, a fare la più assurda delle guerre, più assurda di quella all'Afghanistan o all'Iraq, dell'ultimo ventennio americano; la guerra alla Serbia, cioè all'Europa cristiana. L'America è un Paese imperiale e segue delle logiche imperiali cui nessun suo Presidente può sottrarsi. Al massimo Obama chiederà una maggior collaborazione agli europei ma sempre a condizione che seguano supinamente le logiche americane. Nessuno si illude che Obama ritiri spontaneamente le truppe dall'Afghanistan, dove si combatte la più vergognosa delle ultime guerre occidentali perché, sotto la formula ipocrita del "peace keeping", si vuole togliere a un popolo oltre la sua indipendenza anche la sua anima.

Obama non cambierà neanche il capitalismo americano. Perché anche il capitalismo, americano o meno, ha le sue logiche ferree da cui non può sfuggire. È inutile e ipocrita prendersela col capitalismo finanziario, perché è la diretta conseguenza, oltre che la precondizione, di quello industriale. Chi si scandalizza per il capitalismo finanziario è nella stessa posizione di chi avendo inventato la pallottola si meravigli che si sia arrivati al missile. Ora siamo al missile e non si può tornare indietro senza sconfessare l'intero impianto del modello di sviluppo occidentale. Cosa che nessun Obama può nè ha intenzione di fare.

Quanto al fatto che l'elezione di un nero dimostrerebbe quanto "aperta e libera" sia la democrazia americana, beh questo è un pensiero che può venire solo riguardo a un Paese che ha avuto fino a un secolo e mezzo fa la schiavitù, scomparsa in Occidente dalla caduta dell'Impero romano, e fino a cinquant'anni fa la segregazione razziale come nel tanto disprezzato Sud Africa bianco.

Non può essere portato come distintivo, come medaglia d'onore di una democrazia quello che in democrazia, che proclama solennemente l'uguaglianza di tutti i cittadini "senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione", dovrebbe essere l'assoluta normalità.

Massimo Fini

Fonte

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Risposta

Prima di entrare nel merito, vorrei fare alcune precisazioni di tipo storico: non è vero, come scrive Fini, che “fu il democraticissimo Kennedy a iniziare la guerra del Vietnam”. L’escalation militare iniziò già sotto Eisenhower, che aveva mandato i primi soldati americani come “consulenti” incaricati di “addestrare i sudvietnamiti” (all’uso delle armi che loro stessi gli avevano venduto). Kennedy ereditò questa situazione ambigua, e dopo averci “galleggiato” per un paio d’anni con posizione alterne, decise finalmente per il ritiro delle truppe. (Questo è uno dei tanti motivi, fra l’altro, per cui fu ucciso, permettendo a Johnson di ribaltare di colpo la sua direttiva iniziale).

Che poi Nixon sia stato “forse il miglior presidente che gli Stati Uniti abbiano avuto nel dopoguerra” resta tutto da vedere, ma è un’opinione che Fini ha il pieno diritto di esprimere. Sta di fatto che sotto Nixon la guerra in Vietnam raggiunse livelli di vera barbarie e dimensioni da vero genocidio, prima di rivelarsi un’impresa impossibile in ogni caso. Non si comprende quindi come sia criticabile chi quella guerra l’avrebbe iniziata (e nemmeno lo fece), ma non chi l’abbia proseguita in quel modo vile e truculento.

“Fu sempre Kennedy a combinare il pasticcio della Baia dei porci". Anche questo non è vero. Kennedy si ritrovò il progetto già pronto, che era stato messo a punto nel 1960 – guarda caso - proprio da Nixon, che era convinto di stravincere le elezioni di novembre, per poi metterlo in atto lui stesso.

E quando Kennedy approvò il piano, non gli fu detto che avrebbe comportato la sicura sconfitta dei “liberatori” sbarcati alla Baia dei Porci, con conseguente “necessità” di mandare in aiuto l’esercito americano. A quel punto infatti Kennedy disse di no, e preferì l’onta dell’imbarazzo mondiale al rischio di una nuova guerra mondiale. (Poi infatti licenziò Dulles, il capo della CIA che lo aveva incastrato con quel piano, sperando di ricattarlo all’ultimo momento).

“Fu il democratico Carter quello del blitz nell'Iran khomeinista”. Anche questo non è corretto. Il fallimento del blitz fu progettato dai repubblicani e dalla CIA, proprio per screditare Carter e permettere a Reagan di vincere le elezioni.

“Ed è stato il democratico Clinton a fare la più assurda delle guerre, più assurda di quella all'Afghanistan o all'Iraq, dell'ultimo ventennio americano; la guerra alla Serbia, cioè all'Europa cristiana”.

La guerra alla Serbia fu, purtroppo, tutto meno che assurda. Era in realtà una necessità impellente – ma non per questo giustificata - di tipo geopolitico (transito droga, gasdotti, do ut des con la Turchia, ecc.) da parte dell’occidente, rappresentato in questo caso dalla NATO. Il tutto avvenne sullo sfondo di una guerra di religione che durava da quasi 1000 anni, nella quale proprio i cristiani ortodossi furono il nemico principale dei cattolici. Forse Fini non sa che durante la seconda guerra mondiale, la Croazia cattolica aveva istituito dei campi di concentramento per i cristiani ortodossi della Serbia, in confronto ai quali Mathausen era il Club Mediterranèe (furono gli stessi caporioni nazisti a stupirsi della crudeltà di Ante Pavelic contro i cristiani della Serbia).

La guerra del ’91 fu quindi – fra le altre cose - l’episodio che sancì la definitiva vittoria dell’occidente cattolico contro gli scismatici ortodossi, e dire che fu una “guerra alla Serbia, cioè all'Europa cristiana” è come minimo una grande inesattezza.

Veniamo ora all’argomento centrale dell'articolo.

Concordo con Fini nella sua critica a Panebianco, quando dice che “l'elezione di un presidente nero, o comunque mezzo nero, dimostrerebbe, come scrive, sia pur a denti stretti, Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, quanto "aperta e libera" sia la società americana”.

Non ho letto l’articolo di Panebianco, ma se questa è la sua tesi la trovo piuttosto rozza e grossolana. L’america è “libera di votare”, certamente, ma si trova davanti una gamma relativamente ristretta di candidati: circa una ventina in tutto, dei quali gli unici papabili rispondono sempre a due partiti soltanto, il repubblicano e il democratico. E questi papabili diventano tali soltanto se si adeguano a certi parametri, tanto complessi da elencare quanto facili da immaginare. Il vero “rivoluzionario” – che sia un Ralph Nader a sinistra, oppure un Pat Buchanan a destra – non arriverebbe mai al ballottaggio finale.

E’ anche vero che personaggi estremi come loro non verrebbero comunque votati dalla maggioranza degli americani, per cui si può anche suggerire che il “sistema” si occupi di eliminarli già in partenza, snellendo il processo decisionale nella fase conclusiva. (Non è così, in realtà, poichè si tratta di un monopolio – anzi, di un duopolio - molto più feroce ed elitario, ma non è mostrando la ristrettezza del campo di scelta che si dimostra l’invalidità del sistema americano).

Sbaglia invece Fini, a mio parere, quando afferma che la sinistra veda in Obama il cambiamento “perchè è nero”. Non so se sia sbagliata l’attribuzione di Fini, oppure il pensiero originale, ma Obama è prima di tutto un membro del partito democratico, e se non fosse appartenuto ad uno dei due maggiori partiti non avrebbe vinto nemmeno se fosse stato bianco come la neve. Il fatto che sia nero rappresenta invece un cambiamento nella popolazione, che è una cosa completamente diversa.

Lo ripeto: una cosa è il “cambiamento” che ci si può aspettare da Obama, ben altra è il cambiamento che già c’è stato con Obama eletto alla presidenza.

Chi vuole criticare – oppure esaltare – l’elezione di Obama, dovrebbe tenere sempre presente questa importante distinzione: il cambiamento che porterà Obama resta tutto da vedere, ma il cambiamento nella popolazione americana c’è già stato, e questo è irreversibile.

Ha infatti ragione Fini, quando dice che la società americana è “profondamente razzista”, ma a questo punto non può non riconoscere lui stesso che l’elezione di Obama rappresenti, in quel senso, un profondo cambiamento. Altrimenti si contraddice da solo.

Ma il vero problema di fondo, nell’articolo di Fini, sta nel confondere ideali e realtà effettiva, utilizzando i primi per deprecare la seconda.

A tutti piacerebbe che l’America “ritirasse le truppe dall’Afghanistan” dall’oggi al domani – e questo è l’idealismo - ma tutti sanno bene che la cosa non sarebbe possibile - e questo è il realismo. Ma la cosa non sarebbe possibile per chiunque fosse il presidente eletto, non solo per Obama. Nemmeno Gesù Cristo, se entrasse domani alla Casa Bianca, potrebbe ritirare le truppe americane dall’oggi al domani, per il semplice fatto che l’America è convinta che l’Afghanistan sia un paese di terroristi.

Gesù Cristo dovrebbe quindi mettersi a fare prima un paziente lavoro di smontaggio culturale, in modo che il ritiro delle truppe non scateni nel paese una reazione isterica di allarmismo generale.

I guerrafondai neocons, infatti, sapevano molto bene che cosa servisse per sostentare nel tempo il loro progetto bellico, e solo chi non abbia mai passato l’intera sua esistenza in una tranquilla stradina di Nowhereville può non comprendere il profondo trauma che ha rappresentato per l’americano medio l’undici di settembre.

Come la storia ci mostra, la politica estera di un paese riflette sempre la cultura di quel paese, e non viceversa.

Non sarebbe stato possibile per gli americani prendere parte alla seconda guerra mondiale, se non ci fosse stato prima il “giorno dell’infamia” di Pearl Harbour, che scatenò una profonda e diffusa indignazione popolare contro il “nemico jap” (al punto che i giapponesi di cittadinanza americana finirono in campo di concentramento, negli stessi Stati Uniti).

Non sarebbe stato possibile per gli americani scatenare le guerre di Corea e Vietnam, se non si fosse prima costruito la psicosi collettiva del “pericolo comunista” (da cui la necessità di “salvare” i popoli dell’Indocina – e del mondo - dal “dilagare del pericolo rosso”).

Non si sarebbero mai potuti invedere Afghanistan e Iraq (e distruggere definitivamente la Palestina, non dimentichiamolo), se non si fosse prima costruito la psicosi collettiva del “terrorismo islamico” (da cui la necessità di liberare il mondo da questo “cancro inarrestabile”).

Pretendere quindi che Obama richiami di colpo le sue truppe, come se richiamasse il cane che gli è sfuggito dal guinzaglio, è semplicemente impensabile. E usare questo ragionamento per sostenere che “con Obama non cambierà comunque nulla” è tutt’altro che corretto.

Se potrà – si presume - Obama cercherà prima di tutto di dare una forte “controsterzata” di tipo culturale, riportando in auge quei valori di rispetto reciproco e di convivenza civile che sono stati calpestati dalla brutalità prevaricatrice dei neocons.

Non a caso Obama, nel suo discorso dopo la vittoria, ha detto che “ci vorranno anni per rimetterci sulla giusta strada, e forse un solo termine non sarà sufficiente”. Ufficialmente, stava parlando di economia, ma è lecito pensare – per quel che si conosce di lui – che si riferisse anche ad un cambiamento di tipo culturale e morale: in fondo, anche la crisi economica è figlia di una certa cultura materialistica, che ha portato l’America al bordo del tracollo con l’illusione della fruizione illimitata di una ricchezza che non esiste.

Ci fu una risposta di Obama, durante i dibattiti con McCain, molto significativa in questo senso: alla domanda “Visto le dimensioni della crisi economica, ciascuno di voi dovrà rinunciare, se eletto presidente, almeno ad una parte dei suoi progetti più ambiziosi: quali?”, McCain rispose che avrebbe congelato le spese tout-court, “salvo per la difesa e per i veterani”. Obama invece rispose; “qualunque saranno le rinunce da fare, non dovranno mai andare ad intaccare certi principi di ordine morale e sociale”.

In altre parole, la priorità di McCain sembrava quella di voler accontentare gli amici del Pentagono, quella di Obama di salvaguardare certi principi nei quali – evidentemente - vede le basi per la rinascita del paese.

Certamente, ha ragione Fini quando dice che “L'America è un Paese imperiale e segue delle logiche imperiali cui nessun suo Presidente può sottrarsi”, ma bisogna ricordare che le “logiche” del paese sono la diretta espressione della sua cultura, e che cambiando quella anche le logiche nel tempo vengono a mutare. (In fondo, non diciamo sempre che ogni popolo ha i politici che si merita? Se quindi cambia il popolo...)

Stiamo vivendo un periodo storico di profonda mutazione, che viene imposto all’intero occidente (e non solo all’America) sia dalla crisi economica che da quella energetica, e quando Obama parla di mettere al ministero dell’ambiente un certo Robert Kennedy Jr., solo un cinico di professione potrà dire che “tanto non cambia nulla”.

Questa mutazione è in chiara accelerazione, e sta polarizzando le forze mondiali verso uno scontro fra chi la vuole, perchè ne ha compreso l’urgente necessità, e chi la resiste, perchè difende i suoi privilegi individuali (o di casta).

Siamo allo scontro finale – il vero Armageddon, che sarà culturale, e non bellico - fra egoismo e altruismo.

Smettiamo quindi di giudicare gli eventi come si giudica una fotografia – statica e immutabile - e iniziamo a guardarli all’interno di un film, in mutazione costante, nella quale ogni piccolo passo viene compiuto con enormi fatiche poichè va mosso contemporaneamente da qualche miliardo di persone.

Invece di pretendere miracoli impossibili, per poi criticare chi non riesca a realizzarli in venti minuti, facciamo ognuno la nostra parte, spingendo nella giusta direzione, e cominciando noi stessi a comportarci come il mondo nel quale vorremmo vivere.

Massimo Mazzucco



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