Controllo o deterrenza?

Data 19/7/2008 9:20:00 | Categoria: opinione

Ritorno sull’argomento delle impronte digitali, della privacy e del “controllo del cittadino“ in generale, perché la discussione di ieri ha aperto spunti interessanti, e vale la pena di provare a trarre qualche conclusione.

Sono stati presentati due articoli apparentemente contrapposti, che hanno fatto molto discutere, dividendo più o meno a metà le opinioni degli altri utenti. In realtà, rileggendo tutti i commenti da cima a fondo, ci si rende conto che i due articoli non sostenevano affatto due tesi opposte, ma analizzavano due volti della stessa medaglia.

Che esista un continuo e insistente tentativo da parte delle autorità di “tenere sotto controllo“ i cittadini, nessuno lo mette in dubbio. Quella che è in discussione, caso mai, è la reale valenza di questo tentativo: si può pensare alle impronte digitali (e a qualunque altra schedatura di questo tipo) come a un micidiale strumento di potere, del quale i governanti potrebbero fare un uso improprio a loro piacimento. Oppure si può pensare alle impronte digitali (e a qualunque altra schedatura di questo tipo) come uno strumento di deterrenza psicologica, inteso a “far sentire” il cittadino sotto controllo più di quanto sia nella realtà.

Proviamo per un istante a metterci dalla parte opposta della barricata: siamo in quattro gatti, messi a governare 50 milioni di persone che rischiano di accorgersi da un momento all’altro della monumentale presa in giro di cui sono vittime. Gente onesta, che lavora dal mattino alla sera, e si spacca la schiena anno dopo anno, ...
... in cambio di quel tanto che sia sufficiente a non crepare di fame, mentre un numero ristrettissimo di privilegiati accumula ricchezze inimmaginabili sulle spalle di queste persone.

Questa è la realtà di fatto da cui bisogna partire, se vogliamo riuscire a vedere le cose nella giusta ottica.

Grazie a una sofisticatissima ragnatela di trucchi, inganni e manipolazioni di ogni tipo, chi gestisce i flussi monetari, i tassi di interesse, gli stipendi, la scala mobile, le importazioni, le esportazioni, i finanziamenti statali – insomma, chi comanda - ha scovato ormai da tempo il modo di far lavorare questi 50 milioni di sudditi senza che si accorgano di quanto viene loro sottratto quotidianamente: se veramente il frutto del lavoro di tutti gli italiani venisse trasformato in ricchezza per i medesimi, vivremmo tutti come nababbi. Non è una metafora, ma una realtà facile da dimostrare: noi infatti fatichiamo ad arrivare a fine mese solo perchè furti, tangenti, creste, inganni, bustarelle e manipolazioni di ogni tipo “deviano“ parte di questa ricchezza dalla giusta destinazione. Se i politici “rubano”, vuole dire che quei soldi verranno a mancare dalle tasche comuni, e quelle sono le nostre. Ogni volta che viene accordata una tangente, i soldi per pagarla non provengono da Marte, ma dalle casse dello Stato. E in quelle casse i soldi ce li abbiamo messi noi.

Se questa è la premessa, ne consegue che il compito di chi viene messo a governare sia prima di tutto di garantire lo status quo, e questo implica dover “tenere buoni“ questi 50 milioni di schiavi dell’era moderna contro eventuali “risvegli” di qualunque tipo.

Vi sono diversi modi per ottenere questo risultato: prima di tutto, c’è la televisione, che serve sia come canale diretto di comunicazione, sia come strumento di controllo indiretto.

In forma diretta, la TV si occupa di gestire (riempire) il nostro tempo libero con contenuti che non sono scelti da noi: quando pronunciamo la classica frase “cosa c’è stasera in TV?”, in realtà stiamo consegnando le nostre ore di libertà a programmatori che sono interessati a tutto meno che alla nostra crescita individuale.

In forma indiretta la TV ci propina incessantemente una serie di falsi valori, che a loro volta ci impediscono di leggere la realtà in modo più obiettivo: se il messaggio televisivo (pubblicitario) colloca il SUV, il telefonino globale e la villetta indipendente ai gradini più alti dei valori, noi concentreremo tutte le nostre energie verso quegli obiettivi, e saremo distratti da altre realtà più contingentii.

C’è poi lo stadio, che fa da valvola di sfogo per buona parte della violenza fisica che si accumula negli individui nel corso della settimana. Ci sono le “vacanze esotiche“, che trasformano quello che dovrebbe essere un meritato periodo di riposo in una specie di lusso per molti ormai inarrivabile.

E poi, se tutto questo non bastasse, ci sono le forze dell’ordine.

Per chi sta al governo è assolutamente indispensabile poter intervenire in qualunque momento, per mettere immediatamente sotto controllo eventuali focolai di rivolta - anche solo di tipo ideologico – prima che si allarghino e sfuggano di mano.

Proviamo ora a immaginare, da questo punto di vista, quali possano essere i vantaggi effettivi - pratici, tecnici, intendo - di una schedatura generalizzata delle impronte digitali: a mio parere, nessuno. Se si vuole colpire un singolo cittadino, oppure un gruppo, non c’è alcun bisogno di essersi procurato in anticipo le sue impronte, come altri suoi dati personali. Nel momento stesso in cui si decida di abusare del proprio potere, facendo un uso improprio delle leggi per colpire quel cittadino, l’unico limite è la fantasia umana: quando si ha la faccia tosta di raccontare al mondo che un certo Pietro Valpreda avrebbe preso un taxi per andare a mettere la bomba alla Banca dell’Agricoltura, ci si dovrebbe rendere conto di quanto ridicolo sia – da parte delle stesse persone - prendere anticipatamente le impronte a 50 milioni di persone.

Lo ripeto, per chi magari non lo sapesse: c’era bisogno di un “anarchico” per coprire la bomba di stato, ed ecco che questo signore prende un taxi per fare i 400 metri che lo separano da Piazza Fontana. Non contento, durante il tragitto “si mostra molto agitato”, obbligando così il taxista a voltarsi e a guardarlo ripetutamente in faccia, nel caso dovesse mai riconoscerlo in questura.

Questa è la realtà in cui viviamo. Le impronte digitali invece le usano nei film polizieschi, dove non si può far vedere come agisce davvero la polizia di mezzo mondo, e bisogna fingere che le forze dell’ordine agiscano sempre nel rispetto della legge. (“Aha! Ti ho beccato! Per fortuna avevo le tue impronte digitali, altrimenti mi saresti sfuggito, malandrino!”)

Di fronte a un fatto come quello di Piazza Fontana – oppure allo stesso Undici Settembre, dove le foto dei passaporti sopravvivono alle fiamme dell’inferno - dovrebbero apparire più chiare due cose: il totale senso di impunità che pervade coloro che stanno al potere, e l’assoluta inutilità di una impresa così monumentale come rilevare “anticipatamente” le impronte di tutti i cittadini, solo per riuscire magari a “incastrarne” uno, se mai diventasse necessario.

Sarebbe come far sterilizzare tutte le donne del paese, per evitare che un giorno tuo figlio ne metta incinta una. Dagli il preservativo, e digli di usarlo quando serve, no?

Dal punto di vista psicologico, invece, la schedatura delle impronte digitali può certamente avere una funzione di deterrenza, in quanto accresce nel cittadino quel senso di “essere osservato“ che tutti in qualche misura condividiamo.

Sta quindi a noi, cadere o meno nel tranello: più lamenteremo a viva voce questa “continua intrusione nel mio mondo privato“, più contribuiremo a diffondere lo stesso senso di oppressione che serve proprio a ”tenere buona la gente”.

Più denunceremo la assoluta inutilità pratica di tale operazione, più contribuiremo, paradossalmente, a una nostra liberazione: la forza del cittadino deve stare prima di tutto nella coscienza dei suoi diritti, e in secondo luogo nella volontà collettiva – lo ripeto, collettiva - di vederli rispettati a tutti i costi.

Se invece ci raccontano che Valpreda ha preso il taxi per andare in banca, e noi stiamo zitti e buoni senza dire niente (pensando magari “tanto a me che cazzo me ne frega?”), ci stiamo preparando inconsapevolmente al momento in cui magari toccasse a noi essere presi di mira ingiustamente. E a quel punto non saranno certo le impronte digitali a incastrarci, ma la stessa apatia popolare che ci ha fatto accettare tali ingiustizie quando capitavano agli altri.

Massimo Mazzucco



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