Welby e suicidio assistito: Tanto rumore per nulla

Data 8/12/2006 23:25:14 | Categoria: Medicina

di Andrea Franzoni

«Cosa giustifica questo accanimento? Che è una specie di accanimento opposto a quello terapeutico, e però ugualmente ingiusto e disumano. Un accanimento fatto di sbattere in prima pagina, di lanciare proclami. E’ tutto un assieparsi di gente interessata alla morte più che alla vita. Che la morte la invoca. Di fronte a un uomo che, disperato, non trova più motivi per vivere, si accaniscono, inventano manifestazioni clamorose, convocano commissioni di saggi per dire: muoia. Che strano accanimento, che circo nero. Che in nome della pietà invoca la morte. Invece che i motivi per la vita».

Il dibattito che ha come fulcro la vicenda dolorosa di Piergiorgio Welby sta diventando sempre più surreale e, come mostra il brano tratto dall’editoriale di Avvenire (1), quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana, sempre più ideologico. In realtà la vicenda di Welby non richiede né alti struggimenti etici né dissertazioni teologiche: sono spesso più delicate e discutibili molte liti di condominio.

Perché, si chiede l’editorialista, tutta questa gente che sta attorno a Welby ...
... e lo «sbandiera come un pupazzo» invece di fare il possibile per realizzare la sua ponderata e tragica volontà, non lavora per convincerlo ad accettare il suo stato di inumana simbiosi con la macchina e di dolorosa impotenza facendogli bere, come attraverso il tubo che introduce aria e proteine in un corpo alieno, qualche presunto “motivo per la vita”? Forse perché i “motivi per la vita” non si possono travasare, perché gli uomini adulti e vaccinati non si possono ammaestrare e abbindolare in nome di un principio radicale, di una interpretazione integralista della «vita dal suo concepimento alla sua morte naturale»? C’è forse una mancanza di rispetto per l’individuo, per la sua intelligenza e per la sua vicenda umana, per la sofferenza sua e di chi osserva, immobile, uno stato tanto civile quanto sordo?

Avvenire parte dalla posizione di chi ha la verità assoluta a propria disposizione e non ha che da travasarla nel prossimo che la farà necessariamente sua in quanto giusta. E se la pecorella smarrita si fosse soltanto stufata del pastore, che la teneva in gabbia guardata a vista dai cani, e avesse deciso deliberatamente di fuggire, di trovare una sua strada, di “peccare”? Che diritto hanno questi signori di catturarla, di violentarla, di batterla e di legarla (tutto per il “suo” bene) nel recinto?

Aggiunge Avvenire in un altro editoriale: «Da studi clinici abbiamo appreso che la richiesta della morte assistita più che da una ferma volontà o da libere convinzioni, proviene dalla solitudine dal dolore, dal senso amaro della propria superfluità». Il paziente non è quindi “libero” di decidere, ma è condizionato da una qualche “ostilità” o comunque da un’assenza di affetto o di conforto di chi gli sta intorno. Che lo distoglie dalla “retonforto di chi gli sta intorno. Che lo distoglie dalla “retta via”. La questione posta da Eugenia Roccella merita sicuramente una riflessione, anche se è probabile che la sensazione di «senso amaro della propria superfluità» sia più figlia della percezione della propria condizione reale che di una qualche carenza di dedizione di amici parenti-(radical)serpenti che l’articolo lascia intendere. La questione in ogni caso non si sposta ma, anzi, viene rilanciata: perché il paziente che richiede la morte assistita (anche sulla base della solitudine del dolore) non ha il diritto a mettere fine alle proprie sofferenze non solo fisiche ma anche morali?

Di fronte alle questioni bioetiche e al dibattito sull’eutanasia la “componente clericale” (Chiesa, fedeli e “atei devoti”) dà l’impressione di giocare sporco e di radicalizzare. Proprio come negli slogan che accompagnavano la battaglia di tante donne e di tanti uomini per il diritto a provare la gioia e il cemento della gravidanza e del parto che tiravano in ballo l’eugenetica nazista e il dottor Mengele, che lasciavano intendere tutto tranne l’interesse ad affrontare onestamente una questione rapidamente uscita dai binari della realtà risoltasi con la confusione, con la paura, con il fallimento del quorum (occasione che forse alla luce di queste posizioni gli italiani dovrebbero rivalutare?). Questo radicalismo, questa incapacità di dimostrare rispetto e flessibilità di fronte alle istanze del singolo, questa convinzione di avere dalla propria parte una ragione ultraterrena tanto alta da dover essere imposta, non solo non fanno onore a chi urla tali insulti, ma rischia di radicalizzare anche la posizione degli “avversari”.

Tornando a Welby, la situazione che si pone è semplice, limpida, perfettamente definita, tanto che tutte le battaglie di principio paiono assolutamente fuori luogo. Ci troviamo, infatti, di fronte al caso di un uomo che, tenuto in vita dalle macchine che prolungano la sua agonia, chiede di poter essere lasciato morire o, se preferite, di suicidarsi. Purtroppo la sua situazione di invalidità non gli permette di farlo ma la sua mente, lucida e colta, ha deciso –certo con grande dolore- di mettere fine alla sofferenza. Perché un uomo che vive una determinata situazione, l’unico a sapere esattamente cosa prova e a cosa va incontro, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, non può mettere volontariamente fine alla propria esistenza? Da quando il suicidio, se cosciente, è reato? E se non si è in grado fisicamente di concludere la propria agonia, perché non si può delegare a qualcuno il semplice gesto di amore di spezzare quel fragile tubo di gomma che tiene legato il caro ad una vita che non è più vita?

«Io amo la vita, Presidente –scriveva Piergiorgio Welby a Giorgio Napoletano-. Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso – morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio ... è lì, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti. La morte non può essere “dignitosa”; dignitosa, ovvero decorosa, dovrebbe essere la vita, in special modo quando si va affievolendo a causa della vecchiaia o delle malattie incurabili e inguaribili».

«Vien da dire che se uno di questi manifestanti avesse a cuore veramente la fine delle sofferenze di quell’uomo che hanno reso bandiera, se avesse a cuore la sua propria, e personale sofferenza, andrebbe lì. staccherebbe la spina. Invece di sbandierarlo come un pupazzo. O meglio, spenderebbe i giorni e ogni sua risorsa per consolarlo». Così scrive Avvenire, nel medesimo editoriale che dipinge un uomo inconsolabile che, anche se ciò comportasse una colpa, ha scelto liberamente di consacrare la sua agonia mostrando il suo corpo, «squadernato» e irrigidito dalla malattia nell’era del culto dell’estetica, come un pupazzo. Un uomo che –qualcuno lo vedrebbe come un gesto di altruismo, di carità, di amore- vuole, come ultima missione su questa terra, fare in modo che altri, dopo di lui, possano evitare la condizione che il pio editorialista, dal suo palazzo romano, non può forse nemmeno immaginare.

Le questioni serie sulle quali un dibattito avrebbe ragione di essere sono altre. Cosa fare, ad esempio, in caso di coma vegetativo, di incoscienza, di incapacità della vittima di esprimere il proprio intendere e volere? Quale limite stabilire per l’accanimento terapeutico (e di “termine naturale della vita”), fermo restando il fatto che l’accanimento è un valore relativo e individuale? Quali parametri, quali esecutori, quali tolleranze stabilire prima che un terzo, che non conosce la volontà del paziente ma che si può rifare al volere di un parente, di un delegato o di un testamento biologico, possa mettere fine a quel simulacro di vita che stravolge le famiglie? Famiglie impegnate ad immaginarsi le sofferenze del figlio o del padre tiepido ma ormai da anni silenzioso, mentre la loro vita si “sfalda” per “colpa” dell’incidente o della malattia di qualcuno che li amava e che, forse, non avrebbe voluto vedere i suoi cari immolare la propria vita all’assistenza di un corpo senza speranza.

La posizione di chiusura integrale anche di fronte a casi semplici come quello di Welby allontana l’attenzione da dibattiti ben più seri e da questioni ben più delicate riducendo la posizione di questi garanti dell’anima altrui a una ridicola e medievale sordità. Sono questi gli interlocutori con cui gli ultrà della genetica e dell’ultraumanismo avranno a che fare?

Il suicidio, anche tramite una pietosa mano esterna armata dalla vittima cosciente ma invalida, dovrebbe essere un diritto inalienabile del cittadino. Esso non ha nulla a che vedere con la manipolazione della vita, con gli embrioni, con la responsabilità che nessuno si vuole accollare di mettere fine alla “vita” di un uomo da anni incosciente, con l’aborto: questioni che dovrebbero essere al centro di un dibattito sereno. E’ il diritto di peccare che è in questione, e in questo caso non coinvolge nemmeno presunte vite terze da difendere (come la manciata di materia che costituisce uno delle centinaia di embrioni che nella maggioranza dei casi “muoiono” naturalmente, o meglio non attecchiscono). Dov’è, quindi, l’orrore?

«Rispondete dunque, circensi della morte: se cessiamo di considerare “illegale” l’autogestione dei limiti della propria vita, in base a quale principio domani multerete un ragazzino che, essendosi assicurato di non fare danno a nessuno, passerà con il semaforo rosso?». E chi (e come) si è mai sognato di multare il cittadino che, coscientemente, adotti volontariamente comportamenti che (è risaputo) mettono a repentaglio la sua vita?

La “morte opportuna”, il “suicidio assistito” è un “peccato” che uomini adulti e provati vogliono compiere ma che l’integralismo di casa nostra, gettando fumo negli occhi tronfio della propria verità, vuole continuare a proibire.

Andrea Franzoni (Mnz86)


(1) http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=search¤tArticle=CTNCZ

(2) http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=search¤tArticle=CE2ED

(3) http://www.lucacoscioni.it/node/7638


Dal blog di Piergiorgio Welby

Il mio nome è Piergiorgio, la mia storia è simile a quella di tanti altri distrofici.

Ricordare come tutto sia iniziato non è facile perché la memoria non è accumulazione ma selezione e catalogazione. Forse fu una caduta immotivata o il bicchiere, troppo spesso sfuggito di mano etc. ma quello che nessun distrofico può scordare è il giorno in cui il medico, dopo la biopsia muscolare e l'elettromiografia, ti comunica la diagnosi: Distrofia Muscolare Progressiva.

Questa è una delle patologie più crudeli; pur lasciando intatte le facoltà intellettive, costringe il malato a confrontarsi con tutti gli handicap conosciuti: da claudicante a paraplegico, da paraplegico a tetraplegico, poi arriva l'insufficienza respiratoria e la tracheotomia.

Il cuore, di solito, non viene colpito e l'esito infausto, come dicono i medici, si ha per i decubiti o una polmonite.
Io ho raggiunto l'ultimo stadio: respiro con l'ausilio di un ventilatore polmonare, mi nutro di un alimento artificiale (Pulmocare), parlo con l'ausilio di un computer e di un software.

Per anni e anni ho sperato che la ricerca scientifica trovasse un rimedio. Oggi, che le prospettive di una cura potrebbero, grazie agli studi sulle cellule staminali, sia adulte che embrionali, trasformarsi da speranza in realtà, sempre più ostacoli si frappongono sul cammino di una ricerca libera.

Questa malattia non è una maledizione biblica, è una malattia genetica che può essere sconfitta grazie alla diagnosi prenatale: i villi coriali, l'amniocentesi e soprattutto la diagnosi preimpianto.

In Italia ci sono oggi circa 2.000 bambini con distrofia muscolare Duchenne. L'incidenza della distrofia miotonica, la più comune distrofia muscolare dell'adulto, è di approssimativamente 135 casi ogni milione di nascite (maschi o femmine). L'incidenza della distrofia dei cingoli è di circa 65 casi per milione di nascite e quella della distrofia facioscapolomerale è ancora inferiore. Considerando insieme tutte le principali malattie neuromuscolari ereditarie, verosimilmente ne risultano colpiti in Italia circa 30 persone ogni 100.000 abitanti, ossia oltre 17.000 persone.
Se delle dispute capziose e, spesso, ideologiche dovessero ritardare la scoperta di una cura e condannare anche un solo bambino a vivere il dramma che io ho vissuto e sto vivendo...beh, pensateci! Pensateci questa estate quando vi tufferete, affronterete un sesto grado, percorrerete un sentiero con la mountain bike...

Piergiorgio Welby

Associazione Luca Coscioni

Lettera di Welby al Presidente della Repubblica

La risposta di Napolitano


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IL CASO TERRY SCHIAVO

EVANGELICI ALL'ASSALTO - I diversi aspetti del caso Schiavo

AL DI SOPRA DELLA LEGGE - Bush fece approvare nottetempo una legge anticostituzionale, pur di fermare l'eutanasia di Terry Schiavo




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