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rubriche : DIARIO AMERICANO - III PARTE
Inviato da Redazione il 12/3/2004 23:22:53 (6239 letture)

DIARIO AMERICANO - III Parte



Fabio de Nardis, professore di Sociologia Politica all’Università di
Lecce, e professore di Scienze Politiche all’Orientale di Napoli,
è attualmente alla UCLA, University of California di Los
Angeles, per un periodo di ricerca scientifica.





Ogni sera appunta sul suo diario
le esperienze quotidiane, riuscendo a mescolare ogni volta la
interessante lettura sociale ad uno squarcio di umanità che solo
l'occhio disincantato di chi arrivi negli USA per la prima volta riesce
pienamente a cogliere.





Fabio de Nardis è anche direttore della rivista (cartacea e on-line)  “il Dubbio”, una pubblicazione internazionale di analisi politica e sociale.
















di Fabio de Nardis








 








Martedì 23 Marzo 2004 – Teschio e ossa



Qualche giorno fa si parlava del fatto che Kerry e Bush da studenti
universitari hanno condiviso la partecipazione a “Skull and Bones”
(Teschio e Ossa), una setta segreta vecchia di 172 anni che ha sede
nella prestigiosa Università di Yale. Non so per quale motivo,
ma la simbologia mortuaria ha molto successo tra le confraternite
universitarie americane. Se ricordate, anche qui alla UCLA ne esiste
più di una che ha per simbolo un teschio. Non so se dipende dal
senso del mistero oppure da un semplice gusto dell’orrido. Sta di fatto
che entrambi i candidati alla presidenza degli Stati Uniti sono stati
(e presumibilmente sono tutt’ora) membri di una massoneria e non
intendono parlarne. In Agosto, Tim Russert della NBC ha cercato di
saperne di più. Intervistando Kerry, gli ha domandato: “Entrambi
siete stati membri di Skull and Bones, una società segreta di
Yale. Cosa ha da dirci a riguardo?”. La risposta di Kerry è
stata secca: “Non molto, perché è segreta”. Il
giornalista ci ha riprovato a Febbraio con Bush, ma anche il Presidente
in carica ha risposto che “la cosa è talmente segreta che non
possiamo parlarne”.



Qui nessuno ha avuto da ridire, eppure il fatto che un Presidente e un
Senatore siano membri di una organizzazione non democratica e si
rifiutino di parlarne è una cosa gravissima. La democrazia
è in primo luogo trasparenza e visibilità del potere e in
questo modo si negano i presupposti della dinamica democratica.
Cos’è questa società segreta, qual è il suo
programma e per quale motivo i suoi adepti da adulti raggiungono
posizioni di potere. Per quanto ne so, già tre Presidenti degli
Stati Uniti sono stati membri della setta (i due Bush e William Howard
Taft) e moltissimi sono coloro che hanno fatto una carriera fulminante
nel mondo della finanza e dell’informazione. Gli interrogativi sono
molti: una sorta di setta satanica? Un gruppo che funziona da governo
ombra? Secondo la giornalista Alexandra Robbins, ex studentessa di
Yale, è solo un aggregazione di damerini con un radicato senso
di superiorità. Si riuniscono all’interno della “Tomba”, una
specie di surrogato di tempio Greco-Egiziano riprodotto nel mezzo del
Campus di Yale e nessuno sa cosa facciano.



È un organismo a cui non si può aderire ma da cui si
viene segretamente cooptati. Pare che ad ogni membro venga dato un
nickname che mantiene per tutta la vita. Bush padre era chiamato
“Magog”, un nomignolo dato a chi vantava una maggiore esperienza
sessuale (e chissà come chiamavano Bush figlio!). Ma sono i riti
di iniziazione che ho trovato spassosi. Ron Rosenbaum, un giornalista
che ha scritto un libro sull’argomento, afferma che gli “inziati”
dovevano masturbarsi dentro una cassa da morto raccontando ad alta voce
il proprio exploit sessuale. Ma ve lo immaginate il nostro War
President che grida il suo amplesso dentro una bara? Se permettete una
mossa di orgoglio patriottico, da noi le cose le facciamo meglio. Se
non altro l’affiliazione massonica si inserisce dentro un piano di
potere coordinato. Si organizzano colpi di Stato, si mettono bombe, si
depistano indagini, si fa eleggere Berlusconi Presidente del Consiglio.
Insomma, non è un gioco.

Pare anche che gli adepti a Skull and Bones facciano un patto di
fratellanza eterna. Le dinamiche di questo patto non sono rese
pubbliche (e forse è meglio). Ma a questo punto mi torna in
mente la foto esposta a Venice Beach che ritraeva Bin Laden mentre
sodomizza Bush. Siamo proprio sicuri che Osama non abbia frequentato
Yale?







Lunedì 22 Marzo 2004 – John Kerry il sovversivo



La campagna elettorale per le presidenziali è entrata nel vivo
del metodo americano, cioè quello di gettare fango sull’immagine
dei candidati. Improvvisamente spunta fuori un dossier dell’FBI in cui
si mostra come John Kerry, nel 1971, alcuni mesi dopo essere stato
decorato al valor militare, sia stato seguito strettamente dai servizi
segreti per presunta attività sovversiva in quanto membro del
gruppo, diciamo pacifista, denominato Vietnam Veterans Against the War
(V.V.A.W.). È noto ormai che dopo l’esperienza nel campo di
battaglia, Kerry si sia impegnato attivamente nei movimenti di allora
per sollecitare il ritiro delle truppe americane dal Vietnam e pare
fosse anche un personaggio di spicco nel gruppo, specie dopo aver
testimoniato di fronte alla Commissione per le Relazioni Internazionali
del Senato. Nulla di segreto, tutto era noto da tempo, eppure oggi
vengono tirate fuori quattordici scatole di documenti riservati su John
Kerry presunto eversivo. È stato ripreso durante comizi e
manifestazioni pubbliche e alla fine gli stessi vertici della FBI
smisero di seguirlo perché non trovarono prove sufficienti per
accusarlo di attività violenta a scopo di sovversione
dell’ordine pubblico.



Già qualche tempo fa, mentre Kerry ancora concorreva per
ottenere la nomination democratica, si è cercato di screditarlo
tirando fuori lo scoop di una sua presunta storia d’amore e di sesso
con una stagista del Senato (una categoria lavorativa che qui ormai
coincide con la pornografia). Nulla di scandaloso
nell’eventualità, ma l’America puritana proprio non lo avrebbe
potuto perdonare. Per sua fortuna dopo un po’ si è smesso di
parlare della cosa. È una consuetudine americana, sempre
più diffusa anche in Europa. La politica non conta niente,
mentre conta la rettitudine morale del politico. È la strana
logica secondo cui l’uomo politico onesto in famiglia si presume
sarà onesto anche al governo. Pubblico e privato si fondono e
l’immagine pubblica finisce col coincidere con le abitudini private.



Comunque Kerry ha sempre reagito abbastanza pacatamente e anche in
quest’ultimo caso, dopo essersi lamentato un po’ per il metodo, afferma
che nel ‘71 era a conoscenza di essere sotto stretta sorveglianza
perché gli uomini di Nixon erano convinti che il movimento
pacifista fosse un crogiuolo di pericolosi rivoluzionari. E poi
aggiunge, l’FBI non è più come quella di allora. Oggi
è in prima fila nella lotta contro il terrorismo. Una frase che
mi ha fatto riflettere.



Anche oggi come allora esiste un movimento che si oppone a una Guerra
che, a detta di chi la sostiene, è necessaria a sconfiggere il
terrorismo mondiale. Dunque, specie alla luce delle leggi restrittive
della libertà individuale che sono state approvate negli ultimi
anni in America, è lecito immaginare che anche oggi numerosi
attivisti siano pedinati e sospettati di collusione con il
fondametalismo islamico. Allora la storia si ripete. La differenza
è che Kerry, mentre un tempo era contro la Guerra, oggi la
sostiene e qundi è presumibile che possa condividere atti di
potenziale intrusione nella privacy di liberi cittadini.



Qui sta il punto. Non è importante il passato di un uomo ma cosa
rappresenti oggi. Qui in America tutte le manifestazioni,
perlopiù spontanee, che si organizzano contro l’invasione
dell’Iraq vengono represse violentemente e finiscono con qualche ferito
e decine di arrestati. Proprio ieri mi sono soffermato sulla foto di un
vecchio sacerdote in manette dopo aver partecipato a San Francisco a
una piccola dimostrazione pacifista. È forse questa la grande
democrazia Americana che si vorrebbe esportare nel mondo, dove il
dissenso viene represso e la gente controllata a propria insaputa?
Allora mi rimangio tutto quello che ho scritto sulla
inesportabilità di un sistema politico-istituzionale. Questa
prassi agli iracheni andrà a genio.









Domenica 21 Marzo 2004 – Il popolo della pace



Ieri, mentre Bush si autocelebrava , il popolo della pace è
tornato in piazza, replicando la grande mobilitazione mondiale del 15
Febbraio 2003. Hanno manifestato un po’ ovunque, in Italia, negli Stati
Uniti, nelle Filippine, in Inghilterra, in Corea, in Giappone, in Nuova
Zelanda, in Egitto, in Turchia, In Svizzera, in Norvegia, nella
Repubblica Ceca, in Svezia, in Polonia, in Finlandia, in Ukraina. Il
mondo ha gridato un sonoro NO alla politica Americana e dei paesi che
si sono resi complici di questo progetto indebito di ridefinizione
dell’ordine mondiale atraverso la durezza delle armi. Ovunque è
cominciata la battaglia delle cifre. In Italia, gli organizzatori
affermano che i partecipanti sono stati due milioni contro i 250.000
dichiarati dalla polizia. Discussioni analoghe si sono attivate anche
in altri paesi. L’ho sempre trovata una sciocchezza. Quando la piazza
è gremita, il numero dei manifestanti è secondario;
prioritario è considerare il significato e gli effetti della
mobilitazione. Ancora una volta il movimento pacifista ha dato prova
della sua enorme capacità di raccordo transazionale. Qui in
America è riuscito a portare in piazza quasi 100.000 persone a
New York e diverse migliaia a Seattle, San Fransisco, Denver, Chicago,
addirittura a Crawford, in Texas, dove si trova il ranch della famiglia
Bush.



Qui a Los Angeles si è organizzata una bella manifestazione a
cui hanno partecipato almeno 10.000 persone (una enormità da
queste parti). Il corteo si è dispiegato tra Holliwood Boulevard
e Vine Street per poi concludersi di fronte al Pantages Theatre. Non
è stato particolarmente colorato come capita da noi in Italia o
in Francia, dove l’elemento simbolico delle bandiere e degli striscioni
è molto sentito. Nei paesi anglosassoni ogni manifestante usa
impugnare un cartello con su scritto uno slogan che riassume le ragioni
della protesta. Quello che andava per la maggiore era “Bush lies” (Bush
mente), oppure “Time of Truth” (Il momento della verità);
qualcuno si spingeva fino al “Justice for Palestine” (Giustizia per la
Palestina).



Dopo il 15 Febbraio del 2003, un giornalista del New York Times
affermò che il movimento pacifista rappresentava l’unica grande
potenza alternativa agli Stati Uniti, una frase ormai nota e spesso
richiamata nei comizi dei leader della sinistra mondiale. Non è
così. Un movimento non è ne potrà mai essere una
potenza, almeno nel senso politologico del termine secondo cui il
potere politico si identifica con la capacità di produrre
decisioni strategicamente vincolanti. Ma esso, come voce critica della
società civile mondiale, senza dubbio rappresenta una forma di
potere fluido che non può non influenzare le classi poitiche
degli Stati Nazione. In Germania, Francia, Spagna, così è
stato; e ovunque le forze della sinistra libertaria e socialista si
sono unite al coro pacifista. Anche il partito laburista inglese, o
almeno gran parte dei suoi militanti, su questo piano, ha isolato Tony
Blair. Solo in Italia, se si esclude la componente significativa ma
minoritaria che fa capo a Rifondazione Comunista, il centrosinistra e
in particolare i Ds non trovano il coraggio di prendere una posizione
netta. Mi dicono che Fassino a Roma è stato contestato da alcuni
manifestanti. Così come capitò anni fa a D’Alema quando
dopo aver promosso la Guerra in Kossovo ebbe la faccia tosta di
partecipare alla Perugia-Assisi. Ma mi spiegate che ci vanno a fare? E
soprattutto, per rappresentare chi?



Mentre mi spremo le meningi per trovare una risposta a questo
interrogativo, vado a fare una passeggiata a Venice Beach. L’Oceano
è stupendo, ma dopo essermi visto una replica del film “Lo
squalo” (titolo originale “Jaws”, che letteralmente vuol dire “Fauci”),
non trovo il coraggio di mettere piede in acqua e mi accontento di
contemplare il paesaggio. L’intera zona è molto caratteristica,
specie di Domenica. È ricca di bancarelle, negozi etnici e
artisti di strada. Di tanto in tanto si trova anche qualche predicatore
che grida i suoi anatemi in mezzo alla folla indifferente. La maggior
parte dei passanti sembra più incuriosita da uno pseudo-fachiro
che dà prova di resistenza lanciandosi da una sedia sopra alcune
bottiglie rotte; oppure si soffermano su alcuni ragazzi che
improvvisano una partita a basket vicino alla spiaggia. Io invece
rimango quasi ipnotizzato da un gruppo di hippie vestiti di mille
colori che, dietro il dipinto di una donna nuda con scritto sul petto
“Make Love Not War”, fumano mariuana e improvvisano un piccolo show
musicale a base di chitarra, sassofono e percussioni. Più avanti
rimango attratto da un simpatico fotomontaggio che ritrae George Bush e
Osama Bin Laden intenti in un atto di sodomia. Indovinate chi è
il passivo?





 



Sabato 20 Marzo 2004 – Il discorso di Bush



 Ieri mattina Bush ha tenuto un discorso alla Nazione, trasmesso
in diretta televisiva e replicato la sera, per celebrare (si fa per
dire) il primo anniversario dall’inizio della Guerra in Iraq. È
la prima volta che lo sento parlare in un discorso pubblico e ora
capisco cosa intendevano i giornalisti quando definivano “lamentoso” lo
stile oratorio del Presidente. Mi è sembrata una lunga e noiosa
omelia intrisa di retorica patriottica e riferimenti religiosi. I
soliti richiami alla lotta del bene contro il male, della
civiltà contro la barbarie, a Dio che benedice i combattenti per
la libertà, e così via. Una sorta di delirio politico di
chi non sa più come giustificare il corso degli eventi. In prima
fila ad ascoltarlo, nella East Room della Casa Bianca, era presente al
completo tutta la cabala neconservatrice, da Wolfowitz, che con il
tempo ha assunto gli stessi tratti somatici di Erich Priebke, a
Condoleezza Rice, che se non fosse per la pelle scura sarebbe la copia
sputata di Olvia, l’amante di Braccio di Ferro.



Ha fatto appello agli 83 Stati della coalizione affinché non
abbandonino la lotta perché, cito, “ogni segno di debolezza
legittima il terrorismo e sollecita la violenza suicida”, e continua,
“noi siamo le nazioni che hanno riconosciuto la minaccia del terrorismo
e che sconfiggerano questa minaccia”. Su questo punto è dovuto
intervenire il Ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin a
ricordare al caro Bush che la Guerra ha avuto il solo effetto di
determinare una escalation di violenza terroristica trasformando
l’Iraq, che fino ad allora non aveva alcun legame provato con Al-Queda,
in un centro di smistamento per aspiranti Kamikaze. Bel risultato.



Ma Bush fa finta di non vedere e descrive una realtà che non
esiste. Afferma che fino a tre anni fa, l’Afghanistan era sotto la
morsa di un regime liberticida e che oggi è un paese democratico
dove le donne vedono riconosciuti i propri diritti. Ha tralasciato il
piccolo particolare che il nuovo governo ha si e no il controllo di
Kabul, mentre il resto del paese è praticamente ancora in Guerra
e le donne continuano a portare il Burka. Ma questo non importa; il
delirio continua. Perché forse non ve ne eravate accorti, ma
anche l’Iraq, finalmente liberato dalla dittatura Baathista, oggi si
avvia ad essere un paese libero, pacifico e democratico. Tanto pacifico
che, mentre Bush va avanti nel suo soliloquio, arriva la notizia di
altri quattro Marines ammazzati dalla resistenza irachena.



A un certo punto Bush si è lasciato anche prendere la mano e
smettendo di leggere il discorso che qualche povero impiegato gli aveva
scritto cercando accuratamente di evitare l’argomento, se ne è
uscito con la frase topica: “Il popolo degli Stati Uniti, dei suoi
amici e alleati non vivranno più alla mercè di un regime
fuorilegge che minacchia il mondo attraverso le armi di distruzione di
massa”. E qui mi è scappata una grassa risata. Ma dico io. Vuoi
raccontare al mondo che l’Iraq grazie all’America è finalmente
un paese felice? Fallo pure, può darsi che qualcuno ci creda
anche. Ma non te ne uscire con l’unico argomento per il quale rischi di
perdere le elezioni, per cui Aznar le ha già perse, e a Blair
poco gli manca.

Fino ad oggi ho sempre cercato con difficoltà di rintracciare
nella figura di Bush qualche tratto di dignità, ma ora sono
sicuro. È proprio idiota.







Venerdì 19 Marzo 2004 – Democrazia per l’America?



L’ex aspirante candidato nelle primarie democratiche Howard Dean,
già Governatore del Vermont, ha deciso di non sprecare le
energie vitali sprigionate nel corso della sua campagna elettorale e
annuncia la nascita di un nuovo movimento che dovrebbe chiamarsi
“Democracy for America”. Secondo le prime dichiarazioni, la nuova
“Cosa” servirà a coltivare o sostenere tutti quei candidati di
area democratica che condividono i valori progressisti espressi dal suo
leader, e cioè la sanità pubblica, l’educazione
generalizzata, la promozione della responsabilità fiscale dei
governi. Anche se al momento Dean assicura il suo pieno sostegno all’ex
concorrente John Kerry che non ha certo fama di essere tanto
“progressive”. Insomma, una nuova lobby democratica mascherata da
movimento solidale.



In realtà Dean ha sempre avuto fama di essere un po’ leftist e,
da favorito, ha terminato quasi subito la sua corsa alle presidenziali
proprio per questa ragione, anche se i maligni (compresa la madre) ci
tengono a ricordare che ha governato il Vermont in maniera tutt’altro
che progressista. Quella di sinistroide sembra più un’etichetta
affibbiatagli dai media e nella quale egli ha finito per riconoscersi.
Essa ha origine essenzialmente dalla sua estraneità alle grandi
Corporation che in genere fanno a gara per lottizzare le campagne
elettorali dei politici americani. Dean riuscì a mettere insieme
milioni di dollari per la sua propaganda esclusivamente attraverso
donazioni volontarie eseguite con il supporto di un sito internet.
Questo colpì i commentatori politici di tutto il mondo
perché in un certo senso dimostrava che la politica Americana
può anche fare a meno delle multinazionali per finanziarsi. In
realtà quei quattrini non saranno poi stati molti dal momento
che, al termine della sua corsa, Dean ha lanciato un appello per una
colletta necessaria a coprire i debiti pregressi.



Comunque siano andate le cose, il nostro Dean, nella nuova veste di
pericoloso sovversivo d’America, comincia subito a far parlare di
sé. Qualche giorno fa, durante una conferenza stampa, ha
affermato che la Guerra in Iraq è uno dei fattori che ha
determinato la successiva escalation terroristica, compreso l’ultimo
attentato a Madrid. Niente di più lapalissiano per quanto ci
riguarda, ma qui in America non tutto ciò che a noi pare
evidente è altrettanto lineare. Le affermazioni di Dean hanno
scatenato un finimondo. Kerry, che ha sostenuto quella Guerra, si
è subito affrettato a prendere le distanze; i repubblicani lo
hanno accusato di essere “out of mainstream” che letteralmente vuol
dire “fuori dal corso principale”, cioè dalla linea generale
della nazione. Alla fine, il nostro “democratico per l’America” ha
dovuto moderare la sua dichiarazione affermando che l’incidente non era
altro che il frutto di un cattivo giornalismo. Fine del Dean eversivo.



Purtroppo è così che vanno le cose in America. Appena osi
dire qualcosa che va controcorrente ti viene subito appioppata
l’etichetta di traditore della patria. È la logica totalitaria
di quel Mainstream che non consente la presenza di qualcuno che sia
“Out”. Negli anni Cinquanta un’affermazione del genere sarebbe costata
a Dean un soggiorno assicurato in qualche manicomio di Stato, dal
momento che quel “fuori corso” veniva spesso rielaborato come ‘fuori di
testa”.



Più si va avanti più noto un graduale restringimento
delle condizioni democratiche in Occidente. Il dissenso è sempre
meno tollerato e il conformismo sempre più sollecitato. Non solo
negli Stati Uniti, ma anche in Italia, gli oppositori alla Guerra in
Iraq e in Afghanistan sono immediatamente stati etichettati come amici
di Bin Laden e sostenitori del terrorismo globale. È la illogica
conseguenza di una politica senza più appigli ideali che per
esorcizzare il proprio fallimento storico abbandona la propia matrice
secolare per gettarsi nelle braccia di una retorica fondamentalista e
premoderna.





 



Giovedì 18 Marzo 2004 - ¿Quién es más macho?



Proprio quando la campagna elettorale per le presidenziali si stava
facendo interessante con un dibattito di livello che spaziava dalla
questione sociale al ruolo che gli Stati Uniti dovranno assumere nella
ridefinizione del nuovo ordine mondiale, un sondaggio rileva che la
maggior parte degli americani, soprattutto le donne, considera questi
temi troppo “soft” per tenere alta l’attenzione sociale. Ciò che
interessa veramente ai cittadini e ai giornali americani è
definire il livello di mascolinità dei due candidati, elemento a
quanto pare fondamentale per discriminare anche il loro valore
politico. Finalmente l’America mi riappare come l’ho sempre vista.
Quasi mi preoccupavo. Troppa serietà, troppo conflitto.
Finalmente siamo tornati nel paese dei balocchi a cui media e telefilm
ci avevano abituato. Anche il Los Angeles Times, parafrasando una
vecchia commedia ispanica, si domanda: ¿Quién es
más macho. John kerry o George Bush?



Naturalmente, le macchine propagandistiche dei due candidati si sono
subito messe in moto e entrambi si affrettano a farsi riprendere in
pose virili. Kerry, mentre cavalca una imponente Harley Davidson o
durante una partita di hokey; Bush, con un ridicolo cappello da vaccaro
nel suo Ranch nel Texas o mentre guida la Cigarette Boat del padre
lungo le coste del Maine. Insomma, i programmi tornano ad essere del
tutto superflui e gli esperti di marketing politico rientrano in gioco
come attori protagonisti di quel teatrino postmoderno dove la politica
è ridotta a comunicazione politica e i politici a merce di
contrabbando.



Naturalmente Bush, in quanto War-President e Commander in Chief, torna
ad essere il favorito. Tra l’altro Kerry pare abbia un look troppo
elegante, qui dicono alla francese, e si sa che tra Francia e Usa non
è mai corso un buon rapporto; inoltre, il suo linguaggio troppo
forbito non è apprezzato da tutti gli americani. Dà
l’immagine di essere troppo colto (che orrore!). E già,
perché come ci ricorda Michael Messner, sociologo presso
L’Università del Sud Carolina, e attento studioso degli
stereotipi di genere, “esiste una particolare definizione di
mascolinità in America, secondo la quale, se sei un
intellettuale, che legge molti libri e parla bene, allora sei
effemminato”. Insomma, per essere eletto Presidente degli Stati Uniti
devi dare l’impressione di essere fesso e ignorante (a dire il vero
anche in Italia ultimamente). E su questo Bush rischia di essere
davvero imbattibile.



Entrambi hanno frequentato la prestigiosa Università di Yale
dove sono riusciti a entrare nella esclusiva società segreta
“Skull and Bones” (teschi e ossa), il cui accesso era impedito alle
donne (e dove stava il divertimento?). Ma Kerry era troppo diligente
per essere un vero uomo, mentre Bush tendeva a ubriacarsi spesso
ostentando il suo disprezzo per l’Accademia. Evidentemente già
studiava per diventare Presidente. Poi però c’è stato il
Vietnam, una delle tante nefandezze della politica Americana, e Bush
aveva troppa paura per partire, mentre Kerry si è imbarcato come
volontario e pare anche che abbia ammazzato tante donne e bambini, dal
momento che al suo rientro lo hanno decorato con la medaglia di bronzo
al valor militare. E questo è molto macho.



Proprio ieri leggevo che un sergente della marina Americana si rifiuta
di tornare in Iraq, dove è già stato per sei mesi, per
combattere una Guerra inutile fatta per gli interessi economici della
famiglia Bush. Per questo atto di disobbedienza civile rischia di
essere processato con l’accusa di diserzione e di farsi più di
sette anni di galera. Per me è un esempio da prendere, per gli
americani è solo una donnetta e un codardo.



A questo punto non saprei dirvi chi sarà eletto. Francamente
siamo al di là delle mie competenze politologiche. In compenso
potrei dirvi l’altezza e il peso esatti di entrambi i candidati, dal
momento che i giornali qui hanno smesso di parlare di economia e lavoro
ma sono ricchi di informazioni sui tratti fisici, lo stile di
abbigliamento e le abitudini sportive e alimentari dei due. La domanda
allora mi viene spontanea: a quando un Presidente donna?





 



Mercoledì 17 Marzo 2004 – A scuola di Conflitto



Arnold Schwazenegger comincia a perdere colpi. Lunedì scorso,
migliaia di studenti da tutta la California si sono riuniti a
Sacramento per protestare contro il progetto di tagli alla spesa
pubblica per l’istruzione. È un peccato che non possiate vedere
le immagini della manifestazione. Striscioni colorati, pugni chiusi,
quasi non sembra di stare negli Stati Uniti e mi tornano in mente i
raduni studenteschi che tanti hanni fa organizzavo a Trastevere di
fronte al Ministero della Pubblica Istruzione. Certo, in quel caso
eravamo più di qualche migliaio e forse con una consapevolezza
politica e sociale maggiore, ma l’entusiasmo, il senso della sfida
all’autorità sono gli stessi. È la prima grande protesta
che il nostro Governatore preferito si trova a dover affrontare, ma
dalle prime dichiarazioni sembra non voler dare molto peso alla cosa.
Forse c’è rimasto male. Non so se a Holliwood gli avevano
spiegato che Governare uno Stato non ha nulla a che vedere con la
liberazione del mondo da un’invasione di extra-terrestri robotizati,
che i muscoli e la faccia cattiva non servono a niente. Qui si tratta
di affrontare le pulsioni, le ambizioni, i sogni di centinaia di
giovani che il prossimo hanno rischiano di dover pagare tasse
salatissme per quell’accesso alla formazione universitaria che
già adesso è un lusso che solo in pochi si possono
permettere. Qui le famiglie cominciano a mettere da parte il denaro
quando i figli sono ancora neonati nella speranza che un giorno possa
servire a coprire anche solo parzialmente il costo delle tasse
universitarie.



Ma questo alle autorità californiane importa poco. È la
logica darwiniana che punta ad escludere chi non ce la fa e che qui
negli Stati Uniti è l’ideologia dominante. L’istruzione di massa
è un fatto per Europei, qui si punta a irrigidire i confini
della stratificazione sociale. Dalla piazza qualcuno prova a gridare la
necessità di tassare i ricchi per non penalizzare i poveri, ma
sembra più un’implorazione che una dichiarazione di lotta. Qui
sta il problema. Anche chi protesta per i propri diritti negli Stati
Uniti, non lo fa all’interno di un progetto di trasformazione sistemica
per la creazione di quella società di eguali che Marx aveva
egregiamente descritto come quella società in cui il libero
sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti.
È piuttosto l’invidia di classe che emerge, il desiderio di
essere come coloro contro cui si protesta. Non c’è
consapevolezza vera. Qui l’uguaglianza non è un valore, non si
lotta per gli altri ma per se stessi, per seguire quell’imperativo
categorico del perseguimento della felicità intesa in primis
come successo personale anche a scapito di chi non riesce a cogliere
quelle poche opportunità offerte da un sistema tanto esclusivo.



Il conflitto diventa una specie di gioco e tutti sanno che altro non
è che una simulazione di lotta, una forma di
pseudo-partecipazione che non ha alcuna influenza su un sistema
politico ed economico assolutamente impermeabile a qualsiasi forma di
socialità. Ne ho la conferma leggendo un volantino appeso
nell'ascensore del mio ufficio. Pare che il Labor and Workplace
Institute della UCLA stia organizzando una summer school ad agosto per
gli studenti interessati alle questioni di giustizia economica e
sociale. Una sorta di full-immersion estiva dove i ragazzi verrebbero
socializzati alla lotta sociale, con tanto di seminari tenuti da
importanti leader sindacali. Sei settimane di rivoluzione al mare e poi
tutti a casa nelle proprie famiglie borghesi a fare i bravi americani.
Ma il conflitto non si impara in pochi giorni. È pratica sociale
permanente.





 



Martedì 16 Marzo 2004 – La profondità del mare



Oggi mi sono visto con Adrian Favell, professore di teorie sociali e
sociologia comparata alla UCLA. Gli ho proposto di costituire a Los
Angeles una redazione del Dubbio, la rivista di scienze sociali che
dirigo e che da quest’anno diventa internazionale. L’idea di un link
con l’Italia lo interessa anche se mi è sembrato molto scettico
sulla possibilità di costruire un network di studiosi negli
Stati Uniti. Come egli stesso ha ammesso, qui il lavoro accademico
è profondamente individualistico, tanto che diventa difficile
fare gruppo. Allo stesso tempo gli accademici americani (almeno in
campo sociologico) hanno una prospettiva “parochial”, cioè
localistica, e difficilmente vengono attratti da aperture
internazionali (e io che credevo fosse una peculiarità
italiana!). Comunque non mi ha detto di no, ma preferisce prendersi un
po’ di tempo e sondare l’eventualità che alcuni colleghi possano
supportarlo.



È incredibile quanto sia difficile far vivere e funzionare una
rivista giovane e fatta perlopiù da giovani intellettuali. Ho
sempre pensato che rappresenti un elemento di vitalità oltre a
sollecitare la riflessione e la discussione su tematiche di rilevanza
sociale. Credo che l’esistenza di una rivista sia un tassello della
ricchezza di una comunità scientifica. Ma evidentemente non sono
in molti a pensarla come me. Il Dubbio esiste ormai da Quattro anni e
in questo periodo ho incontrato più ostilità da parte
dell’Accademia che solidarietà, tranne in casi limitati. Io
continuerò a provarci con o senza il supporto delle
Università. Credo che la morte di una qualsiasi rivista sia il
sintono di un processo di impoverimento sociale e non intendo
contribuirvi.



Sicuro del mio punto di vista, saluto il mio collega americano e vado
come al solito a dare uno sguardo veloce al giornale. Leggo che Jose
Luis Rodriguez Zapatero dichiara che entro il 30 Giugno ritirerà
i 1.300 soldati spagnoli che al momento si trovano in Iraq a sostegno
di una Guerra che, afferma, “è stata un errore basato su bugie”.
L’unico modo per poter cambiare idea è una nuova risoluzione ONU
che sicuramente non ci sarà e che comunque gli americani non
vogliono. Anche se Bush si congratula con il leader socialista e
minimizza gli effetti che la sua vittoria produrrà sulle
relazioni diplomatiche tra i due paesi, gli analisti indipendenti
già definiscono il trionfo di Zapatero un “disastro” per
l’amministrazione Bush che perde il più importante alleato
europeo dopo la Gran Bretagna. È ormai chiara l’intenzione del
giovane leader socialista di ridefinire i rapporti di forza
internazionali sfilando la Spagna dall’orbita Americana e
riavvicinandola all’Europa, in particolare a Germania e Francia.



Solo in Italia, il Centrosinistra (di cui qua non parla nessuno) fatica
a trovare un punto di vista unitario e non riesce neanche a prendere
una posizione seria sul ritiro delle nostre truppe dall’Iraq. È
un momento triste per la sinistra italiana che sembra aver perso
completamente la bussola, incapace di produrre idealità e di
offrire una prospettiva autonoma di cambiamento sociale. Si è
schiacciata da anni nella gestione tecnica del presente e l’unica
visione prospettica è rappresentata da opzioni di ingegneria
politica e istituzionale come questa improbabile fusione elettorale tra
assolutamente diversi che si cerca di organizzare in occasione delle
Europee di Luglio. La sinistra in Italia senza Berlusconi non sarebbe
nulla, dal momento che l’antiberlusconismo (sacrosanto) sembra essere
il solo messaggio politico che viene dalle sue fila.



I ferrotranvieri a Milano protestano e sono gli unici che hanno il
coraggio di ammettere che nel nostro paese esiste ancora una questione
salariale; gli immigrati continuano a morire sulle coste italiane;
l’Università è ormai agli sgoccioli e anche a causa di
una riforma sciagurata avviata dai governi di centrosinistra; la
disoccupazione cresce e la nuove occupazioni coincidono con forme di
sfruttamento e precarietà. Di fronte a tutto ciò la
ricetta dell’Ulivo è il listone riformista. Che tristezza per la
nostra democrazia, così privata di una dinamica conflittuale.
Per quale motivo gli Italiani dovrebbero votare Centrosinistra? Solo
perché le barzellette di Berlusconi non fanno più ridere
o perché esiste un’alternativa, un progetto, che dal latino
proicio significa tendersi innanzi.



È questo che manca, la capacità politica di andare oltre
il presente prossimo e di guardare a un futuro che forse non
sarà mai, ma che rappresenterebbe quantomeno una direzione.
È il ruolo che storicamente hanno avuto le utopie di cui oggi
nessuno vuol più sentir parlare. Per dirla con Umberto Galeano,
l’utopia è come una bella donna. Fai un passo verso di essa e
lei si allontana, ne fai un altro e lei si allontana ancora; ma allora,
dice il poeta, a che serve l’utopia? Semplice: a camminare.



Io non perdo la speranza. Quando avremo toccato il fondo in questo
deficit di dialettica democratica allora probabilmente avremo modo di
risollevarci. È un po’ come quando ci si immerge nel mare. Le
acque sono molto profonde e qualche volta capita che la bombola smetta
di funzionare. A quel punto si comincia ad apprezzare il significato
dell’aria.








Lunedì 15 Marzo 2004 – Le grandi dicotomie



Oggi è un mese esatto che sono a Los Angeles ed è tempo
di un primo piccolo bilancio. Senza dubbio avrei potuto fare di
più ma sono comunque riuscito a recuperare moltissimo materiale
per i miei studi e ancora ho molto da lavorare. Inizialmente avevo
pensato a questo diario come strumento di divulgazione del mio lavoro
come ricercatore alla UCLA, ma l’ambiente sociale e culturale in cui
sono immerso da trenta giorni mi ha condizionato e ho preferito
parlarvi di come funzionano le cose qui, politicamente, socialmente,
culturalmente. Nello stesso tempo, la lettura della stampa quotidiana
mi offre la possibilità di mostrare ai lettori italiani come da
queste parti si elaborano le informazioni. Ciò che emerge
è una fortissima attenzione per le questioni internazionali.
Telegiornali e organi di stampa aprono regolarmente con le notizie dal
mondo e ne danno una interpretazione affatto peculiare. Al momento sono
due le questioni di maggiore interesse: la Guerra in Iraq e le
dinamiche di cambiamento politico nei paesi della sfera occidentale.
Due fatti a mio avviso connessi.



È ormai innegabile che l’adesione o meno a quella Guerra
scellerata è divenuta una variabile che discrimina i livelli di
consenso alle classi dirigenti occidentali. Shroeder, da tempo in crisi
e malgrado i limiti della sua politica economica, viene riconfermato
Cancelliere su una piattaforma programmatica che lo vede fermo
oppositore accanto alla Francia di Chirac all’intervento bellico in
Medioriente. Per la ragione contraria, Blair in Gran Bretagna è
da mesi sotto il tiro dei media e dell’opinione pubblica con l’accusa
di aver mentito alla Nazione sulla questione delle armi di Saddam
(c’è maggior onta per un leader politico?). I socialisti di
Zapatero stravincono le elezioni in Spagna con un programma pacifista,
malgrado il grave attentato dell’11 Marzo che avrebbe potuto favorire
Aznar e i popolari. Berlusconi, in Italia, si prepara ad affrontare una
piazza gremita che lo accuserà di essere subalterno ai piani
imperialistici del governo americano. E infine Bush non riesce ha dare
seguito al suo progetto di esportazione globale dell’American Way of
Life e per questo è accusato di incompetenza dai suoi stessi
consiglieri. Come scrive Eddie Mahed Jr., un esperto di strategia
politica del Republican National Committee, Bush non è riuscito
a creare nuovo lavoro, non è riuscito ha trovare le armi di
distruzione di massa attorno a cui aveva articolato il suo teorema
della Guerra preventiva, e infine non riesce a rispondere in maniera
efficace alle accuse del suo avversario democratico che ha ormai
intrapreso una campagna di aggressione nei suoi confronti che sembra
raccogliere il consenso degli americani. Insomma, gli effetti di questa
Guerra sembrano ritorcersi contro chi l’ha voluta e sostenuta, facendo
emergere una inedita società civile globale che sembra ormai in
grado di determinare cambiamenti sociali significativi
indipendentemente dalle strategie delle classi politiche istituzionali.
Il movimento pacifista si è fatto da tempo potere costituente
che non intende diventare potere costituito ma riesce a muoversi con
disinvoltura su una dimensione transnazionale alternando antagonismo e
cooperazione, a seconda delle contingenze politiche e degli obiettivi
della protesta.



Nello stesso tempo, esso mette in luce i limiti della politica
istituzionale nella sua forma partitica e nazionale laddove essa si
mostra subalterna alle dinamiche globali di una ideologia neoliberale
che produce nuove forme di disuguaglianza e sfruttamento e sovente si
serve del potere militare degli Stati per poter estendere la propria
sfera d’influenza. Si sono ormai definite le grandi dicotomie su cui si
articolerà il conflitto politico del nuovo secolo. Guerra e
Pace; Efficienza e Solidarietà; Disuguaglianza e Uguaglianza;
Potere imperiale e Contropotere.







Domenica 14 Marzo 2004 – Iraq: un anno dopo



Mentre in Italia ci si prepara alla grande mobilitazione pacifista del
20 Marzo, in America si tirano le somme a un anno dall’inizio della
guerra in Iraq. Come scrivono sul Los Angeles Times Doyle McManus e
Sonni Efron, la caduta di Baghdad dopo soli ventuno giorni di
combattimento ha mostrato al mondo la forza militare degli Stati Uniti,
ma le difficoltà emerse nella gestione della fase postbellica
hanno invece mostrato la grande debolezza Americana quando si tratta di
costruire la pace e la democrazia. Come afferma Lee Feinstein del
Council on Foreign Relations: “L’Iraq rappresenta i nostri limiti
piuttosto che la nostra forza”. L’Amminitsrazione Americana che un anno
fa è arrivata a mettere in discussione un sistema di alleanze
che durava da oltre mezzo secolo, oggi si arrampica sugli specchi e
implora l’aiuto dei vecchi alleati. L’iniziativa bellica nel Golfo
Persico doveva rappresentare il grande trionfo della dottrina Bush
della Guerra preventiva, aprendo la strada ad altri analoghi colpi di
mano in tutto il Medio Oriente. Ma a giudicare dai risultati, nessuno
parla più di estendere la grande Crociata in Iran o in Syria.



In fondo, il teorema democrazia vs. tirannia non ha mai convinto
nessuno. Troppe sono le tirannie e le guerre civili che affliggono il
pianeta, e mai ci si è mobilitati sollecitando o imponendo loro
un processo di democratizzazione. Anzi, la maggior parte degli Stati
che gravitano attorno alla sfera d’influenza statunitense, formando
quello che qualcuno ha definito l’"Impero", non sono
liberal-democratici ma regimi di polizia: si pensi ai paesi arabi
"amici" come il Pakistan, l’Arabia Saudita, il Kuwait, oppure alle
diverse realtà oligarchiche dell’America Latina. La democrazia e
il capitalismo sono un qualcosa che riguarda quasi esclusivamente
l’Occidente che è solo il cuore economico e militare
dell’Impero, non la sua totalità. Anzi, la democrazia è
uno degli elementi discriminanti tra il centro dell’Impero e gli Stati
satellite.



Si tratta di un vero "sistema" con un centro saldamente protetto da un
numero di cerchi concentrici che hanno sovente bisogno della guerra per
poter essere messi in riga. La forza militare è intesa come
supporto al consolidamento e all’espansione di un modello economico che
è il mercato. Tra democrazia e capitalismo non c’è dubbio
che sia il secondo elemento a prevalere. Per entrare a far parte
dell’Impero, inteso come quel vasto sistema di alleanze
politico-economico-militari che individuano il loro centro negli Stati
Uniti, non occorre adeguarsi alla sintesi democratico-capitalistica,
che ne rappresenta il verbo fondativo, ma è sufficiente
abbracciare le ragioni dell’espansione economica in senso
capitalistico. Il fatto è che questo teorema può
funzionare solo se tutto fila liscio.



La Guerra ha prodotto un’accelerazione del terrorismo internazionale;
ha deteriorato ulteriormente la già pessima immagine
dell’Occidente di fronte alle popolazioni arabe; ha ridotto al minimo
le possibilità che la questione israelo-palestinese si concluda
pacificamente; ha garantito agli iracheni un futuro di sangue e Guerra
civile, piuttosto che di pace e democrazia. Bush ha perso su tutti i
fronti anche quelli interni. I consensi alle sue politiche calano
giorno dopo giorno tanto che i principali esperti di strategia politica
di area repubblicana non nascondono una certa preoccupazione sull’esito
elettorale di Novembre. Bush continua a chiedere nuovi soldi per
finaziare un progetto imperialista che è già fallito e
intanto distrugge economicamente il suo paese. I cittadini cominciano
ad abbandonarlo. Il popolo americano è troppo egoista per
sostenere una piattaforma programmatica così rischiosa e senza
apparenti guadagni, se non un’affermazione di potenza che ha smesso di
sussistere da tempo. Come afferma Dimitri Sismes del Nixon Center:
“L’idea del perseguimento di una democrazia univesale sarà pure
attraente ma non conviene agli Stati Uniti”. È inutile negarlo,
questo è quello che pensa la maggior parte degli americani. Un
popolo che sostiene le guerre solo quando sono rapide e indolore ma che
si irrita quando cominciano a costare troppo.









Sabato 13 Marzo 2004 – L’impero romano



Oggi mi sono fatto una passeggiata nel Campus con una persona
interessante. Lunga barba bianca, alto, robusto, sandali ai piedi,
pantaloncini corti e berrettino in testa. Gli mancava solo un binocolo
a tracolla e lo avrei scambiato per un attivista del WWF venuto alla
UCLA per osservare gli alberi rari (qui ognuno ha la sua etichetta) e
gli uccelli (ce ne sono di tutti i tipi). Me lo sono trovato alle
spalle nell’ascensore del mio edificio e si è forzatamente
inserito in una rapida conversazione tra me e una collega del Global
Fellow Program mentre le spiegavo i parametri della mia ricerca. Quando
ho accennato che ero qui per studiare lo sciopero degli operai della
grande distribuzione ha fatto come un sobbalzo e ha gridato: “come, tu
dall’Italia vieni a studiare uno sciopero in America”. Non che non
apprezzasse che un italiano mettesse bocca sui fatti di casa sua, ma mi
pare di aver capito che la sua considerazione si riferisse al fatto che
in Italia ci sia più conflitto sociale organizzato da studiare e
quindi non capisse per quale motivo fossi venuto qui. Ne è nata
una piccola discussione che è durata il tragitto necessario a
raggiungere la Powell Library nella piazza principale del Campus.



In realtà abbiamo smesso quasi subito di parlare degli scioperi
dal momento che il mio interlocutore sembrava più interessato
all’Italia che agli Stati Uniti e dava anche l’impressione di
conoscerla molto bene. Mi ha parlato di Roma, di Napoli, di Lecce,
della Sicilia. Insomma, se l’era girata in lungo e in largo, tanto che
la cosa mi ha incuriosito, dal momento che gli americani in genere
escono dal loro paese solo per fare qualche guerra. Il giallo si
è sciolto quando il vecchio e grosso signore mi ha confessato di
essere un professore ordinario di Storia romana qui a Los Angeles. La
cosa non mi ha meravigliato più di tanto. Gli americani sono da
sempre studiosi attenti della nostra storia e in particolare del
diritto romano, che forse è studiato meglio qui che da noi.
Addirittura, l’imperialismo dell’antica Roma è assunto a modello
di riferimento dai consiglieri di Bush per delineare i tratti
dell’attuale politica estera statunitense. I vari Wolfovitz, Ramfield e
gli altri Falchi dell’entourage di Bush spesso hanno affermato di non
riconoscersi nell’etichetta di neoconservatori (o Neocons) che è
stata loro affibbiata dai media internazionali, ma di preferire quella
di neoimperialisti. La cosa è interessante perché un
termine che ha sempre avuto un’accezione negativa, almeno nella storia
recente dell’Europa, oggi viene scelto deliberatamente per connotare la
politica di potenza di uno Stato nazione.



In realtà, l’attuale politica Americana ha ben poco a che vedere
con l’espansione imperiale dell’antica Roma ma è forse meglio
paragonabile a quella napoleonica nei primi anni del XIX secolo. I
romani non imponevano il proprio modello ma lasciavano grandi spazi di
autonomia politica e culturale ai popoli conquistati. Pur avendo una
radicata consapevolezza della propria superiorità, essi erano
sovente disponibili al contatto culturale e a una certa forma di
integrazione. L’America no. Essa, in un’indebita pratica di
assolutizzazione culturale, è convinta che il proprio modello
sociale e politico sia l’unico possible e che in quanto tale debba
essere esportato con ogni mezzo: politico culturale, nel caso del
wilsonismo soft di Clinton; politico militare, nel caso della versione
hard di Donald Ramfield e Condoleeza Rice. Si tratta di un’operazione
politica che assume un alto valore evangelico, solo che il Verbo
è quello di una illegittima affermazione di potere.



Proprio ieri sera ho partecipato alla presentazione di un libro di un
certo Peter Singer, docente di Bioetica a New York. Il volume si
intitolava “The President of Good and Evil” (il presidente del bene e
del male). L’autore, prendendo spunto da alcuni discorsi pubblici del
Presidente, rilevava il rigurgito eticistico che dopo l’11 settembre ha
caratterizzato la retorica politica di Bush, mettendone in luce gli
elementi contraddittori e spesso preoccupanti. Quando uno studente
verso la fine del dibattito è intervenuto chiedendo un giudizio
generale sulla politica dell’attuale amministrazione, l’autore ha
risposto con una sola parola che però ho trovato molto
più esplicativa di tanti discorsi intellettualistici:
“Terrificante”.









Venerdì 12 Marzo 2004 – La Spagna esplode



Oggi vengo informato dall’Italia che una terribile esplosione a Madrid
ha procurato la morte di 192 persone e il ferimento di altre 1400. Qui
le notizie dall’Europa vengono con almeno nove ore di ritardo e solo
questa mattina leggendo il Los Angeles Times riesco a saperne qualcosa
di più. Nel Campus tutto procede come se nulla fosse successo. I
ragazzi continuano tranquillamente a esercitarsi con il proprio
skateboard, le ragazze scherzano come al solito. Anche intorno al mio
ufficio si respira un’aria di indifferenza totale che mi disgusta.
Nulla intacca la quotidianità degli americani. E onde evitare
che la cosa possa indurre qualche senso di colpa, evitano di
informarsi, costruendo un alibi che giustifichi il loro individualismo.
È difficile vedere qualcuno con un quotidiano tra le mani, al
massimo qui nel Campus si legge il Daily Bruin, giornale ufficiale
della UCLA, che è distribuito gratuitamente e raramente guarda
al di là di Los Angeles.



Leggo che il governo spagnolo fa pressioni per far addebitare
l’attentato all’Eta. A tre giorni di distanza dalle elezioni nazionali
un evento del genere spinge l’elettorato a orientarsi verso un governo
forte e Aznar, da tempo in crisi di consensi, si è sempre
mostrato rigido di fronte a ogni ipotesi di accordo con il popolo
basco. In questo momento senz’altro gli conviene giocare la carta
dell’antiterrorismo. Anche a Washington, dove in genere non vedono
l’ora di poter accusare qualche musulmano di genocidio, questa volta si
decide di non rovinare i piani elettorali del fedele alleato, e per
bocca del portavoce del Dipartimento di Stato Richard Boucher, si
afferma che se la Spagna crede che la responsabilità sia
dell’Eta, gli Stati Uniti non hanno alcun motivo di pensarla
diversamente. Ma che carini.



In realtà l’ipotesi non regge. L’Euzkadi Ta Askatasuna
(letteralmente, “Patria e Libertà”) è un gruppo
clandestino che si prefigge fini politici. Gli obiettivi dei suoi
attentati sono accuratamente selezionati e raramente coinvolgono
civili. Quando nell’87 in una attentato in un supermaket morirono 22
persone, i vertici dell’organizzazione chiesero scusa per i civili
coinvolti. Inoltre l’Eta, proprio in virtù di questa sua pretesa
politicità, annuncia e rivendica le proprie azioni con orgoglio,
mentre in questo caso, l’unica rivendicazione pare sia arrivata da un
gruppuscolo islamico che però tutti considerano poco credibile.



Un comandante della polizia spagnola afferma che comunque le indagini
seguiranno più piste: quella dell’Eta, che fa piacere ad Aznar;
quella di Al Qaeda, che fa piacere a Bush; oppure quella che considera
la possibilità di un’alleanza improbabile tra le due
organizzazioni, ipotesi che farebbe piacere a entrambi. A questo punto,
proporrei di aggiungere anche qualche Ceceno, per far contento Putin;
un paio di Palestinesi, per Sharon; e qualche irlandese impenitente,
per non fare un torto al caro Blair.



E se invece provassimo con una Quarta ipotesi?









Giovedì 11 Marzo 2004 – La biblioteca del Campus





 Oggi è stata una buona giornata, a cominciare dal clima.
Dopo due giorni di caldo infernale l’aria si è un po’
rinfrescata rendendo tutto più semplice. Superati i tantissimi
scogli burocratici sono finalmente riuscito ad accedere alla biblioteca
del Campus. Bisogna dire che per quanto gli Stati Uniti rimangano un
modello di efficienza organizzativa, ogni comportamento formale
è regolato da una pesantissima burocrazia, fatta di una serie
infinita di strutture amminitrative che, come sovente capita anche da
noi, non comunicano assolutamente tra di loro e spesso entrano in
conflitto a causa di inevitabili sovrapposizioni funzionali.





Per confermare il mio status di Research Scholar sono dovuto passare
per almeno sette uffici: uno che mi consentisse di avere un mio
studiolo; uno che mi desse diritto a un computer; addirittura un altro
per la stampante e un altro ancora per il telefono (che non ho ancora
mai usato); uno per avere un indirizzo di posta elettronica; uno per
avere diritto a un minimo di copertura in caso di incidenti; e uno,
infine, per ottenere la mia Bruin Card. Anche per iscrivermi nella
mastodontica palestra del Campus (mens sana in corpore sano) sono
passato per almeno tre filtri: Un ufficio per l’accettazione, uno per
il pagamento e un altro per avere la tessera magnetica con tanto di
foto. Questa è una peculiarità americana. Ti fotografano
per qualsiasi cosa. Alla dogana, appena poggi piede sul suolo
statunitense; all’Università, per ottenere il tesserino: e in
fine in palestra. Ci mancava solo che mi fotografassero per consultare
alcuni testi in biblioteca e avevamo fatto poker; anche se un’altra
tessera me l’hanno data comunque, anzi, me ne hanno date due: una per
poter ritirare i testi e un’altra prepagata, per poter usare la
stampante.





Entrare in una biblioteca universitaria negli Stati Uniti è
un’esperienza destabilizzante. In particolare la UCLA ha nel suo
interno 12 megabiblioteche per un totale di oltre quattro milioni di
libri e centinaia di riviste specializzate. Un italiano, abituato alle
nostre umili biblioteche universitarie che raramente superano i trenta
mila testi e qualche decina di riviste, ha bisogno di un po’ per
ambientarsi, ma poi tutto diventa chiaro e semplice. Ogni procedimento
è perfettamente informatizzato. Gli studenti hanno a
disposizione almeno un sessantina di computer per sede dove consultare
il catalogo dei testi, molti dei quali sono disponibili in formato
digitale. Io personalmente ho potuto stampare una decina di articoli da
riviste specializzate rimanendo tranquillamente seduto nel mio ufficio,
limitandomi ad accedere al sito congiunto delle diverse library. Tra
l’altro è una cosa che si può fare anche dall’Italia, dal
momento che non occorre alcun codice di accesso per consultare le
riviste on line.





Le difficoltà vere cominciano quando devi recuperare fisicamente
i vari testi. Ognuno, ovviamente, ha il proprio codice che generalmente
è fatto di alcune lettere, che definiscono il piano (dal momento
che ogni biblioteca ne ha almeno quattro) e il settore, seguite da
alcuni numeri che definiscono invece la collocazione esatta all’interno
del settore. Il problema è che questi numeri sono in genere di
quattro o cinque cifre; ciò vuol dire che per ogni volume
bisogna iniziare un lavoro di ricerca minuzioso tra decine di migliaia
di testi collocati in successione su scaffali alti almeno tre metri e
lunghi non so dirvi quanto. Ogni libro che riesci a trovare ti
dà un senso di soddisfazione e di potere che poche altre cose
nella vita riescono a offrire.





In ogni caso è una sensazione stupenda. Per chi come me vive di
ricerca, essere circondato da tutti quei libri è un qualcosa che
ti inebria. Non mancava nulla. Tutto ciò di cui avevo bisogno
era lì a disposizione, tanto che uscire con appena tredici libri
tra le braccia mi ha fatto sentire povero. La sensazione è che
qualunque nuovo prodotto editoriale prima o poi finisca tra quegli
scaffali e non mi riferisco solo a testi in inglese, ma in tutte le
lingue; dal cinese al giapponese, dall’arabo all’italiano. Ho trovato
anche due mie libri che mai avrei immaginato potessero arrivare fin qua
giù. L’ambiente interno è molto raccolto con spazi
estremamente ampi per consentire agli studenti di leggere senza troppe
distrazioni. L’atmosfera è così confessionale che sovente
ti capita di scovare giovani che tra una pagina e l’altra si
addormentano sui lunghi divani imbottiti che sono fissati tra uno
scaffale e l’altro.





Il personale è numeroso e tutti sono estremamente cordiali e
disponibili. Naturalmente ho impiegato un po’ per entrare nel
meccanismo e ieri un addetto del servizio informazioni mi ha dedicato
più di un’ora per spiegarmi tutti i meccanismi che alla fine
erano estremamente intuitivi e ha anche insistito per fare lui al posto
mio alcune operazioni di controllo sui testi. L’unico limite sta forse
nella politica dei prestiti un po’ troppo liberale. Non c’è
nessun limite al numero dei volumi che si possono ritirare e li puoi
praticamente tenere quanto ti pare. Nel senso che nessuno te li
richiederà fino a quando un’altra persona non ne avrà
bisogno. In tal caso, non è neanche necessario ripassare per il
filtro della biblioteca dal momento che anche questo passaggio è
informatizzato. È sufficiente premere il pulsante RECALL accanto
al codice del libro e automaticamente un sollecito viene inviato al
ritardatario che è costretto a riportare il testo nel giro di
una settimana.





Quando sono arrivato pensavo di dover inventare qualcosa di empirico,
una piccola ricerca sul campo per giustificare la mia presenza qui a
Los Angeles. Credevo che il lavoro di biblioteca fosse secondario, che
oggi internet ti consente un contatto con il mondo stando
tranquillamente seduto di fronte al computer di casa. Oggi mi sono reso
conto che non è così. Poter accedere anche solo a una di
queste biblioteche è un’esperienza per cui vale la pena partire.
E quando pensi all’Università italiana, a come è
organizzata, a quello che offre ai docenti e agli studenti, qualche
volta, ti viene voglia di non tornare.





 





Mercoledì 10 Marzo – Le falle di Bush





La nomination di Kerry si fa sempre più vicina. Ieri ha
stravinto in Florida, Louisiana, Mississipi e Texas raggiungendo quota
1.816 delegati. Ne servono 2.162 per aggiudicarsi la corsa. Anche
Edwards, malgrado si sia formalmente ritirato dalla competizione,
continua a essere votato dai suoi più entusiasti sostenitori
(così come capita a Dean) e in Louisiana ha raggiunto un
insidioso 16% che gli servirà come accumulazione di credito
nella sua malcelata ambizione di essere scelto come vice di Kerry per
la gara finale contro Bush. Al momento Kerry non intende scoprire le
sue carte anche se alla fine non potrà non prendere in
considerazione l’ampio consenso che Edwards continua a riscuotere tra i
Democrats. Sembra non curarsi delle questioni interne al partito e si
prepara alla battaglia finale cercando di indebolire l’immagine di Bush
(e sai che ci vuole).





Qui emerge la schizofrenia delle campagne elettorali americane. Lo
attacca sulle questioni ambientali, eppure Kerry negli ultimi anni pare
abbia votato contro tutte le proposte di legge sostenute dalle lobby
ambientaliste (che invece provavano una certa simpatia per Edwards); lo
attacca sulla questione sociale, sulla salute e la previdenza, ma va
detto che Kerry, democratico moderato, si è risvegliato paladino
della causa dei lavoratori solo di recente, proprio qui a Los Angeles,
dove è andato a esprimere la propria solidarietà agli
operai in sciopero del settore alimentare, guarda caso, un giorno prima
che la California votasse per le primarie e cinque ore prima che le
Unions raggiungessero un accordo con i vertici aziendali. Lo attacca
infine sulla Guerra all’Iraq, che ha votato, e sul Patriot Act, che ha
sostenuto.





In ogni caso, non è un buon momento per Mr. Bush sotto il tiro
dei media per i risultati disastrosi della sua politica economica e per
le bugie sulle presunte armi di sterminio di massa (pare sia
un’abitudine molto anglosassone). Clinton, che il mondo
ricorderà solo per le sue scappatelle sessuali, in otto anni di
governo è riuscito a creare 22,7 milioni di posti di lavoro,
raggiungendo un livello di occupazione che secondo il Bureau of Labor
Statistics non si registrava dal 1920. Nei tre anni di amministrazione
repubblicana, invece, si è assistito a un calo di occupati pari
a 2,2 milioni di unità. Ma Bush non si cura di questo. Lui
è un War President e non può preoccuparsi dei giovani che
rimangono senza lavoro, degli operai che sono privi di un’adeguata
assistenza sanitaria, del costo della vita che cresce vertiginosamente.
Poi tanto se qualcuno per la disperazione perde la testa e comincia a
sparare a destra e a manca, si risolve tutto arrostendolo sulla sedia
elettrica. E poi il possesso delle armi qui è un diritto
inviolabile.





Lui deve pensare alla Guerra, a salvare il mondo e l’umanità dal
demone terrorista. E che importa se per questo deve dire qualche bugia
a fin di bene. In fondo il nostro caro Bush non è il capo
dell’asse del bene? Questo linguaggio mistico mi fa tornare in mente un
editoriale del Direttore dell’Unità qualche settimana dopo il
terribile attentato dell’11 Settembre. Se non erro erano ancora in
corso i bombardamenti in Afghanistan. Il pezzo cominciava con la
citazione di queste due frasi: 1) "Crediamo in Dio perché con la
grazia di Dio i missili americani falliranno il bersaglio e noi saremo
salvi. Islamici del mondo uniamoci nel nome di Allah potente e
misericordioso"; 2) "Dobbiamo liberare il mondo dal diavolo. Di questo
siamo certi. Né la morte né la vita né gli angeli
né i prìncipi né le cose presenti né le
cose future, nemmeno le vette e gli abissi, ci separeranno da Dio.
Possa Egli benedire e guidare questo paese".





La prima frase era del Mullah Mohammad Omar, capo dei Talebani e
tuttora latitante, la seconda era di George W. Bush, Presidente degli
Stati Uniti d’America. Mi spiegate la differenza? ... CLASH






 




Martedì 9 Marzo 2004 – Iraq democratico?





 Senza nascondere un pizzico di orgoglio, i quotidiani americani
danno risalto alla notizia che i membri dell’Iraqi Governing Council,
sotto la supervisione dei militari americani e inglesi (quindi in
totale serenità) hanno firmato la bozza costituzionale che
dovrebbe aprire la via al processo di democratizzazione del paese. Lo
stesso Bush rivendica la cosa come un proprio risultato che
porterà entro il 30 Giugno alla formazione di un Governo sovrano
deciso dagli elettori. Secondo gli accordi, il nuovo Iraq dovrebbe
assumere una forma di governo repubblicana, federale, democratica e
pluralistica. L’Islam, come religione ufficiale, sarà la
principale fonte ispiratrice del processo legislativo anche se a tutte
le religioni sarà consentito il diritto all’esistenza (almeno
questo). Le lingue ufficiali saranno l’arabo e il kurdo.

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Redazione
Inviato: 20/3/2004 13:52  Aggiornato: 20/3/2004 13:52
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 Re: DIARIO AMERICANO - III PARTE
(16 Marzo) Manca la capacità politica.... o manca la volontà? E se la risposta è la seconda, perchè manca? Scusa se è un argomento in cui mi ripeto spesso (nè devi ritenerti in obbligo di replicare), ma per me il problema della "sinistra assente" in Italia inizia dove purtroppo molti lo lasciano finire: alla constatazione del fatto. Se invece si cominciasse a scavare sulle radici del problema... Massimo Mazzucco


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