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storia & cultura : Perché non si può dire la Verità (1a parte)
Inviato da Redazione il 2/2/2014 19:00:00 (10827 letture)

di Massimiliano Paoli

24 ottobre 1990. Giulio Andreotti davanti al parlamento italiano e al mondo interno rivela l’esistenza di Gladio, struttura nata da accordi bilaterali con gli Stati Uniti il cui scopo ufficioso era quello di fronteggiare un’eventuale invasione dell’Armata rossa. Così facendo, il 7 volte presidente del Consiglio innesca un meccanismo che entro poco tempo darà in pasto all’opinione pubblica internazionale tutte le reti stay-behind sparse nell’Europa occidentale.

Le reazioni dal vecchio e dal nuovo continente non si fanno attendere. A detta del generale Paolo Inzerilli, capo della rete clandestina italiana dal 1974 al 1986, i cugini francesi erano “incavolati per le nostre rivelazioni” mentre gli statunitensi volevano sapere fino a che punto l'organizzazione Gladio fosse stata “sputtanata”.

E’ forse questo l’inizio della fine dello strapotere di Giulio Andreotti ?

Un dato interessante: tre giorni dopo le rivelazioni di Andreotti (il 27 ottobre 1990) esordisce in Italia una nuova sigla terroristica, la Falange Armata.

Questa sigla (dietro cui hanno operato alcuni elementi mai identificati del nostro servizio segreto militare) si renderà protagonista di una delle più grandi “intuizioni” nella storia della nostra Repubblica.

Il 21 giugno del 1991, quando Cosa Nostra non aveva ancora deciso di attuare un piano d’attacco frontale allo Stato (messo poi in atto qualche mese dopo), in quanto stava ancora aspettando il “buon” esito del Maxiprocesso giunto ormai in Cassazione, la Falange recapitò all’agenzia ANSA di Firenze un comunicato in cui si anticipavano di ben 9 mesi tutti i luoghi delle future azioni terroristiche della mafia e della famigerata "banda della Uno bianca".

Nel comunicato in questione si legge che "città e regioni di particolare significato politico e strategico saranno considerate Milano, Roma, la regione Emilia Romagna e la Sicilia".

Ora, dando per buono che dietro alla Falange ci fossero elementi dei Servizi, ...

... come testimoniano (o quantomeno fanno intuire) persone del calibro di Libero Gualtieri (primo presidente della Commissione stragi), Vincenzo Parisi (storico capo della polizia italiana), Francesco Paolo Fulci (ambasciatore ed ex direttore del Cesis) e Fabio Piselli (ex parà della Folgore), come si spiega questo fatto ?

Come è possibile che prima della delibera di Salvatore Riina alla campagna stragista del 1992-1993 elementi interni al Sismi sapessero?
E’ possibile che Cosa Nostra, indipendentemente dall’esito del Maxiprocesso, avesse deciso di portare avanti le “sue” azioni eclatanti?

Si, è possibile.

Questa possibilità viene corroborata dall’inchiesta palermitana “Sistemi criminali”. Dall’archiviazione del gip Fasciana della procura di Palermo: "Il presente procedimento ha avuto per (unico ed esclusivo) oggetto la verifica dell’ipotesi investigativa secondo cui la strategia d’attacco di Cosa Nostra, iniziata a Palermo con l’omicidio dell’on. Salvo Lima nel 1992, ha costituito l’attuazione del programma criminoso di un’associazione finalizzata all’eversione dell’ordine costituzionale, costituita fra il 1990 ed il 1991, nel quale sono confluiti soggetti diversi e portatori di interessi talvolta eterogenei ma comunque convergenti: e cioè, uomini di vertice di Cosa Nostra (in particolare, appartenenti allo schieramento corleonese e particolarmente vicini a Totò Riina), uomini provenienti dalle fila della massoneria “deviata” e dall’eversione nera, a loro volta legati alla medesima organizzazione mafiosa Cosa Nostra (nelle sue varie articolazioni territoriali) o ad altre mafie nazionali, come la ‘ndrangheta calabrese, risultate anch’esse interessate nel medesimo periodo storico a partecipare attivamente ad un progetto eversivo-criminale."

L’obiettivo di questa operazione era “l’azzeramento del quadro politico-istituzionale nazionale” tramite la creazione di formazioni leghiste nel centro-sud. Creazione accompagnata da vere e proprie operazioni terroristiche volte a destabilizzare quel “quadro politico-istituzionale” da cancellare.

Detto in parole povere, un vero e proprio colpo di Stato.

Tra gli imputati dell’inchiesta, spiccano i nomi di due “big” dell’eversione italiana: Stefano Delle Chiaie e Licio Gelli; il “venerabile”, fino al marzo del 1981 (giorno in cui vennero scoperti dalla guardia di finanza gli elenchi degli iscritti alla loggia massonica P2), aveva in tasca tutti i vertici degli apparati di sicurezza italiani.

Ma torniamo alla nostra domanda principale…

Un altro motivo per cui elementi interni al Sismi e alle nostre forze armate potevano conoscere con largo anticipo le mosse di Cosa Nostra era perché Gladio, gestita dalla 7° divisione del Servizio, aveva una sua base a Trapani.

Il cosiddetto “Centro Scorpione”, base di Gladio in Sicilia almeno dal 1987, si pone in una realtà (quella di Trapani appunto) riassunta con puntualità dal colonnello del Sismi Paolo Fornaro, che al Centro Scorpione ci ha lavorato: "Io dovevo lavorare a Trapani, dove avevamo visto che c’era una specialissima pax mafiosa. In un anno, appena sette scippi. Ma a venti chilometri di distanza era l’inferno. E poi, troppe banche, troppe finanziarie. Mi lasci anche dire, troppe logge massoniche sospette con dentro magistrati e investigatori"(1).

Una “specialissima pax mafiosa” che viene descritta dall’ex boss di Caccamo Antonino Giuffrè: "Allo stato attuale Trapani e in particolare il paese di Castellammare del Golfo rappresentano una delle zone più forti della mafia, non solo perché la meno colpita dalle Forze dell'ordine, ma soprattutto perché punto di riferimento non solo di traffici normali, come droga e armi, ma anche luogo dove si incontrano alcune componenti che girano intorno alla mafia. E' un punto di incontro della massoneria, ma anche per i servizi segreti deviati"(2).

Servizi deviati.

Una coincidenza: uno dei due personaggi che hanno diretto il misterioso “Centro Scorpione” (misterioso perché ben due inchieste della magistratura non sono riuscite a stabilire le funzioni della base) è sempre stato sospettato, a torto o ragione, di aver fatto parte della Falange Armata.

Si tratta del maresciallo Vincenzo Li Causi. Nato a Partanna in provincia di Trapani, entra nel servizio segreto militare a soli ventidue anni (siamo nel 1974) e nell'Organizzazione Gladio tre anni più tardi.
Li Causi, esperto in telecomunicazioni, faceva parte degli Operatori Speciali dei Servizi Italiani (la cosiddetta sezione “K”), struttura che poteva usufruire di grande autonomia operativa e gestionale in quanto rigidamente compartimentata. La “K” inoltre, beneficiava di finanziamenti propri; da dove provenissero questi finanziamenti non è dato sapere.

Istituiti dal generale Paolo Inzerilli, gli OSSI si raggruppavano in nuclei di quattro persone chiamati Gos (Gruppi Operazioni Speciali), costituiti da uno specialista explos-sabotaggio e da uno armi e tiro con il compito di condurre sia azioni "dirette" ("condotte direttamente contro il nemico e il suo potenziale bellico con scopi informativi, di sabotaggio, di disturbo") che "indirette" ("attività di promozione e organizzazione della resistenza, supporto a unità della resistenza"). Il reclutamento degli operatori avveniva mediante la selezione di personale di leva delle forze armate.

Indagini riservate della polizia infatti, ritengano che la Falange Armata sia nata a Livorno, proprio all’interno della caserma Vannucci dei paracadutisti della Folgore.

“Pescare” all’interno della caserma era compito del generale Musumeci e del colonnello Belmonte, ambedue condannati in via definitiva per i depistaggi nelle indagini sulla strage alla stazione di Bologna del 1980.
La sezione “K” salirà alla ribalta delle cronache quando verrà dichiarata dalla seconda Corte d’Assise di Roma (nel 1997), eversiva dell’ordine costituzionale, in quanto reparto militare che operava al di fuori dell’ambito delle Forze armate, che, com'è noto, dipendono dal Capo dello Stato.

Chiusa la parentesi, torniamo a Li Causi.

Come abbiamo visto poco sopra, tra il 1987 e il 1990, il maresciallo dirige il “Centro Scorpione” di Trapani: una delle cinque basi di addestramento di Gladio.

Finita ufficialmente la sua avventura siciliana, Li Causi farà la spola dall’Italia alla Somalia fino al giorno della sua morte, il 12 novembre 1993.

Una morte avvenuta in circostanze mai chiarite. Circostanze mai chiarite perché forse Li Causi sapeva troppo. E quel “troppo”, forse, lo stava raccontando.

Certi dicono che lo stesse raccontando addirittura alla giornalista Ilaria Alpi: anche lei deceduta in Somalia per morte violenta qualche mese dopo il maresciallo. Se questo fosse vero, si aprirebbe una pista che definire allucinante sarebbe estremamente riduttivo.

La Alpi infatti stava indagando su una flotta italo-somala (la Shifco), ufficialmente dedita alla pesca e al commercio di prodotti ittici provenienti dal Corno d’Africa, che in realtà trafficava su scala internazionale in armi.

Lo dice lo stesso Sismi in una nota datata maggio-giugno 1993:[i]“Si è appreso che presso il porto di Livorno avrebbe fatto scalo, per lunghi periodi, un peschereccio battente bandiera somala di colore bianco, di proprietà della Shifco, che sarebbe in realtà stato utilizzato per un traffico internazionale di armi”.


La nave a cui si riferisce l’appunto del Sismi è la 21 Oktobar II, un peschereccio che sta al centro di una delle tragedie (mai raccontate fino in fondo) del nostro paese: la Moby Prince.

La nave infatti, la sera del disastro che costò la vita a centoquaranta innocenti, era nella rada di Livorno: il teatro della sciagura. In rada quella sera (10 aprile 1991), si stava svolgendo un traffico illegale d’armi condotto da apparati militari italiani e statunitensi utilizzando navi militarizzate e civili (alcune di esse mai identificate).
Ed ecco i fatti da shock anafilattico.

Primo. La flotta Shifco, di cui la 21 Oktobar II era l’ammiraglia, era partner di Monzer Al-Kassar, trafficante siriano legato agli americani dai tempi dello scandalo Iran-Contras; un rapporto successivamente consolidato (tramite la CIA) durante la crisi degli ostaggi americani in Iran all’indomani della rivoluzione dell’ayatollah Khomeini. Al-Kassar, inoltre, poteva beneficiare di ottime entrature in Argentina, dove Licio Gelli era una sorta di ministro occulto.

Secondo. Alla fine del 1990, Al Kassar aveva acquistato in Spagna una gigantesca partita di esplosivo militare RDX (T4) per conto di una società di copertura dei servizi segreti polacchi (la Cenrex Trading Corporation di Varsavia). Il WSI (i servizi segreti polacchi), già nel 1990, all’indomani del crollo del muro di Berlino, erano sostanzialmente una succursale della CIA. E’ provato inoltre che il WSI, tramite l'agente “Wolfang Frankl” (nome di copertura), abbia svolto operazioni di riciclaggio insieme alla mafia italiana.

Terzo. Secondo la perizia del dottor Alessandro Massari, ex responsabile a livello nazionale della parte chimica della Polizia Scientifica, in alcuni locali del Moby Prince si sono trovate tracce di RDX (T4) e di altre sostanze esplosive. Curiosamente, l’RDX (T4), è l’unico componente degli ordigni usati nel biennio 1992-1993 di cui non si è riusciti a stabilire con certezza la provenienza.

Quarto. L’avvocato ed ex magistrato Carlo Palermo (legale dei figli del comandante Chessa, morto sul Moby) ha scoperto che la sera della tragedia del traghetto c’era un ingente traffico di materiale bellico in uscita dalla base di Camp Darby. La base NATO situata tra Pisa e Livorno, va ricordato, è una delle principali e più ambigue basi americane in Italia: non sono stati mai del tutto chiariti infatti i suoi rapporti con alcuni militanti di Ordine Nuovo (l’ordinovista Marcello Soffiati ad esempio, disponeva addirittura di una mappa della base) e con la stessa organizzazione Gladio. L’agente della CIA Mark Wyatt, indicherà Camp Darby (dieci anni dopo l’inchiesta “pionieristica” del giudice Felice Casson) come “base responsabile” della stay-behind italiana.

Quinto. Anche Al-Kassar (come il WSI con cui ha collaborato per l’acquisto della gigantesca partita d’esplosivo militare) è in contatto con Cosa Nostra: più precisamente con i catanesi di Nitto Santapaola. Questo è un dato di primaria importanza visto che l’ex procuratore capo di Firenze Pier Luigi Vigna, davanti alla commissione antimafia, ha testimoniato che "un mercato attrattivo, almeno di passaggio, ma anche per insediamento, in Toscana è quello delle armi. Circa un anno prima della strage di Capaci (mi riferisco quindi all'aprile 1991), abbiamo avuto passaggi molto consistenti, effettuati da soggetti di organizzazioni toscane (questa volta imperniate sui catanesi), di esplosivi e congegni per accensione di esplosivi diretti a Catania".

Sesto. Qui la parola passa al collaboratore di giustizia catanese Filippo Malvagna, nipote di Giuseppe Pulvirenti detto 'u Malpassotu (boss appartenente alla commissione regionale di Cosa Nostra): “Come ho già dichiarato io ero bene a conoscenza dell'esistenza di una strategia di Cosa Nostra volta a colpire lo Stato sia in Sicilia che fuori dall'isola. Infatti ritengo, nei primi mesi del 1992, di aver saputo da Giuseppe Pulvirenti che qualche tempo prima, e ritengo pertanto verso la fine del 1991, si era svolta in provincia di Enna [...] una riunione voluta da Salvatore Riina alla quale avevano partecipato rappresentanti ad alto livello di Cosa Nostra provenienti da varie zone della Sicilia. Per Catania vi aveva partecipato Benedetto Santapaola che aveva poi riferito ogni particolare dell'incontro al Pulvirenti. Il Pulvirenti non mi raccontò chi fossero gli altri partecipanti alla riunione alla quale comunque era presente Salvatore Riina in persona. Ricordo che mi spiegò che la provincia di Enna veniva scelta di frequente per questi incontri perché era una zona non molto presidiata dalle forze dell'ordine. Ciò su cui il Pulvirenti fu più preciso riguardò l'oggetto della riunione. Il Riina aveva fatto presente che alcune tradizionali alleanze con i pezzi dello Stato non funzionavano più. In pratica erano "saltati" i referenti politici di Cosa Nostra i quali, per qualche motivo, avevano lasciato l'organizzazione senza le sue tradizionali coperture. [...] Quanto alle ragioni dell'attacco allo Stato voluto da Riina e su cui si erano trovati pienamente d'accordo Santapaola e gli altri partecipanti alla riunione in provincia di Enna, il Malpassotu mi riferì solo una frase che sarebbe stata pronunciata da Riina: "Si fa la guerra per poi fare la pace". Successivamente ebbi modo di discutere ancora con il Pulvirenti riguardo alle finalità di questa strategia di Cosa Nostra. Secondo il Malpassotu, ora che molti accordi con il potere politico erano venuti meno bisognava fare pressione sullo Stato per altre vie sia allo scopo di indurre gli apparati dello Stato anche a delle trattative con la mafia sia, quanto meno, per allentare la pressione degli organi dello Stato su Cosa Nostra e sulla Sicilia. Non posso essere più preciso su ciò, ma ricordo che il Malpassotu mi raccontò che si era deciso che tutte le future azioni terroristiche di Cosa Nostra venissero rivendicate con la sigla "Falange Armata"”(3).

Per uno strano caso del destino, il 2 febbraio 2009, a Cerveteri (dov'era situata la principale base operativa dell'ormai dissolta sezione “K”), fu ucciso in un incidente stradale proprio Giuseppe Pulvirenti. Di Catania, inoltre, è anche chi ha preparato l’ordigno utilizzato a Capaci per far fuori Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e la loro Scorta. Il suo nome è Pietro Rampulla, conosciuto dal comando dall’Arma dei Carabinieri di Caltagirone, dal lontano 1983, come elemento di spicco della “famiglia” catanese facente capo al boss Santapaola.

Un’informativa della Direzione investigativa antimafia del 1994 lo descrive come un “esperto manipolatore di esplosivi, noto sotto questa veste fin dal 1988, allorquando [il collaboratore di giustizia] Calderone Antonino in questi termini lo descrive e lo definisce. Oltre che mafioso, il Rampulla vanta pregiudizi di natura politica [...]. Nel corso degli studi presso l'università di Messina collezionò una serie di denunce per occupazione di facoltà ed episodi di violenza nell'ambito di contestazioni studentesche [...]. A tale periodo risale infatti la sua adesione a Ordine Nuovo e la sua conoscenza con Cattafi Rosario, unitamente al quale fu denunciato e successivamente condannato per lesioni. [...] Cattafi [...] anch'egli militante di Ordine Nuovo, nei primi anni Settanta ha vissuto le medesime esperienze del Rampulla venendo più volte denunciato. [...]. Il 30 maggio 1984 fu [...] arrestato in Svizzera perché colpito da ordine di cattura emesso dalla Procura della Repubblica di Milano per i reati di associazione per delinquere di stampo mafioso, sequestro di persona a scopo di estorsione e traffico di stupefacenti, reati per i quali successivamente fu assolto per insufficienza di prove. [...] Sempre dalle indagini condotte dalla Procura di Milano emergevano, inoltre, non meglio chiariti rapporti tra Cattafi e presunti appartenenti ai Servizi Segreti. Le investigazioni, in effetti, consentirono di accertare la sua veste di mediatore di armi che venivano reperite in Svizzera. [...]. Nella requisitoria del dottor Di Maggio, datata 30 aprile 1986, a confronto di quanto appena detto, si accenna all'esistenza di un documento attestante la mediazione del Cattafi per la cessione di una partita di cannoni della Oerlikon Suisse all'Emirato di Abu Dhabi”.

Cattafi, boss di Barcellona Pozzo di Gotto, si è autoproclamato (nel 2012) intermediatore di un’ennesima trattativa tra stato e mafia. Questa trattativa sarebbe iniziata nel giugno del ’93. I protagonisti furono (sempre a detta di Cattafi): il boss Santapaola e il numero due del Dap (Il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria) Francesco Di Maggio. Lo scopo dell’apertura di questo ulteriore canale di trattativa era quello di fermare le stragi attraverso l’alleggerimento del regime di 41bis ai detenuti mafiosi.

Di Maggio, insediatosi nello stesso mese in cui avrebbe preso contatto con Cattafi, era stato nominato vicedirettore del Dap nonostante non avesse i titoli richiesti dalla legge.

“Va ricordato”, scrive il gip Morosini nel rinvio a giudizio per l’iniziativa portata avanti dal Ros dei Carabinieri all’indomani della strage di Capaci, “che la Falange Armata, il 14 giugno 1993, ebbe modo di manifestare la sua soddisfazione per la nomina del dott. Adalberto Capriotti come direttore del DAP, al posto del dott. Nicolò Amato [inflessibile, a differenza di Capriotti e Di Maggio, sul carcere duro ai mafiosi]”.

Un altro comunicato “chiave” che fa comprendere la profonda conoscenza della Falange di queste trame, è quello fatto recapitare per via informatica all’agenzia di stampa Adnkronos nel dicembre del ’94, in cui il misterioso soggetto destabilizzante si vanterà (sono parole loro) di avere a disposizione “strumenti informatici provenienti da servizi segreti stranieri che ci consentono di effettuare intercettazioni in ogni situazione”.

Per capire in pieno il significato di questo ennesimo enigma che va a comporre il puzzle falangista, bisogna prima raccontare la storia del boss Antonino Gioè: uno dei protagonisti dell’azione di Capaci contro il giudice Falcone.

Nella "biografia non autorizzata" di Gioè si scorge subito un'anomalia: secondo l'ex-parà della Folgore Fabio Piselli, il boss di Altofonte era "un ex sottufficiale dei paracadutisti", e quindi "il ministero [della Difesa] lo conosceva bene"(4).

Impossibile? Forse. O forse no.

Cito dal libro del procuratore Luca Tescaroli (pubblica accusa nel processo per la strage di Capaci) “Obiettivo Falcone”:“[Francesco] Di Carlo [altro boss altofontese], nel corso del dibattimento inerente al fallito attentato all'Addaura, ha riferito di aver ricevuto, intorno al 1990, quindi dopo il fallito attentato dell'Addaura, due visite all'interno dell'istituto penitenziario di Full Sutton [situato in Inghilterra], da parte di soggetti appartenenti ai servizi segreti. Di Carlo ha correlato questi colloqui al proposito di eliminazione di Giovanni Falcone. Più in particolare, ha riferito che, nell'istituto penitenziario [...] si è trovato a condividere, dall'86, il regime carcerario con Nezzar Hindawi, soggetto di origine palestinese, che aveva lavorato per i servizi segreti siriani, coinvolto nell'attentato all'aereo di linea caduto in Scozia che provocò la morte di circa 300 persone [la strage di Lockerbie]. [...]. Nezzar Hindawi era riuscito a procurargli un incontro con soggetti provenienti da Roma, uno dei quali verosimilmente di nazionalità italiana, mentre gli altri tre provenienti da altri Paesi, tutti appartenenti o, comunque, in contatto, secondo quanto riferitogli da Hindawi, con i servizi segreti arabi con ruoli di comando. [...]. Questi appartenenti alle strutture dei servizi segreti, gli hanno richiesto un supporto per un progetto di eliminazione di Giovanni Falcone al quale, in Italia, alcuni personaggi già stavano lavorando. Gli chiesero se poteva fornire loro un'indicazione di individui in grado di agevolare l'esecuzione di un attentato. Francesco Di Carlo, avendo motivi di rancore personale nei confronti di Falcone, che lo "aveva fatto condannare", forniva loro il nominativo di suo cugino Antonino Gioè, il quale, poi, veniva effettivamente contattato. Lo stesso Di Carlo, successivamente, avvertiva Gioè di essere cauto con tali personaggi. […] Di Carlo ha riferito anche di un secondo incontro, svoltosi a distanza di 4-6 mesi dal primo, una sera intorno alle 20, con quattro personaggi dall'accento americano o inglese, che, mostrando di essere a conoscenza del precedente incontro, lo invitavano a collaborare con la giustizia, chiedendogli informazioni sull'omicidio del banchiere Roberto Calvi e minacciandolo di morte. Di Carlo ha aggiunto, inoltre, di aver fatto avere a Salvatore Riina, tramite suo fratello Giulio [...] e [...] Antonino Gioè, una lettera con la quale spiegava quanto era accaduto e di aver avuto, in seguito, nel corso di un colloquio telefonico, assicurazioni da parte di Riina, che lo ha tranquillizzato con la promessa che si sarebbe occupato della situazione e avrebbe risolto il problema”.

"Hanno mezza Italia nelle mani, possiamo fare tante cose", dice Gioè al cugino Di Carlo. Che Di Carlo non millanta è provato da due elementi. Il primo, scrive sempre Tescaroli, è l’inspiegabile “riottosa indisponibilità delle autorità della Gran Bretagna a collaborare per l'espletamento della commissione rogatoria richiesta, tesa a verificare le […] indicazioni [del Di Carlo]”.

Il secondo è una consulenza fatta dall’ex direttore della "Zona Telecomunicazioni del Ministero dell'Interno per la Sicilia Occidentale" Gioacchino Genchi.

Cito dal libro di Edoardo Montolli “Il caso Genchi”: “[Nel novembre del '92] la Procura di Palermo […] ha affidato [a Genchi] una consulenza su un caso molto singolare: in una villetta vicino a Capaci è stato sequestrato un laboratorio clandestino per le clonazioni di cellulari, di certo Claudio Brambilla, originario di Vimercate, nel milanese, uno che si occupa di ponti radio. Una vicenda che racconta più di mille collaboratori di giustizia. [...] Genchi non sa ancora che quella [consulenza] conferitagli da[i magistrati Vittorio] Aliquò, Giuseppe Pignatone e Franco Lo voi, è la madre di tutte le sue consulenze. Ma sa che c'è un modo, da qualche tempo, per comunicare senza lasciare traccia: clonando i telefonini. I primi cellulari, in voga all'epoca, sono i cosiddetti etacs, non hanno schede da inserire all'interno del telefono. L'attivazione funziona solo su contratto ed è quindi legata al numero di casa o dell'ufficio, dell'utente. Per farli funzionare, sui terminali della Sip (l'ex Telecom) devono quindi corrispondere due soli dati: il numero seriale registrato all'interno dell'eprom - la memoria del cellulare - e il numero telefonico che a quel seriale è stato abbinato dalla stessa Sip. Dal Nord Europa sono arrivati però sofisticati software in grado di azzerare le eprom dei cellulari, esponendole ai raggi ultravioletti, e di riprogrammarle con un nuovo numero seriale. Ed è una pratica che funziona soprattutto con i telefonini Nec P300. Quindi, se uno vuole clonare l'apparecchio di un altro, è sufficiente che se ne procuri uno qualsiasi. Poi, naturalmente, deve conoscere il numero di telefono e il codice seriale di chi vuole clonare. Per il numero [...] basta farselo dare. Quanto al seriale, serve solo qualche accorgimento. [...] Perché per rubare il numero seriale a qualcuno bisogna fisicamente prendergli il telefonino, aprirlo, leggerselo e appuntarselo. [...]. Altrimenti l'alternativa, più sottile, è una sola: avere una talpa alla Sip, che dal terminale fornisca sia il numero di telefono che il seriale di una vittima qualunque. Con in mano il doppio codice, la gran parte del lavoro è fatta. La gran parte. Perché ora, con i dati sufficienti a fare funzionare un nuovo apparecchio alla Sip, serve chi cancelli la memoria vecchia e la riprogrammi, copiando numero e seriale dell'altro: poi, da un solo cellulare, potranno arrivare anche decine di cloni. [Genchi:]"Siccome a ogni numero corrispondeva esclusivamente un apparecchio telefonico, c'era chi si clonava il proprio per averne un secondo, magari da usare in auto. Ma, naturalmente, era la clonazione per compiere i reati la più diffusa. Per esempio con le linee 144, che guadagnavano direttamente dalle bollette degli utenti. I titolari dei centralini compravano una batteria di telefonini, poi cancellavano le memorie e clonavano quelli di altri: con i telefoni clonati poi chiamavano le proprie linee a spese di ignare persone che si vedevano affibbiare bollette stratosferiche. Che intascavano, in parte le hot line e in parte la Sip". Ma la clonazione serve soprattutto a criminali più pericolosi. E nella villetta vicino Capaci dove ha fatto irruzione la polizia [...] c'era un vero e proprio laboratorio attrezzato per le operazioni: con i raggi ultravioletti si cancellavano le memorie, si collegava il telefonino al pc, si inserivano i numeri telefonici e i seriali copiati. E tutto era risolto. Si chiama clonazione statica. Volendo, si possono anche ascoltare le chiamate che il clonato riceve: perché ovviamente, quando qualcuno chiama, sono due i cellulari che squillano. E usando accortezza, senza rispondere subito, è così possibile sentire tutto. [Genchi:]"A capo dell'organizzazione della villetta di Capaci, c'era certo Saverio Stendardo, radiato dalla guardia di finanza. E fu da un particolare file sul suo computer che prese corpo l'indagine sui cellulari clonati in mano ai mafiosi". Il file Motorola.log. Ci sono inseriti, in sequenza, numeri telefonici e numeri seriali. Ma quanto importanti è ancora troppo presto saperlo […] [Genchi:]"Grazie alla decodifica del file Motorola.log, si ricostruirono centinaia di clonazioni eseguite in varie parti d'Italia. E furono individuati i referenti esteri presso la Motorola inglese e presso la Nec, in Olanda, da cui erano partiti i programmi per replicare i seriali. Un patrimonio d'informazioni che consentirà, nel giro di pochi anni l'apertura di decine di fascicoli d'indagini con centinaia di arresti in tutta Italia". In via Ughetti [a Palermo], nel frattempo [il 19 marzo 1993], [...] la polizia ha arrestato Antonino Gioè e Gioacchino La Barbera. [...] Nel covo di via Ughetti vengono […] recuperati dei cellulari. Anche questi clonati. I più importanti. Purtroppo a Genchi verranno dati soltanto a fine anno. Ma a un mese dall'elogio di Aliquò a Palermo [siamo nel maggio del '93], il commissario capo ha scovato anche i meccanismi della clonazione dinamica messi a punto dai mafiosi. Che è molto, molto più avanzata di quella statica: in sostanza, il laboratorio non serve più. Attraverso nuovi programmi, sempre provenienti dal Nord Europa, è possibile clonare un cellulare più volte, cancellando memorie, inserendo nuovi numeri e seriali direttamente dalla tastiera del telefonino. Nessun rischio che qualche tecnico, beccato in flagrante, confessi. E' molto più rapido. E si può fare anche di meglio, con i telefoni clonati dinamicamente si può spiare. Basta piazzarsi dove la "cella" di zona aggancia il telefono vittima, programmarne il numero. E ascoltarne tutte le conversazioni. Un sistema scanner utilissimo, per esempio, se si vogliono fare attentati. Seguendo la vittima passo passo fino al momento dell'omicidio. Perché il sistema pare una vera e propria rete coperta. Pare non lasciare traccia. [...] [Genchi:]"Le clonazioni investivano addirittura i cellulari di servizio di alte cariche istituzionali palermitane, fra cui l'utenza del prefetto Achille Serra e del dirigente della squadra mobile di Palermo, Salvatore Mulas. Per quest'ultimo caso, fu arrestato il suo autista di fiducia. Altre, riguardarono in massa i cellulari della Regione e del Comune di Palermo dove all'epoca era sindaco Leoluca Orlando". [...] [Nell'agenda della Camera dei deputati sequestrata nel covo di via Ughetti ai mafiosi di Altofonte Gioè e La Barbera, Gioacchino] Genchi, alla fine del '93, trova sette pagine fitte di nomi poi cancellati. Poi, ha un sussulto. Ci sono infatti appuntati quattro numeri di cellulare e quattro relativi seriali: gli stessi che erano annotati nel file Motorola.log, trovato nel pc di Saverio Stendardo, il militare radiato dalla guardia di finanza a capo della banda di clonatori. E spuntano anche i telefonini sequestrati ai due boss: modello Nec P300. Che iniziano a raccontare storie diverse da quelle ufficiali di sangue che devastano la Sicilia. [...] Il Nec P300 di La Barbera risulta aver clonato un cellulare di Roma, ma con un seriale che la Sip aveva inserito nella black list di quelli rubati, addirittura prima dell'attivazione. E che dunque, non dovrebbe andare, anche se clonato. Invece va. E anzi è visibile a qualsiasi operatore: perché alla Sip ne hanno memorizzato il seriale alla voce "professione". Cioè, anziché mettere, nome, cognome e codice seriale. Sicchè, un operatore truffaldino, eventualmente, ha la disponibilità di un numero e di un seriale rubato ma che funziona da girare al clonatore. Paradossale, ma non abbastanza. Perché viene pure clonato un Nec P300 di Anna Gioè, sorella di Antonino, che ha attivato ovviamente il suo senza documenti. E la cui utenza appare nel pc di Stendardo. E così vale, in queste grottesche repliche, per il telefonino di Antonino Gioè, in grado pure di intercettare con la funzione scanner. [...]. [...] Poi ci sono i quattro numeri con rispettivi seriali annotati sull'agenda della Camera dei deputati, gli stessi del file Motorola.log di Stendardo. Quelli che evidentemente vengono inseriti sui cloni di Gioè e La Barbera. [...]. Due numeri e due seriali fanno riferimento ad attivazioni di Roma e dintorni [...]. Gli altri due, invece, fanno addirittura "parte di un arco di numerazione prevista e non ancora assegnata" della Sip, sempre a Roma. Cioè sono due numeri che non esistono. Ma come è possibile che un numero mai esistito chiami ? Perché, per chiamare chiamano. E come è possibile clonarlo ? Le informazioni, tutte provenienti esattamente dalla Filiale di Roma Nord della Sip, risultano completamente sballate".

Scrive Genchi nella sua relazione ai pubblici ministeri di Palermo: "Non si comprende nemmeno a che titolo e per quali ragioni il Gioè, il La Barbera e lo Stendardo abbiano concordemente e perfettamente annotato nei loro appunti (rubrica della Camera dei Deputati e agende varie) gli abbinati identificativi telefonici e seriali di una utenza asseritamente facente parte di un arco di numerazione prevista e non ancora assegnata. Non si comprende ancora - se non nella considerazione della assoluta inattendibilità fornita dalla S.I.P. - a che titolo lo Stendardo abbia ripetutamente eseguito la clonazione statica di una utenza cellulare connotata da identificativi telefonici e seriali di un numero telefonico facente parte di un arco di numerazione prevista e non ancora assegnata".

E bisogna tenere presente che questi erano i numeri in mano a due persone riconosciute poi colpevoli della strage di Capaci. Conclude Genchi: "E infatti, fu poi accertato che dietro a quella filiale della Sip, c'era una base coperta dei servizi segreti".

Base sulla quale “nessuno indagò”.

E’ stato provato che questi cellulari “high-tech”, frutto di competenze che, per usare un eufemismo, sono del tutto estranee a Cosa Nostra, sono stati utilizzati da Gioè e dal sopracitato Gioacchino La Barbera (oggi collaboratore di giustizia) per coordinarsi nell'agguato a Falcone. Lo scopo primario di questi cellulari avanguardistici era la dissimulazione dei contatti telefonici.

Una vera e propria rete di protezione interna alla Sip.

Piccola parentesi sulla Sip; dal libro di Stefano Grassi “Il caso Moro”: “All'interno della Sip viene creata la struttura segreta siglata Po-Srcs, Personale organizzazione - Segreteria riservata collegamenti speciali, che dispone di un incaricato per la sicurezza designato dall'autorità nazionale della sicurezza, cioè il capo del servizio segreto militare. La Segreteria riservata collegamenti speciali è una struttura formata da civili, tutti muniti di Nos, il Nulla osta di sicurezza Nato, organizzata con i criteri propri dei servizi segreti [...]. Il compito di tale ente è [...] quello di predisporre collegamenti speciali e fornire servizi tecnici alle forze dell'ordine, alle forze armate, alla Nato e ai servizi segreti, in situazioni critiche legate a atti di terrorismo, crisi nazionali o internazionali, eventi bellici. [...] La persona responsabile dei problemi di sicurezza all'interno della Po-Srcs è proposta dal presidente della Sip e nominata direttamente dal Sismi, e la cosiddetta "cellula di risposta" che viene attivata in situazioni di emergenza è diretta da un ex militare”.

Chiusa quest'ultima parentesi, torniamo a Gioè.

Che il boss di Altofonte avesse entrature di un certo tipo, non lo fa intuire solo l’accesso a queste tecnologie, ma anche la sua conoscenza di un tale di nome Bellini. Paolo Bellini, prescritto per omicidio (si, avete capito bene), è un estremista di destra che ha potuto vantare nella sua “carriera eversiva” conoscenze altolocate sia all’interno dell’esercito italiano che nella magistratura.

Bellini conosce Gioè negli anni ’80 nel carcere di Sciacca; le loro vite si rincroceranno dieci anni dopo, nel 1991, quando l’ex Avanguardia Nazionale (al tempo titolare di un’agenzia di riscossione in Sicilia), uscito per l’ennesima volta dal carcere per la ricettazione di alcune opere d’arte, deciderà di mettersi in contatto con Gioè per il recupero di alcuni crediti.

Entro poco tempo, siamo all’incirca nel marzo del ’92 (quindi prima della strage di Capaci), comincerà a nascere, proprio grazie all’intermediazione tra Bellini e Gioè, la prima delle tre trattative intavolate dallo Stato con la mafia, avente come protagonista il Nucleo Tutela Patrimonio Artistico dei Carabinieri.

La finalità di questa trattativa era il recupero di alcune opere d’arte rubate in cambio di benefici carcerari per alcuni boss “storici”.
Ennesima coincidenza: il 6 marzo del 1992, un amico di Paolo Bellini di nome Elio Ciolini (anche lui militante della destra extraparlamentare), scriverà al giudice Leonardo Grassi la seguente lettera: "Nuova strategia [della] tensione in Italia - periodo: marzo-luglio 1992.

Nel periodo marzo-luglio di quest'anno avverranno fatti intesi a destabilizzare l'ordine pubblico come esplosioni dinamitarde intese a colpire quelle persone "comuni" in luoghi pubblici, sequestro ed eventuale "omicidio" di esponente politico Psi, Pci, Dc, sequestro ed eventuale "omicidio" del futuro presidente della Repubblica. Tutto questo è stato deciso a Zagabria - Yu[goslavia] - (settembre '91) nel quadro di un "riordinamento politico" della destra europea e in Italia è inteso ad un nuovo ordine "generale" con i relativi vantaggi economico finanziari (già in corso) dei responsabili di questo nuovo ordine deviato massonico politico culturale, attualmente basato sulla commercializzazione degli stupefacenti. La "storia" si ripete: dopo quasi quindici anni ci sarà un ritorno alle strategie omicide per conseguire i loro intenti falliti."


Scrive il giornalista Torrealta nel suo libro “La Trattativa”: “Letto con gli occhi di oggi il contenuto di questa lettera è impressionante. Il periodo di attuazione della strategia (marzo-luglio) copre esattamente lo stesso arco di tempo nel quale furono uccisi il senatore Lima (il 12 marzo), il dottor Falcone e la sua scorta (23 maggio) e il dottor Borsellino e la sua scorta (19 luglio). Gli obiettivi della strategia individuati negli esponenti politici della Dc e del Psi e nel futuro presidente della Repubblica trovano oggi conferma nelle testimonianze di diversi collaboratori di giustizia secondo i quali l'onorevole Lima [ex sindaco della città di Palermo], rappresentante in Sicilia della corrente del senatore Giulio Andreotti (all'epoca ritenuto il "futuro presidente della Repubblica") venne ucciso anche per ostacolare la candidatura di Andreotti alla presidenza della Repubblica”.

Escludendo la palla di cristallo come fonte, è ipotizzabile che le informazioni rivelate da Ciolini provengano del tutto, o almeno in parte, dallo stesso Bellini (tutti e due hanno vantato un’appartenenza a Servizi esteri) ?

In attesa di un’improbabile risposta, passiamo avanti. Passiamo all’ennesimo comunicato della Falange Armata. E’ l’11 luglio 1992: l’Italia è sull’orlo del baratro, la Lira è sotto il feroce attacco speculativo dei mercati e il governo Amato ha cominciato ad adottare misure drastiche per far si che l’Italia non esca dal Sistema monetario europeo (come poi invece fece nel settembre di quello stesso anno). E’ l’11 luglio 1992, e la Falange Armata chiama l’agenzia di stampa Adnkronos: "Preso atto delle reiterate azioni di disturbo e di delegittimazione, quando non di basso e vile sciacallaggio a nome della Falange Armata, nonché dell’uso falso, spregiudicato e strumentale che della nostra organizzazione trovano spesso gioco, scopo, tornaconto di fare; posto che gravi e drammatiche iniziative strategiche l’organizzazione si accinge nuovamente a intraprendere, riteniamo essere cosa utile e prudente quella di fornirvi di un codice di riconoscimento dal quale, al fine di accertare l’autenticità di eventuali azioni o rivendicazioni, saranno da oggi in avanti immancabilmente preceduti. Il codice è il seguente: Falange armata 763321".
Ennesimo dato curioso. Il 22 aprile del 1992, viene presentata al parlamento la relazione finale della Commissione stragi: documento in cui si parlerà di Gladio come una struttura “illegittima”. E’ questo il “vile sciacallaggio” a cui si riferisce la Falange?

Forse.

L’unica certezza è che il 19 luglio alle ore 18:15, arriva una nuova telefonata, questa volta all’agenzia Ansa di Torino: "Buona sera, qui Falange armata, codice di riconoscimento 763321, confermiamo il testo breve di poco fa alla sede palermitana dell’Ansa riguardante l’azione di questo pomeriggio in via Autonomia siciliana ai danni del giudice Borsellino".

“Via Autonomia siciliana”.

La grossolana “imprecisione” relativa al luogo dell’attentato in realtà non è altro che un abile mascheramento di un messaggio ad un ignoto destinatario: via d’Amelio infatti è una strada secondaria proprio di via dell’Autonomia Siciliana, indicata tra l’altro da molte agenzie di stampa, nei minuti immediatamente successivi all’attentato, come luogo dell’esplosione dell’infame autobomba. Il messaggio invece è una chiara allusione ai piani secessionisti coltivati da Cosa Nostra e soci.

Piani secessionisti che Cosa Nostra ha sempre mantenuto vivi fin dai tempi immediatamente successivi allo sbarco degli alleati in Sicilia; uno sbarco, riuscito anche grazie all’appoggio e alle preziose “consulenze” di Cosa Nostra.

Come segno di gratitudine, l’OSS (il vecchio acronimo della CIA) chiamerà il suo gruppo di agenti in Sicilia “il cerchio della mafia”.
Tornando alla nascita dei piani secessionisti coltivati da Cosa Nostra e dalle leghe centro-meridionali, non si può non sottolineare un dato di primaria importanza: il progetto separatista indicato dall’inchiesta “Sistemi criminali”, nasce in realtà al di fuori dei confini nazionali.

Estratto dal libro “1994” dei giornalisti Grimaldi e Scalettari: “Queste aspirazioni separatiste non nascono dal nulla. [...] Nel 1989, all'indomani della caduta del muro di Berlino, il Club 1001 - il "comitato centrale" dell'oligarchia mondiale [costituito dal cofondatore del gruppo Bilderberg Bernardo dei Paesi Bassi e] presieduto da Filippo d'Edimburgo - affidò a uno dei suoi membri, l'industriale olandese Alfred H. Heineken (il magnate della birra), uno "studio di fattibilità" del progetto di smembramento degli Stati nazionali europei. Nel progetto, noto come Eurotopia, frutto di anni intensi di studio e discussioni con lo storico e agente del Sis (servizio segreto britannico) Cyril Northcote Parkinson, oggi scomparso, Heineken suddivideva l'Europa in 75 mini-Stati. In questa topografia non esistono più paesi come Francia, Germania, Italia. Li sostituiscono territori con un minimo di cinque e un massimo di dieci milioni di abitanti: "il fatto è che la gente si vuole identificare di più con il proprio paese e i governi si devono avvicinare alle esigenze della società reale. E com'è possibile farlo in Stati di cinquanta o sessanta milioni di abitanti? Guardate cosa sta succedendo in Iugoslavia" sottolinea il magnate della birra ancora nel 1992. E infatti il suo progetto prevede, tra gli altri, alcuni fatti che puntualmente si avverano: l'Albania guadagnerebbe il Kosovo (processo in fase avanzata di realizzazione); Croazia, Serbia, Macedonia e Bosnia-Erzegovina diventerebbero nazioni indipendenti (fatto che si è realizzato). Secondo lo studio di Heineken, l'Italia andava divisa in otto staterelli. Insomma, in Eurotopia il Nord Italia avrebbe dovuto far parte della galassia degli staterelli dell'Europa centrale e il Sud Italia essere risucchiato nel terzo mondo. Un progetto ridicolo? Forse. Fatto sta che a Heineken i potenti del momento hanno espresso un interessato apprezzamento: il presidente [Herbert Walker] Bush ha risposto che Eurotopia è un'idea "innovativa e intrigante" mentre Bill Clinton e Henry Kissinger gli hanno fatto i complimenti. Per quanto riguarda l'Italia si può parlare di un progetto forse delirante, ma che in molti hanno preso sul serio”.

Scrive l’ex magistrato Carlo Palermo nel suo libro “Il quarto livello”: “A cinque anni di distanza [dall’ideazione di Eurotopia], il progetto in questione veniva in sostanza recepito nel progetto del leghista Speroni, nel 1994 ministro delle Riforme istituzionali. Le differenze erano minime: il progetto Speroni aggiungeva un nono stato, formato dalla capitale e modificava i due stati nel Sud aggiungendo la Basilicata nello Stato composto da Puglia e Molise. […]. Heineken non solo è il proprietario dell'omonima multinazionale produttrice di birra, ma è anche membro del consiglio d'amministrazione della ABN, una delle più grandi banche olandesi”.

E’ questo il motivo per cui Via D’Amelio, come del resto Capaci, si può tranquillamente definire una vera e propria “strage di stati” e lobbies collegati ad essi.

Partiamo da Capaci.

Che la strage del 23 maggio 1992 avesse "trasceso i confini nazionali", ne era convinto perfino il ministro degli Interni del tempo Vincenzo Scotti. Il 18 giugno di quell’anno dirà infatti che "il tipo di delitto, il modo in cui è stato preparato, le tecniche che sono state usate […] tutto punta verso una matrice non esclusivamente siciliana"(5).

Un’ipotesi che sembra trovare conferme anche all’interno di Cosa Nostra. Sempre secondo le preziose ricostruzioni del boss Giuffrè, "Falcone era diventato un nemico non solo della Cupola italiana, ma anche di quella americana"(6).

Ci sono anche alcuni riscontri oggettivi. Scrive il giornalista Salvo Palazzolo nel suo libro “I pezzi mancanti”: "Il 23 maggio, il giorno della strage Falcone, [una delle utenze telefoniche nelle disponibilità del boss altofontese Gioè] [...] chiama più volte un'utenza americana, del Minnesota, 001-612-777469**: alle 15.17, per 40 secondi; alle 15.38, per 23 secondi; alle 15.43, per 522 secondi. Le indagini non sono mai riuscite ad accertare il reale destinatario e il perché di quelle chiamate negli Stati Uniti".

La vicinanza tra CIA e la cupola americana è testimoniata dalla famigerata “Operazione Mangusta”: una mostruosità nata nei primi anni ’60 che metteva sotto lo stesso "tetto" estremisti, mafiosi, ed esuli cubani pronti a qualsiasi tipo d'azione per rovesciare il regime di Fidel Castro a Cuba.

Quella CIA che a detta del generale Gerardo Serravalle è stata la principale fonte di finanziamento di Gladio. Gladio, per inciso, è stata l’ultima inchiesta “formale” di Giovanni Falcone.

Il giudice palermitano, prima di approdare a Roma (nel marzo del ’91) come Direttore Generale degli Affari Penali al ministero di Grazia e Giustizia, si era interessato ai risvolti siciliani della struttura clandestina gestita dai Servizi; il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco prima (come testimonia lo stesso diario di Falcone) e Cosa Nostra con i suoi progetti mortali poi, gli impediranno di portare avanti l’inchiesta.

Va ricordato inoltre che nei mesi precedenti alla strage di Capaci per Falcone si stava prospettando la nomina di Procuratore Nazionale Antimafia alla neonata “Superprocura” (la Direzione Nazionale Antimafia). Addirittura, in certi ambienti s’ipotizzava un’improbabile candidatura del giudice come Ministro degli Interni. La sinistra DC (composta dai politici del calibro di Nicola Mancino e Calogero Mannino), come testimonia il libro scritto dalla giornalista Sandra Bonsanti “Il grande gioco del potere”, non aveva preso bene quest’ultimo scenario in quanto vedeva dietro al giudice una mossa politica del PSI il cui unico scopo era quello di appropriarsi di un ministero che storicamente, dal dopo guerra in poi, era sempre stato sotto la guida della DC; e se l’ambizione separatista di Cosa Nostra è la principale chiave di lettura per intravedere la matrice straniera nelle stragi di mafia, l’arrivo di Falcone nei palazzi ministeriali è quella che ci permette di scorgere quella italiana. “Manine” e “manone” distinte che forse (dato il nemico comune fronteggiato durante la Guerra Fredda), in un apparente paradosso, si sono incrociate anche in queste vicende di sangue.

Un esempio che chiarifica questa contraddizione, che in realtà contraddizione non è, viene fornito da Giovanni Galloni (deputato DC ed ex vicepresidente del CSM) ai microfoni di Rai News 24 nel luglio del 2005: “I servizi deviati italiani non sono servizi deviati, sono servizi di persone, che in buona fede, ritenevano che stante la stretta alleanza che avevamo con l’America, su alcune questioni delicate, dovevano rispondere prima ai loro colleghi americani della CIA e non al governo italiano”.

Non è un caso infatti che alcuni politici democristiani, come ad esempio Vittorio Sbardella (intimo della corrente andreottiana della destra DC), fossero a conoscenza di strane manovre a livello internazionale.

Vai alla 2a parte.

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Autore Albero
Redazione
Inviato: 2/2/2014 19:21  Aggiornato: 2/2/2014 19:21
Webmaster
Iscritto: 8/3/2004
Da:
Inviati: 19594
 Re: Perché non si può dire la Verità (1a parte)
Perfavore, non commentate qui.

Postate TUTTI i commenti alla fine della 2a parte.

Grazie.


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