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spettatore:
Open source? Una volta si chiamava "condivisione" !
No. E' diverso.
Il concetto di "sorgente aperta" è un'evoluzione di "condivisione", nel senso che VA' AL DI LA' della condivisione come la intendiamo nel senso comune.
Ed è nello stesso tempo una scommessa, perché superare il concetto di condivisione (portandolo oltre, appunto)
non è detto che funzioni. E se non dovesse funzionare c'è il rischio di produrre qualcosa d'altro che è diverso dalla condivisione sia in bene che in male (per adesso comunque l'esperimento
funziona!!).
Mi permetto una digressione, che metto a disposizione di chi ne vuole sapere di più.
Forse, se si capisce
bene il concetto rivoluzionario e ordinato di open source (e magari quello altrettanto rivoluzionario ma più libertario di "free software", software libero, cui accenna Dusty nel primo capoverso), si capisce quanto potenziale ci sia nell'Open Source, sia rispetto alla "condivisione" delle idee (collaborazione comunitaria) che alla "scopiazzatura" delle idee (il modo in cui le idee tracimano la comunità e si spargono nel mondo).
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In informatichese "sorgente" è al maschile ("il codice sorgente").
Cioè la programmazione ordinata in un software, un "programma", che può essere ispezionata, modificata, corretta, riutilizzata
da altri programmatori per migliorare il software originale o per creare altro software a partire da quello.
Sembra banale: da una buona idea nascono altre idee, giusto?
No. In informatica vige la regola di rendere "opaco" il software, in modo che un programmatore diverso dal creatore si trovi davanti un "labirinto" di codice incomprensibile e non possa né alterarlo, né riutilizzarlo, neanche capire come e perché il software faccia quello che fa (e neanche "cosa" fa, nel senso di funzioni nascoste e magari maligne, come nei virus). Si chiama software "a sorgente chiuso" o più comunemente "proprietario".
Ed è stata la norma del software, da quando i computer sono usciti dai costosissimi centri di calcolo militari, universitari e industriali e sono approdati alle case e piccole aziende.
Programmare è faticoso, e per remunerarlo bisogna venderlo. Cosa che (apparentemente) non si può fare se qualunque altro programmatore può rifare lo stesso a partire dall'idea originale.
Software "proprietario" dunque, che posso duplicare (come sappiamo benissimo) ma ritrovandomi
illegale utilizzatore, perseguibile.
Tuttavia, programmare è anche
divertente, e i programmatori adorano scambiarsi le idee, pavoneggiarsi, lavorare su progetti ambiziosi e fuori portata del singolo. E ficcanasare nei progetti altrui, per correggerli, prendere a prestito idee, o anche solo saperne di più.
Soprattutto nelle università, l'ambiente della programmazione è vitalissimo. Data l'immaterialità del software, la sua infinita riutilizzabilità, spesso la
inutilità pratica immediata (intanto lo fò, poi si vede se serve a qualcosa) è normale non pensarlo con un "cartellino del prezzo" attaccato.
I programmatori sono in sostanza dei bambinoni geniali che pasticciano col Lego delle Potenzialità, sperimentali come i chimici, liberi di volare alto come i matematici.
Potete immaginare quanto stretta gli stia l'imposizione di limiti.
Eppure... il denaro, il rientro d'investimento, il diritto a vedere ripagata la fatica...
Tutto ragionevolissimo. E quindi anche nelle università cominciavano a girare (ereditati dall'industria informatica) gli equivalenti del "brevetto", della "attribuzione di paternità", della "proprietà intellettuale", dei "patti di non divulgazione".
Software chiuso, proprietario. Questa era la strada. Così va il mondo. Ed è l'unico modo.
Poi un uomo ha levato la sua voce e ha detto: NO.Era Richard Stallman. Il Profeta. Che disse che il software dev'essere libero.
Come Lutero con le sue 95 tesi, Stallman enunciò le 4 libertà che deve avere il software:
- Libertà di eseguire [far funzionare] il programma per qualsiasi scopo [anche diverso da quello voluto dal creatore]
- Libertà di studiare il programma e modificarlo [sorgente aperto]
- Libertà di ridistribuire copie del programma in modo da aiutare il prossimo.
- Libertà di migliorare il programma e di distribuirne pubblicamente i miglioramenti, in modo tale che tutta la comunità ne tragga beneficio.
Ma... e i soldi?Nella
licenza GPL (grande invenzione di Stallman & soci) che correda legalmente il software libero, non è probito vendere il software. Ma il primo compratore riceverà col software anche l'obbligo (legalmente riconosciuto) di permettere che altri abbiano lo stesso programma gratis.
Follia?
No: io ingaggio un programmatore per farmi fare un software che mi serve, ne ricavo dei vantaggi che mi ripagano della spesa e nello stesso tempo sono pioniere e permetto che altri fruiscano del mio investimento. Ho l'innovazione ma non la
preziosa esclusiva sull'innovazione.
Mi manca il "valore aggiunto" dell'esclusiva, che rende così pantagruelicamente vantaggioso il software proprietario: creo il software, e milioni di $ dopo essermi ripagato le spese di creazione, ho ancora davanti milioni di $ di fatturato
a costi di produzione zero.
L'economia del Free Software rinuncia programmaticamente ai guadagni che
potrebbe generare.
Per un capitalista "classico" questa è una bestemmia.
Per un programmatore è irrilevante. C'è talmente tanto nuovo software da pensare e creare; c'è tanta necessità di lui per modificare e adattare alle più diverse esigenze il software esistente; c'è bisogno di lui
anche solo per manutenere l'ordinaria amministrazione e il supporto tecnico di software già installato; che le sue fonti di guadagno non sono a rischio di estinzione.
L'economia Free Software taglia fuori l'intermediario.L'azienda paga bene i servizi che riceve eppure li paga una frazione rispetto al software proprietario.
I produttori di computer e accessori vendono di più perché senza il costo delle licenze software fare una scelta d'acquisto è una decisione più a cuor leggero (e magari compro una macchina "più" di quella minima indispensabile).
Chi ci rimette sono Bill Gates e la sua Microsoft, la Apple, la Adobe (di Photoshop) e in generale tutti quelli che non vendono
servizi informatici ma solo "diritti d'uso". Che si vedono limare (per ora di poco) le percentuali di vendita.
Ma mica spariscono! Sono solo costrette a una competizione agguerrita. Il vero fautore del Free Software non ha niente contro l'industria informatica: è l'industria che si trova in difficoltà quando le sue tattiche monopolistiche di
impedire l'uso di Free Software (o il libero uso del software closed source) si manifestano come
limitazioni alla libertà che l'utente vuole avere di farci il cacchio che vuole colla macchina e col software che ha a disposizione (e spesso ha pagato).
Non c'è bisogno di dire che Stallman e il movimento del Free Software furono definiti comunista, anarchico, velleitario, leftist, nemico del progresso, e chi più ne ha più ne metta.
E che la propaganda-contro creò una spaccatura all'interno del movimento: nacque il movimento dell'Open Source. Che in pratica si accontenta della
seconda legge di Stallman (il sorgente deve rimanere aperto e ispezionabile) e glissa sulle problematiche della redistribuzione libera e della modificazione e riutilizzo del software.
Tuttavia adotta la Licenza GPL come modello-base.
All'atto pratico, un software libero e un software Open Source sono virtualmente indistinguibili, anche nella libertà di uso e riuso, ma gli Open Source non si pronunciano sulle parti "scomode" (tipo le robe di aiutare il prossimo e la comunità, bleah!).
L'ipocrisia paga: il software Open Source è combattuto industrialmente ma non politicamente, riceve cattiva stampa (da chi campa con le inserzioni dei colossi dell'informatica), ma è "politically correct" e sta conquistando sempre più utenti e aziende.
Quello che conta, ai fini del topic, è che la rinuncia al proprietarismo si dimostra percorribile dal punto di vista economico, funzionale, di innovazione, di "caos produttivo".E anche politicamente, in modo limitato: gli adepti dell'Open Source condividono la filosofia di Stallman nei fatti e nello spirito che li anima.
Solo che non aiutano
gli utenti a rendersi conto dei vantaggi del modo di pensare e agire del Free Software.
La scommessa è che non ci sia
bisogno di rivendicare le libertà per fruirne.
Una scommessa che per ora è minoritaria (il software free/open source copre circa il 7% del mercato) ma vincente (le percentuali sono in crescita ormai da anni).
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La "condivisione" comunitaria è limitata alle
élite di informatici, non diffusa neanche fra chi il software lo usa quotidianamente.
Ma è la condivisione di uno spirito, di un'etica, che oltrepassano la comunità come la pensiamo noi (villaggio, città) ed è una condivisione che vive nella comunità degli spiriti affini, ovunque essi si trovino.Nell'estensione del concetto di Open Source fuori dall'informatica, è auspicabile che ci sia dietro il potenziale "eversivo" di volere il bene
non del mio vicino e amico, ma dello sconosciuto che non incontrarò mai.
Quindi, sì: è condivisione, ma l'aiutare il mio prossimo è spersonalizzato.
Non è il calore del "contatto vero", l'emotività dell'empatia.
Non devo per forza essere "buono", devo essere soprattutto convinto della razionalità della mia scelta di condividere le conoscenze.
Ed è una scommessa della Madonna!