Citazione:
Se i soldi li crei a debito rubi ricchezza alle generazioni future, "Sposti ricchezza dalle generazioni future al quelle odierne" non la CREI.
Se i soldi li crei senza debito prendi ricchezza dalle moneti esistenti, quindi la sposti da un gruppo di persone ed aziende ad un altro.
Non è lo Stato a creare ricchezza sono gli attori economici.
Il pasticcere , lo chef , le aziende.
Lo Stato da "Soldi", OK , ebbene quei soldi il valore lo prendono o da un lato o dall'altro.
a proposito di debito pubblico e dal momento che a perspicace piace tanto riportare brani di libri, ve ne riporto anche io uno
(ma giuro che è l'ultima volta )
da qui:
http://temi.repubblica.it/micromega-online/oltre-lausterita-un-ebook-gratuito-per-capire-la-crisi/e-book gratuito,
vabbè che sappiamo che i perspicace i soldi ce li ha...
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1. Natura del debito pubblico
(di R. Ciccone)
1.1 Che cos’è il debito pubblico?
Il debito pubblico è il debito che il settore pubblico di un paese contrae nei confronti
di soggetti ad esso esterni (famiglie, imprese, istituzioni finanziarie). Lo stock di debito al
quale si fa generalmente riferimento consiste di titoli a breve, medio e lungo termine, e non
include invece altre forme di debito (ad es. i debiti verso fornitori). L’emissione di debito
pubblico ha lo scopo di procurare al settore pubblico mezzi di pagamento necessari a
finanziare il deficit pubblico, e cioè l’eccesso di spesa pubblica (inclusi gli interessi sul
debito) rispetto alle entrate dello stesso settore pubblico.
1.2 Il debito pubblico è un debito della nazione?
Circa il debito pubblico sono frequenti dei fraintendimenti relativi alla sua natura.
Uno tra i più diffusi è quello per cui il debito pubblico costituirebbe un debito della
nazione.
E invece il debito pubblico è un debito di una parte della collettività verso la
restante parte della stessa collettività, per cui la nazione non è né più né meno indebitata
per effetto dell’emissione di debito pubblico (rinviamo al par. 1.5 il caso di debito pubblico
detenuto da soggetti esteri, che è un po’ più complicato ma, come si vedrà, non introduce
differenze sostanziali rispetto a quanto testè detto). Perciò l’analogia, talvolta evocata, tra il
debito pubblico e il debito di una famiglia non è corretta: se l’analogia ammissibile sarebbe
quella con il debito di un componente della famiglia verso un altro componente, ad es. del
figlio verso il padre: è evidente che non avrebbe senso dire che la famiglia in quanto tale
sarebbe indebitata.
Da ciò segue che per il settore privato i titoli del debito pubblico da esso posseduti
formano parte della sua ricchezza. La ricchezza del settore privato aggregato (incluse le
istituzioni finanziarie) è infatti così composta (lasciando da parte i rapporti con l’estero):
Ricchezza del settore privato:
Capitale reale (immobili, attrezzature produttive)
Titoli del debito pubblico
Moneta
Un più elevato stock di debito pubblico implica pertanto una maggiore dimensione
della ricchezza privata costituita da titoli pubblici. A parità di ogni altra condizione,
pertanto, un maggiore ammontare di debito pubblico comporterebbe un maggiore
ammontare di ricchezza complessiva per il settore privato. La questione che a questo
riguardo si pone, allora, è se uno stock più elevato di debito pubblico possa effettivamente
accrescere la ricchezza privata complessiva, o se invece la quota di questa che sia detenuta
nella forma di titoli pubblici vada necessariamente ad assorbire ricchezza che avrebbe
altrimenti preso altre forme (e in particolare la forma di capitale reale): di ciò si tratterà
più avanti, nel par. 2.2.
1.3 Il debito pubblico è un onere a carico delle future generazioni?
Un altro argomento spesso avanzato, e connesso a quello ora considerato, circa la
natura del debito pubblico è che quest’ultimo costituirebbe un onere a carico delle future
generazioni. Sulla base del presupposto che il debito pubblico esistente debba prima o poi
essere estinto, o quanto meno ridotto, si sostiene che le generazioni che verranno saranno
tenute a pagare maggiori imposte (o usufruire di minori servizi pubblici), onde consentire
allo Stato di accumulare gli avanzi di bilancio necessari appunto a rimborsare il suo debito.
Le imposte che ai ‘padri’ è stato consentito di non pagare, lasciando che si formasse debito
pubblico, ricadrebbero quindi sulle spalle dei ‘figli’, costretti a sopportare un più elevato
rapporto tra imposte e prestazioni pubbliche per saldare quanto i loro genitori hanno
lasciato insoluto. Questa tesi—una variante della quale è che grazie all’accumulo di debito
pubblico le generazioni passate avrebbero vissuto ‘al di sopra dei propri mezzi’,
compromettendo così il tenore di vita dei loro discendenti—attribuisce perciò alle misure
fiscali volte alla riduzione del debito pubblico un carattere di equità intergenerazionale che
dovrebbe renderle non resistibili agli occhi del pater familias.
Come si dirà nel par. 2.3, l’analisi economica non ha individuato un limite alla
dimensione del debito pubblico, oltre la quale la sua riduzione debba considerarsi
necessaria. Ma anche ammettendo che in futuro tale esigenza si ponga, e che a questo
scopo le generazioni che verranno saranno chiamate a sostenere un più elevato rapporto
tra imposte e servizi pubblici ricevuti, non è difficile vedere che nessun onere aggiuntivo
graverebbe per questo su di esse.
La ragione di ciò sta, ancora, nella natura del debito
pubblico quale componente della ricchezza del settore privato, e pertanto quale attività che
le future generazioni riceveranno in eredità dalle generazioni precedenti. Al maggior carico
fiscale che graverà su di esse (posto che il debito pubblico debba essere ridotto) si
accompagna infatti il lascito dei titoli rappresentativi del debito pubblico che verranno loro
trasmessi: la situazione patrimoniale delle generazioni successive non sarà perciò né
peggiorata, né migliorata, da un futuro rientro dal debito pubblico. (In termini tecnici, il
valore attuale delle future maggiori imposte con le quali verrebbe finanziato il servizio
(interessi + rimborso alla scadenza) di un certo ammontare di debito pubblico equivale al
valore attuale di interessi e capitale finale cui i corrispondenti titoli danno diritto.) Tra generazioni in quanto tali, dunque, nessuna redistribuzione di oneri ha luogo, in
generale, per effetto della esistenza ed eventuale estinzione del debito pubblico. Per
configurare un gravame a carico delle generazioni successive è necessario adottare l’ipotesi
particolare che i titoli del debito pubblico, anziché essere trasmessi per via ereditaria, siano
venduti dalla generazione precedente a quella successiva, per la quale l’aumento del carico
fiscale non sarebbe in tal caso compensato dalla gratuità della acquisizione dei titoli.
Questa modalità di trasmissione sarebbe però in evidente contrasto con il fatto che in
generale nelle nostre società il trasferimento intergenerazionale della ricchezza ha luogo
mediante il lascito ereditario; e, a ben riflettere, ciò non è un caso, perché l’istituto della
successione ereditaria ha la precipua finalità della conservazione della distribuzione
esistente della ricchezza tra famiglie e quindi, in ultima analisi, tra gruppi sociali. Soltanto
negando questa fondamentale circostanza istituzionale si potrebbe perciò supporre che la
ricchezza del settore privato, e quindi la quota di essa costituita da titoli pubblici, si
trasferisca da una generazione all’altra mediante compravendita—come nella ‘teoria del
ciclo vitale’, la cui validità incontra infatti in questo aspetto un limite rilevante. A riprova,
basti considerare che se, a partire da una elevata concentrazione della ricchezza, si
immaginasse che i ‘giovani’ acquistino gli asset detenuti dagli ‘anziani’ potendo utilizzare
esclusivamente redditi da lavoro, la vendita delle attività esistenti non potrebbe che essere
frazionata tra un elevato numero di ‘giovani’. La distribuzione della ricchezza si
modificherebbe rapidamente in senso egualitario, e non sarebbe osservabile l’estrema (e
crescente) disuguaglianza che invece contraddistingue le società reali.
1.4 Effetti distributivi della riduzione del debito pubblico
Naturalmente quanto fin qui detto non significa negare gli effetti redistributivi di un
aumento del carico fiscale diretto a ridurre il debito pubblico, poiché è evidente che i
soggetti colpiti dal maggior prelievo non coincideranno con i soggetti che ereditano i titoli
del debito pubblico. Ma tale questione distributiva è tutta interna alla generazione in
essere all’epoca in cui la manovra di rientro viene effettuata: le parti coinvolte sono da un
lato i gruppi sociali chiamati a pagare maggiori imposte (o ricevere minori prestazioni
pubbliche), e dall’altro i gruppi sociali la cui ricchezza comprende i titoli del debito. Il
problema si riduce perciò alla scelta di come ripartire il maggior carico fiscale sulla
collettività: un problema intragenerazionale che è eminentemente politico e che si pone
ogniqualvolta lo Stato si trovi a determinare la copertura della sua spesa. E in quanto si
tratta di un problema politico, esso è aperto a soluzioni diverse, a seconda delle quali
diversi sono gli interessi che vengono privilegiati o, invece, sacrificati. Ammantare il
rientro dal debito della (falsa) veste della equità intergenerazionale è un modo di mettere
in secondo piano, se non nascondere, il conflitto di interessi che l’operazione genera:
l’appello alla innata cura per il benessere dei propri figli ne fa una questione
imprescindibile e cattura un generalizzato consenso che rende di fatto superfluo il dibattito
politico circa le scelte da compiere.
Deve notarsi che, entro la questione distributiva posta dalla riduzione del debito
pubblico, l’aspetto forse più acuto è costituito dal finanziamento degli interessi che lo Stato
paga sul debito stesso. E, a ben vedere, un trasferimento di reddito dai gruppi sociali
tassati a quelli che percepiscono gli interessi si verifica anche per interventi che non mirino
a ridurre il debito ma si limitino a costituire, nel bilancio dello Stato, un ‘avanzo primario’
(primario = al netto degli interessi), vale a dire ridurre il deficit ad un ammontare inferiore
alla spesa per interessi, finanziando quindi con imposte una quota degli interessi stessi. La
specificità del problema distributivo che tale trasferimento alimenta è connesso alla natura
degli interessi quale puro reddito dei percettori, che non risponde ad alcuna deliberata
programmazione di utilità sociale come invece è, in linea di principio, per le altre categorie
della spesa pubblica, e al fatto che quel reddito affluisce in proporzione maggiore alle
categorie nelle quali si concentrano quote relativamente alte della ricchezza privata
complessiva, e quindi anche di titoli pubblici. In presenza di elevati livelli di debito
pubblico, e perciò di flussi consistenti di interessi, la copertura con imposte di quote
rilevanti di essi può allora produrre significativi effetti regressivi nella distribuzione dei
redditi, con conseguenze negative sia sul piano economico che sul piano sociale. Questo
fenomeno, alla dimensione del quale concorrerebbe evidentemente l’altezza dei tassi
d’interesse sul debito, e quindi il regime di politica monetaria operante, rappresenta il
problema forse più serio che l’accumulazione di debito pubblico può generare, ove si
proceda ad una eventuale riduzione o stabilizzazione del suo ammontare.
1.5 Il debito pubblico detenuto da soggetti esteri
Veniamo ora al debito pubblico che sia nelle mani di soggetti esteri. Talvolta si
afferma che il debito detenuto all’estero, diversamente dal debito interno, costituirebbe un
debito della nazione nel suo complesso, in quanto in tal caso i creditori non appartengono
alla medesima comunità del debitore. Questo argomento trascura il fatto che la
sottoscrizione o l’acquisto di titoli da parte di non residenti rientra nella categoria dei
cosiddetti ‘movimenti di capitale’, che per loro stessa natura non alterano la posizione del
paese nei confronti dell’estero. Per il paese emittente la vendita di titoli a operatori
stranieri comporta infatti una corrispondente entrata di valuta estera, che lascia invariato
il saldo tra crediti e debiti nei confronti del resto del mondo, come qui di seguito
schematizzato con riferimento ad una ipotetica vendita di titoli pubblici per un ammontare
di 100:
Attività e passività verso l’estero
Attività Passività
Riserve di valuta Titoli del debito pubblico
estera +100 collocati all’estero +100
Supponendo che si tratti del collocamento di titoli di nuova emissione,
consideriamo l’operazione nella prospettiva del Tesoro che ha emesso i titoli stessi. Il
Tesoro riceve l’equivalente di 100 in valuta estera, che viene convertita in valuta nazionale
mediante cessione alla Banca Centrale, la quale acquista la valuta estera emettendo 100 di
valuta nazionale. Disaggregando il conto del Tesoro e quello della Banca Centrale, le
variazioni nelle rispettive attività e passività sarebbero quindi le seguenti:
Banca Centrale Tesoro
Attività Passività Attività Passività
Valuta estera +100 Moneta Moneta Debito
nazionale +100 nazionale +100 pubblico + 100
Il Tesoro è allora in grado di usare 100 di moneta nazionale per finanziare la spesa
pubblica. Risulta così che, all’interno del paese, il finanziamento del deficit pubblico
mediante la vendita di titoli all’estero equivale ad un finanziamento presso la Banca
Centrale e corrispondente emissione di moneta da parte di questa. Nel caso considerato il
Tesoro paga però sui suoi titoli l’interesse di mercato, mentre la Banca Centrale lucra il
rendimento delle attività fruttifere nelle quali è libera di impiegare la valuta estera che ha
acquistato al costo zero della moneta nazionale emessa in contropartita.
Corrispondentemente a quanto vale per i due flussi di capitale, nei confronti dell’estero
l’operazione genera quindi un flusso di interessi in uscita e un flusso di interessi in entrata,
il cui saldo potrà essere positivo, negativo o nullo a seconda della differenza tra il tasso
d’interesse che il Tesoro paga sul debito collocato all’estero e il tasso di rendimento delle
attività acquistate dalla Banca Centrale.
Per il paese nel suo complesso non vi è dunque ragione di ritenere che l’operazione
debba risolversi in un peggioramento, piuttosto che un miglioramento, dei conti verso
l’estero. Nel confronto con un finanziamento diretto del debito pubblico da parte della
Banca Centrale, che, come si è detto, sarebbe del tutto equivalente nei suoi effetti sul piano
interno, l’operazione stessa risulta però particolarmente inefficiente dal punto di vista del
Tesoro, e quindi, si potrebbe dire, dell’interesse collettivo. Essa combina infatti il
medesimo aumento della quantità di moneta interna che si avrebbe con il finanziamento
presso la Banca Centrale (ove questo non fosse impedito da vincoli istituzionali, quali
quelli vigenti nell’area euro), con un costo per interessi a tassi presumibilmente maggiori
di quelli che la Banca Centrale applicherebbe al Tesoro. Il maggior onere si ridurrebbe, fino
eventualmente ad azzerarsi, nella misura in cui la Banca Centrale trasferisse al Tesoro
l’eccedenza del lucro che essa realizza dall’operazione rispetto al tasso di interesse
applicabile ai suoi impieghi a favore del Tesoro; ma resta che, ai fini del finanziamento del
deficit di bilancio, nonché del controllo dell’offerta di moneta, non vi sarebbe alcuna
ragione per preferire il collocamento di titoli pubblici all’estero piuttosto che presso la
Banca Centrale. Con specifico riguardo alla zona euro, queste considerazioni si aggiungono
ai dubbi che per altre, anche più importanti, ragioni si possono nutrire circa la sensatezza
del divieto di qualsiasi finanziamento diretto dei Governi da parte della Banca Centrale
Europea
Abbiamo prima sottolineato che la vendita o il collocamento all’estero di titoli del
debito pubblico non genera un debito della nazione, in quanto ha in contropartita una
equivalente entrata di valuta estera che mantiene invariate le attività nette sull’estero del
Paese.
Naturalmente, se accadesse che la valuta estera così acquisita fosse utilizzata per
finanziare una eccedenza delle importazioni sulle esportazioni, e cioè un saldo negativo
della bilancia commerciale, quella attività sull’estero scomparirebbe dal bilancio del Paese
(e specificamente della Banca Centrale), e il debito pubblico esterno resterebbe quale
debito della nazione. Dovrebbe però essere evidente che la causa dell’indebitamento della
nazione non starebbe nel debito pubblico collocato all’estero, ma appunto nel deficit
commerciale del Paese. In presenza di un deficit della bilancia commerciale quel debito si
sarebbe infatti prodotto anche qualora il bilancio pubblico fosse stato in pareggio: in quel
caso esso avrebbe assunto una forma diversa, ad es. debito nei confronti del Fondo
Monetario Internazionale, ma sarebbe comunque esistito. Nel caso in cui il deficit del
bilancio pubblico, con collocamento di titoli all’estero, si accompagnasse ad un disavanzo
della bilancia commerciale, il debito verso l’estero generato dal disavanzo commerciale si
sovrapporrebbe al collocamento estero del debito pubblico e ne prenderebbe la forma, ma
la sua causa starebbe comunque nell’eccesso delle importazioni sulle esportazioni.
Torneremo su questo punto nel par. 1.7.
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