LE BUGIE SUL FISCAL COMPACT DEL PARTITO UNICO DEI POPULISTI SPENDACCIONIAnche in occasione del dibattito sulle mozioni presentate alla Camera, i 5 Stelle (ma, seppur con toni mille volte più civili, anche Forza Italia, la Lega Nord, Fratelli d’Italia e SEL) hanno continuato a fare autentico terrorismo, affermando che, con il Fiscal Compact, l’Italia dovrà varare nei prossimi 20 anni manovre recessive da 50 miliardi l’anno in ossequio al piano di rientro del debito sino al 60% del PIL.
Prima di mettere a nudo l’infondatezza e la strumentalità di simili asserzioni, volutamente ripetute all’infinito, secondo i principi della propaganda più disinibita, tali per cui una falsità detta mille volte diventa per lo meno una mezza verità, mettiamo a fuoco le due cose chiedono le regole del fiscal compact.
La prima: il “pareggio di bilancio”, che poi in realtà è un meno “equilibrio di bilancio”, con possibilità di fare deficit fino allo 0,5% del PIL e anche oltre, in caso di cicli economici negativi, posto che la condizione di equilibrio va verificata correggendo il dato economico del bilancio per tenere conto appunto del ciclo economico e avendo riguardo al soddisfacimento dell’equilibrio sul medio periodo e non sul singolo anno finanziario.
La seconda: il rientro nei prossimi vent’anni, in misura pari ad un ventesimo all’anno, dell’eccedenza di rapporto tra debito pubblico e PIL rispetto ad un rapporto, giudicato target ottimale di solidità finanziaria, del 60%.
Per un Paese come l’Italia, che, a differenza di molti altri, non ha mai chiuso un bilancio in pareggio in tutta la sua storia e che, ininterrottamente dal 1992, ha un rapporto tra debito e PIL stabilmente e abbondantemente superiore al 100%, non vi è dubbio che si tratta di due regole che richiedono un cambiamento profondo a livello culturale prima ancora che finanziario.
Contro la prima regola, quella del pareggio di bilancio, si scagliano:
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da un lato, coloro che ritengono che la crescita economica non possa prescindere da iniezioni di spesa non solo abbondanti, anzi sovrabbondanti rispetto alle entrate e quindi generatrici di indispensabile deficit;
- dall’altro, coloro che, pur avendo una visione meno visceralmente statalista dell’economia, denunciano come queste politiche possano essere adottate magari più avanti, ma non ora, in una fase congiunturale di crisi, perché la aggravano, laddove invece politiche di spesa anticicliche la allevierebbero. Non vi è dubbio che la spesa anche a costo di far esplodere il deficit aiuti a far crescere il PIL, ma questo non necessariamente coincide con il far crescere l’economia.
Proprio l’esperienza dell’Italia dovrebbe insegnare qualcosa: dal 2000 al 2011, la spesa pubblica al netto degli interessi passivi è cresciuta in termini nominali di 243 miliardi e pure il PIL, così ben irrorato ogni anno di più, è cresciuto in termini nominali di 355 miliardi.
Peccato che gran parte di quella crescita era di carta, creata non con l’efficienza dei processi e l’ammodernamento dello Stato, ma appunto solo con la spesa.
E alla fine, allo scoppiare della crisi, l’unica cosa che rimane di questo modo di fare che si vorrebbe continuare a perpetrare come se nulla fosse, è il maggiore debito di 551 miliardi generatosi in quell ’arco di tempo, mentre, proprio la natura artefatta e artificiosa della crescita, è stata completamente spazzata via e il livello della nostra economia reale è tornato a quello di quindici anni fa.
Noi difendiamo la regola del pareggio di bilancio.
La difendiamo perché vogliamo consegnare ai nostri figli:
- non un Paese indebitato oltre l’osso del collo e inefficiente, perché chi c ’era prima di loro si è seduto comodamente sulla possibilità di mantenere il proprio tenore di vita attraverso una gestione della spesa che rinvia alle generazioni successive il prezzo delle decisioni di cui non vogliamo farci carico noi,
- ma un Paese solido ed efficiente, perché riformatosi, in modo anche radicale laddove necessario, per poter vivere nel massimo benessere possibile data la sua capacità effettiva di produrre e distribuire ricchezza.Siamo perfettamente consapevoli che non è la via più facile e che è anzi due volte più difficile chiedere ed ottenere consenso su questi principi, soprattutto quando intorno a noi si moltiplicano le sirene di coloro che, quanto criticano gli speculatori finanziari, tanto non esitano a rendersi speculatori politici altrettanto spregiudicati.
Lo sappiamo, ma non ci spaventa.
A chi cerca la scorciatoia del deficit e del debito per ricominciare a fare quello che ha sempre fatto, portando il Paese sull’orlo del baratro, così come a chi, affacciatosi soltanto ora sulla scena politica, non ha altra idea nuova per il Paese che tornare a governarlo con le logiche vecchie che solo a parole contesta, noi rispondiamo e risponderemo sempre con l’intransigenza sulle riforme strutturali che costituiscono la vera risposta per trovare già in questi saldi di bilancio spazi di crescita economica e di redistribuzione della ricchezza che sono enormi.
Dopodiché, rimane chiaro che siamo noi per primi convinti che, quando si tratta di fenomeni complessi come indiscutibilmente sono quelli macroeconomici, la rigidità è una caratteristica ottima nell’approccio che si deve avere quando si tratta di rispettare una regola, mentre è una caratteristica pessima quando riguarda direttamente la regola in se stessa.
Una maggiore flessibilità, ad esempio per quel che concerne la spesa per investimenti, quando suscettibile di incidere in modo misurabile e individuabile a breve termine sulla crescita, merita senz’altro di essere richiesta nelle competenti sedi europee.
Non sbattendo i pugni, come si sente ridicolmente dire da chi evidentemente ha un concetto delle relazioni internazionali in stile osteria, bensì con argomentazioni puntuali, tanto meglio se portate avanti da persone che godono di oggettivo prestigio internazionale, piuttosto che da buffoni oramai screditati oppure orgogliosamente patentati come tali.
Veniamo ora alla seconda regola del fiscal compact: quella del piano ventennale di rientro dal debito per quei Paesi, Italia in testa purtroppo, che si collocano sopra l’asticella del 60% rispetto al PIL.
Abbiamo evidenziato all’inizio di queste nostre riflessioni come le forze di opposizione non si facciano scrupolo di affermare che, per effetto di questa regola, l’Italia dovrà necessariamente patire manovre recessive di aggiustamento dei conti da 40 – 50 miliardi di euro ogni anno per vent’anni.
Il loro “ragionamento” è presto spiegato: siccome il nostro debito pubblico italiano ammonta a poco più di 2.000 miliardi ed è pari a più del 120% del PIL, portarlo al 60% significa più che dimezzarlo, ossia ridurlo di 1.000 miliardi, che, a botte di un ventesimo alla volta, fa appunto 50 miliardi all’anno.
Se le cose stessero effettivamente così, credo che non esisterebbe al mondo nessuno così cretino da poter ritenere il fiscal compact una regola meno che suicida.
Il punto per ò è che arrivare non solo a dire queste cose in modo concitato in un comizio, ma addirittura a scriverle in mozioni parlamentari, dopo, si presume, avervi pure ragionato sopra, è veramente qualcosa che lascia esterrefatti.
Viene da chiedersi se si tratta di ignoranza crassa o propaganda bieca, ma la risposta è che probabilmente (e drammaticamente) si tratta di entrambe le cose insieme.
Perché?
Perché il piano di rientro, che per l’Italia vuol dire dimezzamento, non riguarda il debito, ma il rapport tra debito e PIL.
In altre parole, se il contenimento del deficit ferma le dinamiche di crescita di anno in anno del debito, il rispetto del piano di rientro può essere interamente assicurato da aumenti del PIL, senza per altro necessità che si tratti di aumenti spettacolari.
Già bastano i tassi di crescita nominale e reale tutt’altro che da primato mondiale messi in conto nell’ultimo aggiornamento del DEF per i prossimi anni.
Pareggio di bilancio – con una negoziazione finalizzata ad aumentare la flessibilità di una regola che comunque già prevede dei meccanismi che la correggono per tenere conto del ciclo economico e delle poste di bilancio una tantum – e tanta determinazione nel fare quelle riforme strutturali che servono per liberare spazi qualitativi di efficienza sui saldi attuali di bilancio, recuperando risorse che non solo non rendano necessario aumentare la spesa, ma consentano anzi di ridurla per ridurre parallelamente la pressione fiscale su cittadini e imprese.
Questa è la politica del futuro e per costruire un futuro, almeno quanto quella di chi guarda al deficit come unico strumento di crescita è la politica del passato e per lasciare uguale ad esso il presente.
In tutto questo, l’Europa non può essere vissuta come una controparte innaturale, ma come il contesto naturale.
Chiudo con un’ultima riflessione.
Se oggi, nella sofferenza generale di tutto il Paese, le parti di esso che soffrono di più sono quelle più produttive, quelle dove ancora adesso la ricchezza prodotta è largamente superiore alle risorse che lo Stato restituisce, è proprio perché queste parti produttive si trovano strette nella tenaglia tra un’Italia in cui troppo spesso la solidarietà viene concessa senza pretendere responsabilità e un’Europa in cui invece la solidarietà implica accettazione di responsabilità.
Queste parti del Paese non sono da intendersi solo in una accezione geografica, ma in modo assai più trasversale a società e categorie.
Noi non crediamo che il futuro di queste parti d’Italia – e, con esse, di tutto il resto del Paese – passi attraverso il rigetto di regole europee sicuramente perfettibili, ma condivisibili sin dai presupposti culturali che le determinano.
Noi crediamo invece che il futuro passi semmai attraverso la capacità di assimilare e fare nostre queste regole fanche nei rapporti tra aree del Paese nel nome di un vero federalismo, tra categorie di cittadini nel nome di una vera lotta alla corruzione nel settore pubblico e all’evasione fiscale nel settore privato, tra padri e figli nel nome di una vera comunità nazionale dove ciascuno vive per ciò che produce e non lascia a chi viene dopo il conto da pagare per ciò che non ha voluto o non ha avuto il coraggio di fare.