Informazioni sul sito
Se vuoi aiutare LUOGOCOMUNE

HOMEPAGE
INFORMAZIONI
SUL SITO
MAPPA DEL SITO

SITE INFO

SEZIONE
11 Settembre
Questo sito utilizza cookies. Continuando la navigazione acconsenti al loro impiego.
 American Moon

Il nuovo documentario
di Massimo Mazzucco
 Login
Nome utente:

Password:


Hai perso la password?

Registrati ora!
 Menu principale
 Cerca nel sito

Ricerca avanzata

TUTTI I DVD DI LUOGOCOMUNE IN OFFERTA SPECIALE

ATTENZIONE: Chiunque voglia scrivere su Luogocomune è pregato di leggere prima QUESTO AVVISO (aggiornato 01.11.07)



Indice del forum Luogocomune
   Religioni & Spiritualità
  Saggio sull'invidia

Naviga in questo forum:   1 Utenti anonimi

 

 Vai alla fine   Discussione precedente   Discussione successiva
  •  Vota discussione
      Vota questa discussione
      Eccellente
      Buona
      Discreta
      Scadente
      Terribile
Autore Discussione Votata:  1 Voti
  •  alteo
      alteo
Saggio sull'invidia
#1
So tutto
Iscritto il: 2/1/2009
Da Lodi
Messaggi: 1
Offline
SAGGIO SULL‘INVIDIA

Prima di trattare la tematica dell’invidia si rende necessario contestualizzarla fra i vizi capitali di cui fa parte, onde farne risaltare analogie e differenze. Secondo la lettura teologica i vizi capitali sono scelte deliberate di violare l’ordine morale sancito da Dio; costituiscono un porsi cosciente contro la sua volontà. Ora, se Dio vuole il bene, porsi contro di lui significa voler il male, incorrendo così nel castigo conseguente alla colpa. Per la teologia il vizio è quindi principalmente una colpa verso un’entità a noi esterna, Dio, e dall’esterno ci verrà pure la condanna.
Non è questo il luogo dove discutere di teologia; sta di fatto, però, che il sentirci in colpa nei confronti di un altro ci distoglie dall’approfondire i risvolti psicologici della colpa, che si possono cogliere solo considerando innanzitutto il vizio come una colpa verso noi stessi o, se vogliamo usare il linguaggio di certa psicologia ad orientamento spirituale, verso la nostra anima. Siccome qui si vuole indagare sulle motivazioni profonde che inducono l’uomo a scegliere il vizio piuttosto che la virtù, prendo in considerazione solo l’aspetto del vizio come colpa verso noi stessi: il vizio come malattia morale.

Come la malattia fisica affligge differenti parti del corpo, così la malattia morale intacca differenti aspetti della nostra psiche, da cui i sette vizi capitali, cui ai nostri tempi qualcuno ne ha aggiunto anche altri. Però è anche vero che, come le varie malattie fisiche derivano da uno stato di disordine all’ interno dell’organismo, così è un disordine psichico a generare in noi la propensione ai vizi. Metaforicamente parlando i vizi sono come i rami di un albero: sono diversi, sebbene abbiano un’unica radice. La saggezza popolare individua questa radice nell’ozio, facendolo padre dei vizi. Ma l’ozio, a ben vedere, non è una causa bensì conseguenza di uno stato psichico. L’ozioso è inattivo, inoperoso, è avverso all’azione, tende all’inerzia, all’immobilismo; non si anima ad agire, e potremmo quindi dire che non è in contatto con la sua anima intesa come la forza che spinge all’azione. Ora, dato che la causa fondamentale che ci fa agire è la ricerca della felicità, non è motivato all’azione chi sente che la felicità è distante dalla sua vita o, quanto meno, che è vicina alla sua vita non la felicità che nasce dalla gioia, ma solo quella che nasce dal piacere, una felicità piccola, effimera, in grado quindi di animare l’uomo solo per ottenere cose piccole e che appagano solo per poco tempo. A ben vedere è dunque l’ accidia la madre dei vizi.

Se una è la radice dei vizi, cionondimeno ciascuno di essi ha una sua specificità; e più specifico di tutti pare essere il vizio dell’invidia. Ciò, infatti, che più la differenzia dagli altri vizi è il fatto che, mentre questi mirano a dare felicità, l’invidia, al contrario, vorrebbe sottrarre felicità. Più specificamente: negli altri vizi si vuole ottener qualcosa di gratificante per sé, nell’invidia si vuole che l’altro perda qualcosa perché così divenga più infelice. Negli altri vizi l’attenzione è tutta rivolta verso noi stessi: siamo noi il soggetto da gratificare. Anche in vizi quali la lussuria o l’ira non si esce dalla sfera del proprio io, perché l’altro o è un semplice mezzo per realizzare il proprio piacere, come è il caso della lussuria, o è solo un agente del male che opera contro di noi, nel caso dell’ ira. Si tratta di un altro che ci mette in relazione col lato della vita relativo all’avere, dal quale cioè è esclusa la ricerca del significato dell’esistenza. La lussuria dà piacere, non significato – a meno che uno identifichi il significato col piacere - ; nell’ira ci si anima per difendere ciò che si possiede non per dare significato a ciò che si possiede. Nell’invidia l’attenzione è invece rivolta all’ altro. Non ci si preoccupa della propria felicità, ma di quella dell‘altro. L’invidioso non si chiede come fare ad essere felice, come fa chi segue gli altri vizi, ma: “perchè l’altro è felice?”. L’altro costringe l’invidioso ad interrogarsi sulla felicità e, dato che essa costituisce il fine della vita, sul senso della vita stessa. E’ per questo che mi sento quindi di dire che l’invidia è il più filosofico dei vizi.

La malattia morale indotta dagli altri vizi è dovuta al fatto che hanno una concezione molto limitata della felicità, giacchè la intendono soltanto in termini materialistici: come avere, non come essere. Ora, quanto più si è attaccati all’avere, tanto più si sente il bisogno di circoscrivere, delimitare il posseduto, finendo cosi per rinchiudere la vita dentro quei munitissimi confini che il bisogno di possedere ha eretto. Se, come dice Freud, ogni affezione psichica è un tentativo imperfetto di guarigione, possiamo ben dire che i vizi capitali (salvo l’invidia) sono anch’essi tali : cercano di guarire la nostra infelicità col surrogato di essa che è il piacere.

Nonostante, io sottolinei il carattere filosofico dell’invidia non mi nascondo certo il fatto che essa pure sia una malattia dell’ anima. Il carattere filosofico dell’invidia non implica certo che l’invidioso sia più profondo di chi è preda di altri vizi; semplicemente essi spingono l’uomo ad agire - a parte l’accidia di cui parleremmo dopo – mentre l’invidia lo tormenta nel pensiero riproponendogli l’interrogativo del perchè l’altro sia più felice di lui. Per il principio di compensazione psichica chi segue gli altri vizi, proprio perchè è troppo concentrato su se stesso, ha bisogno di far entrare nella sua vita il mondo esterno attraverso il piacere che può fornirgli; l’invidioso, invece, che è ossessionato dall’altro, reagisce a questo squilibrio con l’introversione, tenendosi per sè la sua malevolenza. Dei vizi capitali infatti è il meno confessabile. L’ostilità verso l’altro che c’è nell’invidia è difficilmente giustificabile anche da noi stessi. L’ostilità dell’ira ce la possiamo giustificare come reazione a quella altrui; quella dell’invidia no. L’altro che invidiamo può non averci fatto niente di male, magari neppure sa che lo detestiamo. Di quale colpa si è macchiato allora? Di quella di essere più fortunato, più felice di noi. L’invidioso si sente bruciare non dal desiderio di qualche gratificazione, ma dal bisogno di trovare risposta alla domanda: “ che diritto ha l’ altro di essere più felice di me”.
L’altro con cui l’invidioso entra in competizione per la felicità è soprattutto quello che l’invidioso sente più simile a lui o, con ancora più accanimento, inferiore a lui. Brucia di più, infatti, sentirsi sconfitti da chi ci è pari o, ancor peggio, da chi pensiamo inferiori, perchè abbiamo la sensazione che la loro vittoria non sia dovuta tanto a doti personali, ma sia stata favorita da una volontà divina o, per chi non è credente, dal caso. In entrambe le ipotesi, comunque, l’invidioso vede all’opera un ingiusto atto discriminatorio nei suoi confronti, che lo porta a nutrire risentimento non solo verso chi invidia, ma verso la vita stessa, colpevole di essere ingiusta. Credo quindi che a rendere l’invidia meno confessabile degli altri vizi sia anche la sua radice nichilista, che la rende troppo temibile al nostro istinto di conservazione.

Certo che, se veramente nella vita non agisse un principio di giustizia, l’invidioso non avrebbe tutti i torti ad avercela con lei. Sarebbe più che giustificato a non amarla, perchè il vero amore non è mai disgiunto dall’etica, come insegna la grande tradizione filosofica, laddove afferma che il bene, meta cui tende l’etica, e l’amore coincidono. Per l’invidioso la vita è ingiusta quindi non riesce ad amarla e, di conseguenza, nemmeno ad essere felice. In assenza della felicità, tutti noi, in misura maggiore o minore, siamo preda dall’invidia, perchè è proprio dell’infelice dolersi dell’altrui felicità. A ben vedere, però l’invidioso non ce l’ha tanto con la felicità di per sè, ma con chi, a suo giudizio è felice senza merito.
Nessuno fra tutti i vizi ha un senso così forte della giustizia – ovviamente della giustizia per come l’intende l’invidioso – e ciò e ben comprensibile, perchè quando c’è da dividere un bene come la felicità chi accetterebbe, senza recriminare, di averne meno di un altro? L’invidioso non riesce a non chiedersi quali meriti abbia l’altro per avere ciò che lui vorrebbe ma non ha. Potrebbe accettare questa disparità di trattamento solo se sentisse che non è arbitraria, ma rispondente a criteri di giustizia. Per l’invidioso anche le doti intellettive o fisiche non costituiscono motivo di merito per avere di più, anzi sono un possesso del quale egli chiede giustificazione. Tutto ciò che abbiamo può diventare motivo di malevolenza per l’invidioso. In ciò è da riconoscere anche un lato positivo all’invidia, poichè svolge una funzione di critica verso coloro che si rapportano alla vita secondo le modalità dell’ avere. Si potrebbe dire che l’invidia è ostile all’avere perchè vuole che l’uomo si risvegli all’essere, a quello stato di ricchezza interiore che non deriva da ciò che la vita ci ha dato; non è prodotto dall’esterno, ma nasce dall’interno; non è attaccamento alle cose,come l’avere, ma distacco.
L’invidioso non detesta chi vive secondo l’essere perchè ciò che lo infastidisce è infatti il pensiero che uno tragga felicità dall’avere certe cose, non certo la constatazione che uno possa essere felice indipendentemente da ciò che possiede. Questo ci fa anche capire che l’invidia è molto più diffusa nella società odierna che in quelle del passato dove, fortunatamente, accanto ai valori materiale dell’ avere, c’erano anche quelli dell’essere, come il coraggio, l’onore, il sacrificarsi per ciò in cui si crede, ecc. Ed effettivamente è difficile invidiare i coraggiosi, chi e disposto a mettere a repentaglio la vita pur di salvare l’onore – come avveniva nel duello – i martiri, ecc.

Ci si potrebbe chiedere: “Ma che ne sa l’invidioso se un altro ha diritto o no ad avere determinate cose? Forse che lui sa cos’è giusto e cosa no? “. Domande legittime! E infatti ritengo che la superbia giochi un ruolo non secondario nell’invidia. L’invidioso è talmente turbato dalla felicità altrui che subito sente il bisogno di giudicare se è meritata o no, prima ancora di essersi chiesto qual è la sua conoscenza e levatura morale per emettere giudizi. Ma tant’è : l’ invidioso non brilla certo per essere umile! Egli si sente ferito dalla vita perchè, nel distribuire la felicità, non lo ha trattato in modo equo, dandone di più a chi, a suo avviso, non la meritava. La vita lo ha ferito; lui vuole ferirla a sua volta, privandola della sua forza che si manifesta nella felicità: vuole spegnere la vita in modo che essa, avendo meno felicità da dare, abbia meno opportunità di compiere ingiustizie. L’invidioso non si sente colpevole della sua invidia perchè la ritiene una legittima reazione all’ingiustizia della vita. Per lui la vita è moralmente ammalata perchè ingiusta, quindi la guarigione si configura per lui come lotta contro la vita. Ciò che favorisce la vita, come la felicità, viene visto negativamente dall’invidioso, mentre vede positivamente ciò che sottrae vigore alla vita, cioè l’infelicità nelle sue varie manifestazioni. Il suo ideale di felicità è quello espresso dal detto popolare “ mal comune, mezzo gaudio”. C’è una logica in questo paradossale connubio di male e gaudio: anche per l’invidioso la felicità nasce dall’amore che, a sua volta, è possibile solo se volto all’innalzamento morale. Ora, dato che per l’invidioso la vita è immorale perchè ingiusta, solo chi si pone contro la pienezza della vita, sta dalla parte della giustizia, ed è per tanto nelle condizioni di nutrire un vero amore che, paradossalmente, rende, in una certa misura, felice anche l’invidioso.

C’è da rilevare che tutti i vizi propongono, a guarigione dell’infelicità, una felicità superficiale ed effimera. La felicità può essere piena solo se provata da tutto il nostro essere. Ora, chi è preda di un vizio, lo è perchè è capace di sintonizzarsi solo con una parte del suo essere, per cui non può che aspirare ad una felicità parziale. Nello specifico, l’invidioso è in grado di sintonizzarsi con una percezione molto parziale della giustizia; prova diffidenza verso la vita nella sua pienezza poichè reputa la vita stessa ingiusta; la accetta solo quando viene ridimensionata dall’infelicità. Certo, la sua fissa per la giustizia lo spinge a rapportarsi con l’altro e a cercare nel legame con lui la chiave della felicità, tuttavia il legame che ricerca è con una vita esterna umiliata nella sua pienezza dall’infelicità: “il mal comune” non può dare che una piccola felicità, “mezzo gaudio”.

A questo punto non ci si può non chiedere se, oltre alla guarigione imperfetta dall’infelicità, perseguita dai vizi, ne esista una che si avvicini ad una felicità più completa. Io credo di si. Dico credo, perchè la felicità, come tutti i sentimenti, non può essere compresa dal lato oggettivo del nostro essere (la mente), ma solo da quella soggettivo. Non è cioè un oggetto che possiamo fare nostro grazie alla potenza insita nella logica del pensiero tecno-scientifico, ma è qualcosa che può sgorgare solo dal nostro interno. Il problema di chi sostiene che nella vita ci sia la felicità è la presenza del male, che pare guastare la vita, tanto che finiamo per percepirla come una sorta di malata cronica e inguaribile. Ma se la vita stessa è malata, figuriamoci se noi possiamo aspirare a una guarigione dall’infelicità, che vada oltre ai surrogati della felicità concessici dai nostri vizi. Se si ritiene che il male sia male e basta, e che inoltre sia inestirpabile, non c’è, a rigor di logica, possibilità alcuna di autentica guarigione. In tale ipotesi, i vizi dovrebbero essere considerati quasi delle virtù, perchè sarebbero l’unico rimedio al male di vivere, Fortunatamente nei confronti del male esiste anche un altro sentimento che si ritrova ad esempio nel concetto di manzoniana memoria di “Provvida sventura”, cioè la fiducia che perfino – e forse soprattutto – il male sia al servizio del bene. Secondo tale ipotesi, la vita è retta dal principio del bene che, come detto, coincide con l’amore e la felicità, ed è reso possibile dal principio etico della giustizia.
Certo che è difficile accettare che il male possa essere al servizio del bene; ma, forse, potremmo trovarlo ragionevole se ci chiedessimo chi è il soggetto che giudica se una cosa avviene per il bene o per il male. Ad esempio per il goloso, che si identifica con le sue papille gustative, un pranzo sontuoso è considerato un bene; il suo fegato probabilmente lo giudicherebbe un male, un invidioso può sentire come male che un altro sia più felice di lui; se però accadesse che si sentisse più realizzato e quindi felice, magari non sentirebbe più come male la felicità dell’altro. In somma, quando ci identifichiamo con una piccola parte della vita –le papille gustative, invece che la salute e la vitalità del corpo; con una felicità piccola piuttosto che con una grande- anche i criteri con cui giudicheremo il bene e il male saranno piccoli e gretti. Ora siccome una piccola vita non può fare che progetti esistenziali piccoli, e siccome la capacità di comprendere non può andare oltre l’apertura del nostro progetto esistenziale, chi si identifica con una vita piccola ha, per ciò stesso, una piccola capacità di comprendere, che gli precluderà di cogliere il senso con cui opera la vita. A parere della grande tradizione filosofica esso consiste nel vivere più secondo la modalità dell’essere che dell‘avere.
Il maestro spirituale francese, Satprem, rinchiuso in un lager nazista per avere partecipato alla resistenza in Francia, disse che proprio lì per la prima volta conobbe una gioia profonda. Disse che, proprio perchè gli era stato sottratto tutto ciò che aveva, perfino il diritto all’avere il bene più importante, cioè il corpo, si risvegliò in lui la percezione dell’essere e della felicità che esso apporta.

Ma veramente il vivere secondo la modalità dell’essere può darci quella felicità capace di immunizzarci dall’invidia? Nessuno può dimostrarcelo: siamo noi a doverlo verificare. E qui purtroppo un altro vizio, l’accidia, entra in gioco a sostegno dell’invidia. L’invidioso manca della volontà di darsi da fare attivamente per raggiungere la felicità. E come la volpe della favola, che non riuscendo a raggiungere l’uva, la lascia perdere raccontando a se stessa la menzogna che è acerba, così l’invidioso, per non impegnarsi ad essere felice, si autoinganna, dicendosi che non può avere di più di quel che ha. Quando però vede che uno, che per qualità e capacità ritiene uguale o inferiore a se, ha ciò che lui vorrebbe avere e non ha, è costretto a prendere atto che ha mentito a se stesso: anche lui potrebbe avere potenzialmente quelle cose, solo che l’accidia gli sottrae la determinazione per passare dalla potenza all’atto. Ma ogni diminuzione di potenza – ci insegna Spinoza – è anche una sottrazione di essere. La felicità altrui ferisce l’invidioso perchè lo costringe a fare i conti con se stesso, cosa che per la sua accidia vorrebbe evitare. Egli preferisce fare i conti agli altri piuttosto che prendere atto di quello che è il suo essere profondo. L’invidioso, purtroppo, non crede, o crede poco, alla gioia nascosta nel fondo del nostro essere. Si ostina ad aspettarsi la felicità non da se stesso ma dall’ esterno, non capendo che è il dare a rendere felice, più che il ricevere.

Dopo tanta infelicità c’è da sperare che l’invidioso la smetta di occuparsi degli altri e si volga verso se stesso, mettendo come posta nel gioco dell’esistenza la sua vita. Certo che ciò fa paura, perchè nel gioco possiamo anche perdere e farci male. Ma “chi non rischia non rosica” – dice il proverbio – cui fanno eco più dottamente Hoelderlin, laddove afferma che “dove c’è il pericolo cresce anche la salvezza”; San Giovanni della croce, che sottolinea che nel cammino verso il bene, Dio, bisogna passare attraverso “ la noche oscura” etc.

Nessuno può dirci se il male sia veramente al servizio del bene se non lo verifichiamo da noi. La strada verso la luce può essere intrapresa solo dal guerriero. Così le grandi tradizioni spirituali. La guarigione dai vizi – per chi la crede possibile – ci chiede quindi di armarci di coraggio per uscire dalla nostra piccola vita, per andare verso la grande vita. Ad una piccola vita si addicono piccoli progetti esistenziali, un vivere – per dirla con Nietzsche – “con una vogliuzza per il giorno e una per la notte, ferma restando la salute”: il terreno di coltura ideale per i vizi. E’ solo situandoci in una vita più grande che anche i nostri progetti esistenziali diverranno più grandi. Lì non ci sarà più spazio per i vizi, non perchè li reprimeremo, ma semplicemente perchè chi vive una vita più grande, desidera anche qualcosa di più grande.
Inviato il: 2/1/2009 17:15
Crea PDF dal messaggio Stampa
Vai all'inizio
 Vai all'inizio   Discussione precedente   Discussione successiva

 


 Non puoi inviare messaggi.
 Puoi vedere le discussioni.
 Non puoi rispondere.
 Non puoi modificare.
 Non puoi cancellare.
 Non puoi aggiungere sondaggi.
 Non puoi votare.
 Non puoi allegare files.
 Non puoi inviare messaggi senza approvazione.

Powered by XOOPS 2.0 © 2001-2003 The XOOPS Project
Sponsor: Vorresti creare un sito web? Prova adesso con EditArea.   In cooperazione con Amazon.it   theme design: PHP-PROXIMA