Re: Il rifiuto della comunità.

Inviato da  prealbe il 8/9/2007 11:35:57
Guglielmo
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Citazione:
“… il tratto distintivo di una comunità è, a quanto pare, l'esistenza tra i suoi membri di elementi significativi in comune e, sulla base di questi, di vincoli reciproci. Nonché, questo lo aggiungo io, di interferenza continua tra di essi , trattandosi di un contesto di interazione.[…]

E, fin qui, nulla da dire. Ma non ritengo che sia una prerogativa della comunità. Anche l'uso delle automobili, nelle società contemporanee, rappresenta un "elemento significativo in comune" tra i cittadini. Per giunta, è un elemento che costruisce "vincoli reciproci" (di mercato, di legislazione, ecc.). E non mi dirai che non esiste, tra questo e altri elementi della "modernità" (ad esempio, i poliziotti), una "interferenza continua".

Questi non sono tratti distintivi di una comunità. Sono tratti distintivi di qualunque forma di collettività organizzata, in qualunque modo, in qualunque punto del pianeta. Come tali, appartengono anche al presente, non solo al passato. Si formano, peraltro, in modo del tutto spontaneo, e basta leggere qualcosa di psicologia sociale dei gruppi per rendersene conto.

Qui, mi viene un po’ da piangere. Sbaglierò io a non usare un linguaggio “oggettivo”, a non precisare sempre fino ai minimi termini, vabbé: però, secondo me, pure certe osservazioni...

Dal punto di vista oggettivo (e impersonale) gli elementi che ci accomunano sono virtualmente infiniti: usiamo la macchina, guardiamo la televisione, andiamo al cinema, beviamo bibite confezionate, possediamo il telefonino, tifiamo la stessa squadra, condividiamo un’ideale politico, seguiamo la stessa religione, ecc. ecc.

Ma la significatività individuale, soggettiva di tutti questi fattori come “elemento in comune” sussiste? Neanche per sogno. Non solo: è addirittura certo che molti di tali elementi non siano neanche colti dall’individuo come proprie caratteristiche specifiche (non fanno parte dell’immagine del sé che l’individuo si rappresenta). E anche fra quelle che percepirà, alcune saranno considerate effettiva espressione di sé (e quindi coinvolgenti, “calde”, oggetto di attenzione, elemento di identificazione – o di divergenza più o meno sostanziale - col proprio prossimo), altre saranno considerate puramente accidentali (e quindi non coinvolgenti, “fredde”, sostanzialmente ignorate, inutili ai fini dell’investimento emotivo nei confronti dell’altro da sé).

Per tornare all’uso della macchina: io personalmente non mi sento minimamente affratellato agli altri automobilisti d’Italia e del mondo per la condivisione dello stesso tipo di mezzo di trasporto. Non lo considero affatto un elemento qualificante a livello personale. Non mi dice sostanzialmente nulla sull’individuo che, come me, viaggia in automobile. Qualcuno qui invece la pensa diversamente? Si sente significativamente rappresentato dal temine “automobilista”?

Spero che adesso sia più chiaro cosa intendo per “elemento significativo in comune”: “soggettivamente riconosciuto come significativo”.

Discorso analogo sui vincoli reciproci e sull’interferenza continua. Non si parla dell’aspetto oggettivo della questione ma del suo aspetto interiore, del coinvolgimento soggettivo e profondo dell’individuo in tali questioni. Ecco, la discriminante tra la realtà attuale e quella comunitaria risiede precisamente in questo diverso coinvolgimento, oggi quasi assente e un tempo profondissimo, nel proprio contesto sociale.

Mi stupisce anche un po’ che, da psicologo, tu non abbia colto questo senso in quanto ho scritto.

Citazione:
Quand'è che una "folla" diventa una "comunità"? In cosa si sostanzia il substrato comune di cui sopra?Citazione:
“… Esso sarà, naturalmente, di ordine sia pratico sia, soprattutto - dato che il contesto è umano - emotivo (1), e tale da consentire ai propri membri lo specchiamento reciproco, di riconoscere cioè sé stessi negli altri; in caso contrario l'individuo si troverebbe circondato da entità che, facendo riferimento a sistemi di significato ignoti, sarebbero per lui semplicemente incomprensibili e con cui un'interazione articolata sarebbe quindi impossibile.
Ora, questa proposizione contiene una contraddizione, a mio modo di vedere. Se l'ordine è "soprattutto emotivo", il rispecchiamento reciproco è già presente. Le emozioni sono sisteni complessi di espressione e dir egolazione reciproca, filogeneticamente determinati e invarianti ripetto alla cultura. Le cinque emozioni di base (gioia, rabbia paura, sorpresa e tristezza) sono presenti in qualunque essere umano, non sono apprese (come dimostrato dal fatto che vengono esibite anche da bambini nati ciechi e sordi) e servono egregiamente a segnalare lo stato emotivo dell'interlocutore.
Appartenendo tutti alla stessa specie, che lo vogliamo o no, facciamo riferimento solo a significati noti, e comuni.
Già m'immagino la spietata critica che mi colpirà: "...ma io facevo riferimento a sistemi di significato, non a sistemi biologici o psicologici". Io sostengo che sarebbe bene fare un passo indietro, prendere quel che di effettivamente comune esiste tra gli esseri umani e utilizzarlo per costruire, invece di partire da connotazioni astratte altamente formalizzate e costringere gli esseri umani ad entrarci dentro.

Aaaahhhh, ce rifai?!? Allora insisti!!!

Guglielmo, la “spietata critica” non c’è bisogno che te la faccia io: te la fa la realtà. Se l’uomo fosse così intrinsecamente indipendente dai sistemi culturali, se essi fossero così sostanzialmente ininfluenti su di lui, se sussistesse l’automatica e straordinaria concordia di interpretazione della realtà che professi (nomen omen ) non avremmo la variegatissima serie di visioni (interpretazioni) del mondo - le più diverse - che hanno accompagnato e tuttora accompagnano i differenti gruppi umani.

Di più. Se tu sostieni “che bisognerebbe fare un passo indietro, prendere quel che di effettivamente comune… ecc. ecc.” ciò significa che evidentemente altri (io di sicuro, ma anche molti altri e in modi molto disparati) la pensano diversamente, invalidando automaticamente la tua tesi del “facciamo riferimento solo a significati noti e comuni” (che infatti, consentimi, non sta né in cielo né in terra!).

Citazione:
Ti dirò di più. Lo "specchiamento reciproco" non mi importa affatto. Continuare a vedere negli altri null'altro che parti di se stesso alla lunga annoia mortalmente. Non è solo il nostro apparato percettivo a nutrirsi di differenze. Anche la nostra mente, privata di differenze, scompare.

Guglielmo!!! Basta!!! Ti metto una nota!!!

Possiamo smetterla di incespicare nel “senso letterale” delle espressioni? Per favore.

"Specchiamento reciproco" non significa che nell’altro riconosco precisamente me stesso come se si trattasse di un mio ologramma, non annulla la specificità individuale e non è assolutamente “vedere negli altri null'altro che parti di se stesso”. E’, semmai, riconoscere nell’altro da sé tratti di affinità sostanziale, base per la possibilità di un interesse reciproco e di uno scambio. Naturalmente tale riconoscimento è favorito dalla condivisione di schemi espressivi e comportamentali ed ostacolato - fino all’impedimento pratico - dalla discordanza degli stessi.

Citazione:
Citazione:
“… Viceversa, quanto più si pone l'accento sulla distinzione (3) tra sé stessi e la propria comunità, cioè gli altri suoi membri, tanto più si diluisce l'intensità - e quindi la profondità - del rapporto, con tutte le conseguenze del caso. Chi sostiene la prevalenza della "libertà del singolo" rispetto alla comunità e definisce quest'ultima come "feticcio", sta solo dichiarando la propria profonda incapacità di pensare un rapporto di identificazione forte con l'altro da sé. ...


E qui sono obbligato a ricorrere al dizionario della lingua italiana...

………………………..(Definizioni varie – NdR)…………………

Se le parole non sono un'opinione, ne deduco che, attuando un processo di "identificazione forte" con l'altro esiste almeno il rischio (che per me è una certezza, ma voglio essere disponibile) di diventare identico all'altro, perfettamente uguale.
La cosa non è né possibile, né desiderabile, e penso che nemmeno il più convinto comunitarista sia disposto a rinunciare alla propria individualità.
Ma allora, questo rifiuto di identificazione forte con l'altro da sé, non - per caso - più una benedizione che una maledizione?

“Diventare identico all'altro, perfettamente uguale” è, semplicemente, al di fuori delle nostre facoltà e non mi pare affatto che anche le comunità più coese non abbiano ospitato al loro interno una assai variegata tipologia di membri, tutt’altro che cloni l’uno dell’altro, come la letteratura di ogni tempo mi sembra testimoni inequivocabilmente, descrivendoci personalità presenti nella stesso ambito e per nulla tra loro confondibili. Per cui cerchiamo di superare finalmente questo spauracchio e andare oltre nella discussione, va bene?


Prealbe

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