Re: Il rifiuto della comunità.

Inviato da  nessuno il 22/8/2007 10:06:42
Ciao a tutti e grazie (post lungo, vi avverto) :)

Salterò un po' da uno all'altro, ma spero che il discorso sia comprensibile e cercherò di andare in ordine cronologico nelle risposte e nelle riflessioni.

Arturo, per cortesia, non prendertela così a male. A volte l'ironia (per quanto pungente) mi pare utile. E la tua lettera aperta mi è piaciuta molto.

Solo una precisazione: chi sia Bagnasco non lo so proprio. Ho citato e riportato il link a quell'articolo semplicemente perché è stato l'unico che ho trovato, in lingua italiana, che analizzasse i molteplici significati del termine "comunità" e ne tracciasse l'evoluzione nelle scienze sociologiche. Dopodiché, non mi interessa citare "autorità" a sostegno di quel che penso, perché so che, per quante autorità possa citare a mio favore, potrei sbagliarmi lo stesso su tutta la linea.

Prealbe scrive:

Citazione:
quando dici:
-citazione-
Quando sono nato io, dove sono nato io, la comunità esisteva, eccome.

anche tu, implicitamente, lo riconosca.
(Ma non sto cercando di attribuirti alcunché; se mi sbaglio, come non detto.)


Io non sostengo né che la comunità non esiste, né che non sia mai esistita. Mi pare, semplicemente, che questo termine sia poco utile nella situazione attuale. A mio modo di vedere, la comunità è una modalità di organizzazione sociale che è esistita, in molte aree del pianeta esiste tuttora, ma che non esiste nella società nella quale vivo (Europa, Italia, Lombardia, Provincia di Bergamo). E, sinceramente, ritengo sia meglio che non esista più.
E' una preferenza personale. Altri possono - legittimamente - non essere d'accordo. Inoltre, questa mia preferenza non implica che l'attuale modello di organizzazione sociale sia "più avanzato" o "più evoluto" di quello comunitario. Esistono altre zone del pianeta nelle quali il termine comunità mantiene tutto il suo senso e il suo peso, nel bene come nel male. Evidentemente, alle persone che lì abitano va bene così. Non mi piace chi cerca di "esportare la democrazia", figurati se mi piace chi cerca di "esportare la società" per sostituirla alla comunità.
Quali possono essere i vantaggi di questa modalità di esistenza? Sostanzialmente la possibilità di essere autonomi, di disporre di una maggiore ampiezza decisionale, di disporre di maggiori possibilità di evoluzione. Se vuoi, ne discutiamo più approfonditamente (ma dovremmo, a mio parere, aprire un altro thread, perché la discussione sarebbe piuttosto lunga).
Quanto al mio lavoro: il mio "apprezzamento per la cosa" ha molto poco a che vedere con la sofferenza. La sofferenza delle persone è difficile, pesante e faticosa da incontrare. Preferirei che di psicologi e psicoterapeuti non ce ne fosse bisogno e, di solito, preferisco lavorare in un'ottica preventiva piuttosto che curare chi sta male. Perché incontrare il dolore e la sofferenza dell'altro non è cosa che può lasciare indifferenti, né è materia di cui rallegrarsi. Anche quando è fonte di guadagno monetario.

Quando dici:

Citazione:
Prendendo poi spunto da quanto hai risposto ad Arturo, osservo che va benissimo il riconoscimento - ci mancherebbe! - della diversità dell’altro, ma permane la necessità, ai fini della sussistenza di un rapporto, di condividere comunque una rete di significati e codici comunicativi, in assenza della quale l’altro risulta non semplicemente “diverso” ma del tutto alieno. Io credo che in mancanza della percezione di un’affinità tra noi stessi e l’altro, ben difficilmente possa avere luogo una interazione appagante.


Cercherò di spiegare meglio perché ritengo che il riconoscimento della diversità sia prioritario, dato che mi pare il punto che risulta più oscuro a te e ad Arturo. Può essere che, semplicemente, i punti di partenza mio e vostro siano differenti. Non è detto che lo debbano essere anche le conclusioni.

Io penso che, quando nasce un essere umano, si ritrova dentro una rete di significati, codici linguistici, modelli di comunicazione, schemi di pensiero, esistenti prima di lui. In sostanza, gli “elementi comuni” sono già dati, non sono cosa da costruire. Della Citazione:
“collettività soi-disant del genere umano (e non a quella degli gnu)”
facciamo parte necessariamente fin dall’inizio. Non è un’esigenza. E’ un dato di fatto. Non è qualcosa da conquistare o da costruire. C’è già. E’ lo “sfondo” che consente alle figure di emergere e venire viste. Non ci fosse, non ci sarebbero nemmeno le figure.
Quel che è da costruire (e che viene costruito nel tempo e nello sviluppo dal bambino all’adulto) è l’individualità, non la collettività. Il come viene costruito non è di scarsa importanza. Se viene costruito male, allora si possono avere alcune conseguenze, tra le quali quella che tu citi:
Citazione:
“diversa cosa è essere concentrati e assorti sul pensiero della propria individualità e specificità, facendone più una preoccupazione e, spesso, un argomento di conflitto che semplicemente esprimendola. E la seconda opzione è quella che mi sembra più di moda”
, che è un’ottima descrizione di quelle che, nel mio lavoro, vengono chiamate personalità narcisistiche patologiche.
Quel che vedo io è che il percorso che porta dal feto all’essere umano adulto è un percorso di differenziazione, di costruzione di sé, non di identificazione e di costruzione della comunità. Il feto è parte del corpo della madre. Il bambino appena nato è separato dalla madre, ma non cosciente di esserlo. L’adulto è separato e cosciente di essere tale.
E penso che riconoscere in primo luogo la diversità dell’altro, non voglia dire trasformarlo in alieno. Significa, in primo luogo, riconoscere un dato di fatto: che, nonostante tutta la mia empatia, capacità di immedesimarmi, abilità professionale, io non saprò mai cosa significa essere un'altra persona. Le esperienze sono comunicabili, ma non trasferibili. Nonostante tutte le parole che possiamo scambiarci, io non saprò mai cosa provi quando pensi ad un colore “rosso vivo”, o quando lo vedi. Dal mio punto di vista, riconoscere questo, significa anche permettere all’altro di essere l’altro. Non confonderlo con me. Non caricarlo delle mie aspettative, delle mie ipotesi sul mondo, dei miei desideri, delle mie paure o delle mie gioie.
Questo aiuta ad essere umili (nel senso etimologico del termine, da humus, terreno; quindi “sfondo”, elemento di base che consente alle piante di crescere, terreno di coltura) e di non imporre ad altri il proprio sé, ma consentire che ognuno sviluppi il suo, come può, come crede.

Quante volte, piuttosto, l’esistenza della comunità, ha bloccato, impedito o distorto queste possibilità? Molte; soprattutto per questa ragione (che tu stesso hai citato): Citazione:
“…Investe, come ho detto, ogni aspetto dell’esistenza dei propri membri. Uno tsunami perenne, in pratica. E deve funzionare sempre…”
.
Questa mancanza di separazione tra sfere diverse dell’esistenza è esattamente il motivo per cui ritengo indesiderabile la comunità. Perché io penso che la sfera personale, la sfera sociale e la sfera politica appartengono a domini diversi dell’esistenza, e che non siano appropriati né il trasferimento di concetti dall’una all’altra, né la sovrapposizione tra di esse.
Anzi, per rispondere anche ad Arturo, la trasformazione del “diverso” in “alieno” può avvenire (e storicamente è avvenuta) proprio quando queste tre sfere di esistenza vengono sovrapposte indebitamente. Una bella analisi di questo processo, a mio parere, è contenuta nei testi di George Mosse e, in particolare, nel suo “La nazionalizzazione delle masse”, Bologna, Il Mulino, 1975.
Il rischio forte nell’utilizzo del concetto di comunità sta proprio nella sua pervasività, nel suo non lasciare spazio alla diversità. Se la comunità investe “ogni aspetto della vita dei propri membri”, allora nulla impedisce che regole relative ad un aspetto dell’esistenza vengano applicate ad altri. In particolare questo accade (è accaduto) nella commistione di scienza e religione, nel tentativo della sfera politica (in particolare di quell’espressione della sfera politica che è lo Stato) di appropriarsi di elementi propri di quella sociale e personale, nel trasferimento puro e semplice di etiche personali sul piano sociale o politico. In sostanza, in una confusione delle lingue che non mi pare abbia prodotto risultati positivi.
E provo a rispondere anche a Franco8, quando mi chiede di spiegarmi meglio. Quel che volevo dire con Citazione:
...Se, a livello sociale e personale, la discriminazione è non solo possibile, ma desiderabile (scelgo io il mio compagno o la mia compagna, scegliamo noi con chi andare in vacanza o quali sono le regole del circolo di bridge…), a livello politico non lo è affatto. E le “regole in essa vigenti”, quando si tratti di comunità politica, e non sociale, non sono esattamente “neutre”.
è che la separazione tra diverse sfere dell’esistenza umana, conseguenza della scomparsa della comunità, è positiva. In una comunità “che investe ogni aspetto della vita dei propri membri”, le opzioni relative alla sfera politica (alleanze, interessi, potere) influiscono su quella personale costringendo, ad esempio, le donne a sposare (quindi creare legami e appartenenze) determinate persone e non altre, indipendentemente dalla loro volontà. In una comunità, le opzioni relative alla sfera sociale (decido io con chi vado in vacanza, e posso legittimamente farlo, e non ci trovo nulla di strano che alcune persone decidano che nel circolo di bridge non sono ammesse le donne, o i bianchi, o gli omosessuali) possono venire trasferite alla sfera politica, con l’esclusione di determinate categorie di persone dalla possibilità di intervenire in essa.

Per ora basta, ché ho scritto anche troppo. Ma continuiamo a discuterne.

Buona vita

Guglielmo

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