Re: Il rifiuto della comunità.

Inviato da  nessuno il 21/8/2007 9:27:16
Prealbe carissimo

Nulla da eccepire su molte parti del tuo discorso. Che gli esseri umani siano capaci di immaginare cose che non esistono, e addirittura di farsi condizionare da quel che immaginano è pane quotidiano, per me. Che gli esseri umani non vivano nel vuoto, penso di averlo scritto più volte. E penso che nessuno lo metta in discussione.

Il problema, a mio modo di vedere, nasce quando trai le tue conclusioni da tutte le varie premesse e precisazioni.

Tu sostieni che: “… la comunità è l’ambito dove gli individui plasmano e vivono la loro vita e l’importanza che riveste per essi è cruciale, drammatica…”. Ora, questo è un discorso che poteva essere applicato ad una società preindustriale, ma che trovo difficile possa essere utile oggi come oggi. Quando sono nato io, dove sono nato io, la comunità esisteva, eccome. Le persone nascevano in un luogo e lì rimanevano. Nella maggior parte dei casi, proseguivano il lavoro dei loro genitori, costruivano la loro casa nello stesso paese, si sposavano con persone nate lì nei dintorni. E il peso, oltre che alcuni “vantaggi” dell’esistenza di questa comunità era notevole. Notevole, in particolare, nella difficoltà estrema di vivere la propria vita seguendo le proprie aspirazioni. In termini più “sociologici”, ho vissuto per alcuni anni in una situazione di “ruoli ascritti” e ho potuto toccare con mano la difficoltà che una situazione simile porta – inevitabilmente – con sé.
Oggi come oggi, io vedo che una persona nasce in un luogo, lavora in un altro – spesso anche molto distante – e vive (nel senso che ha una serie di relazioni, di contatti, di interazioni) in molti altri, che spesso contengono tradizioni culturali, religiose e sociali molto diverse tra di loro. Allora, un individuo “moderno”, a quale “comunità” appartiene? A quella del luogo dov’è nato? A quella del suo posto di lavoro? All’autostrada sulla quale passa il 10% del suo tempo? E il trasfertista, che viaggia da un posto all’altro del pianeta, a quale delle innumerevoli comunità si troverà ad appartenere? E lo studente che studia e vive lontano dalla sua città d’origine, appartiene alla comunità nella quale si trova a vivere? Non mi pare.
Peraltro, la cosa vale anche per i migranti. Chi arriva qui, di loro, si ritrova spesso a sentirsi vivere in una “terra di nessuno”. Non appartiene più alla comunità d’origine e – per molti almeno è così – non vorrebbe nemmeno più ritornarci. Ma non appartiene di certo alla comunità del luogo nel quale si trova a vivere.
Peraltro, in questo sradicamento continuo, io trovo più vantaggi che svantaggi.

Quando poi concludi chiedendo “chi prende le decisioni?”, fai un salto da un’accezione del termine comunità ad un altro, senza esplicitarlo. A mio parere, passi da una comunità intesa come “comunità sociale” o “comunità di pratiche” ad una comunità intesa come “comunità politica”. Ma i due ambiti non sono né sovrapponibili né utilizzabili in modo intercambiabile. Il personale, il sociale ed il politico sono ambiti diversi, che richiedono strumenti concettuali diversi. Se, a livello sociale e personale, la discriminazione è non solo possibile, ma desiderabile (scelgo io il mio compagno o la mia compagna, scegliamo noi con chi andare in vacanza o quali sono le regole del circolo di bridge…), a livello politico non lo è affatto. E le “regole in essa vigenti”, quando si tratti di comunità politica, e non sociale, non sono esattamente “neutre”.

Buona vita

Guglielmo

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