Re: Il rifiuto della comunità.

Inviato da  prealbe il 21/8/2007 0:16:05
Adesso riprendo un po’ le fila del discorso, perché mi sembra il caso.

Il tema che stiamo dibattendo richiede, per essere costruttivamente affrontato, un approccio intellettuale che faccia uso di una logica non elementare e sappia cogliere la complessità che attiene all’uomo quando si esprime nelle relazioni con altre entità (individui e non).

Cominciamo a sgombrare il campo da alcune obiezioni che sono state impropriamente sollevate.

In tempi non sospetti (1° post) ho scritto:
Citazione:
La "comunità" come entità a sé stante effettivamente non esiste. Come non esiste la "famiglia". Come non esiste la "coppia". Come non esiste il "gruppo di amici". Come non esiste nessun raggruppamento di individui a qualunque livello... di per sé stesso (cioè a prescindere dai propri membri… che scoperta, eh? ).

Questo a significare, in una forma evidentemente non chiara per tutti, che qualunque gruppo di individui si sostanzia attraverso i propri membri. A me però il concetto sembra sufficientemente inequivocabile ed esplicito da impedire a qualunque interlocutore che lo abbia letto di attribuirmi in buona fede l’idea che la “comunità” goda di un’esistenza autonoma nel senso letterale.

Veniamo al concetto di “entità”. Visto che il “linguaggio scientifico” è gradito, ne prenderò l’accezione scientifica: “Oggetto che si suppone esistente concretamente o astrattamente”. Dunque un’entità può anche essere astratta.

Ora un paio di domande propedeutiche.

“L’individuo è in grado di relazionarsi con controparti astratte?”.
Assolutamente si.

Seconda domanda: “Può un’entità astratta influenzare concretamente la vita di un individuo?”.
Nuovamente si.

Ora, io immagino che alcuni sobbalzeranno sulla sedia a fronte delle due risposte appena fornite.

Per moderare l’impatto, riformulo condensando in una sola domanda: “Un individuo può ritenere reale un’entità astratta e modulare le proprie azioni nell’ottica del rapporto che sente di avere con essa?”.
La risposta rimane affermativa.

Spero che appaia evidente come il protagonista sia inevitabilmente l’individuo, ma anche che gli effetti dell’interazione - che è tecnicamente immaginaria - sono concreti, reali, tangibili, determinando emozioni, pensieri, decisioni e azioni.

E anche che è qualcosa che non riguarda affatto la patologia mentale ma è invece un approccio assolutamente naturale e ordinario per l’uomo.

Un’altra domanda allora sarebbe: “Ma chi glielo fa fare all’individuo di inventarsi controparti astratte?”.
E la risposta è: “È fatto così. Appartiene alla sua natura.”.

Teniamo quindi presente che l’individuo vive in una realtà fatta anche di controparti astratte, percepite come assolutamente reali e con cui si relaziona continuamente.

Nutre anche altre fantasie che, sempre perché così gli piace, gli fanno travalicare psicologicamente la sua oggettiva condizione di individuo separato da tutto il resto, portandolo incomprensibilmente a considerare altre entità come un’estensione di sé. E anche, sempre nella più totale illogicità, a cogliere come entità coerenti agglomerati di parti materialmente indipendenti, senza vincolo fisico tra loro.

E di alcune di queste riesce anche, mattacchione di un mattacchione, a sentirsi parte.

Poi, percependosi ancora un po’ troppo ordinario, quasi banale direi, non si accontenta di mangiare, bere e pararsi dai ghiribizzi della meteorologia, ma vuole anche comprendere, dare un senso al contesto in cui si trova e, per sovrappiù, anche a sé stesso. Assegna dei significati, anche morali, a ciò che fa. Valuta. Giudica. Si impiccia di mille cose le più diverse. Insomma, per essere un bipede qualunque, si da parecchio da fare.

Su queste basi, un tantinello contorte e confuse, mette in piedi, pensando magari di stare facendo tutt’altro, cose piuttosto complesse ed articolate; talmente complesse ed articolate che neanche lui capisce bene cosa siano e come funzionino esattamente. (1) E ci rimane preso in mezzo.

È pure interessante notare come il singolo, quando si sente parte di qualcosa, si presti spontaneamente ad azioni che trascendono la sua sfera individuale, nel senso che vengono si compiute inevitabilmente da un individuo - nessuno si faccia venire le palpitazioni - ma in quanto parte di un insieme, in nome della sua appartenenza ad esso, senza che si evidenzi, se non molto indirettamente, alcun concreto tornaconto personale, e anzi assai più spesso con un costo individuale anche non trascurabile (fino addirittura, in casi estremi, alla perdita della vita).

Che idea si fa l’individuo del contesto in cui si trova coinvolto? È un processo piuttosto articolato. Nascendoci in mezzo (capita a ben pochi di essere tra i fondatori dell’ambaradam), il nostro eroe si trova inserito in un ambito già consolidato, in cui il lavoro di comprensione del come e perché delle cose è già stato sostanzialmente compiuto e si è fissato in un complesso di “saperi” (intellettuali e non) che è assolutamente sovraindividuale, nel senso che é il prodotto della comunità nel suo complesso e che nessun singolo membro (né gruppo di membri), pur essendone partecipe, ne possiede la cognizione completa, la “proprietà”.

Ovviamente non interessa granché, per l’ovvia irraggiungibilità dell’obiettivo, formulare un giudizio sulla correttezza o meno dei suddetti “saperi”. Quello che è importante sottolineare è che essi non sono mere nozioni intellettuali ma sono un pilastro fondamentale dell’identità degli individui che ne partecipano, ne costituiscono l’orizzonte di senso cui inevitabilmente essi fanno riferimento (anche nel caso in cui vi si oppongano). Da questo punto di vista l’individuo, benché astrattamente indipendente da tutto e tutti e solo proprietario di sé stesso, “appartiene” invece alla propria comunità, nel bene e nel male, ed esiste - non in senso fisico, è chiaro, ma identitariamente - in relazione ad essa (Ok, ok: Coramina per tutti. Pago io.).

Anche i suoi rapporti con altri singoli individui, e anche con sé stesso, la sua sfera privatissima e liberissima, sono sostanzialmente influenzati dal contesto di appartenenza; negarne l’importanza per affermare a tutti i costi l’indipendenza ed originalità assolute dell’individuo è e rimane un vuoto vezzo intellettuale: la realtà non lo conferma.

E veniamo alla vexata quaestio, la volontà collettiva.

Anche se non tutti la pensano così (e in particolare uno ), cominciamo col dire che è assolutamente ovvio che le scelte che una comunità esprime discendono dai “saperi” in essa presenti, dalla sua “identità”; e che, come singolarmente o in gruppo nessuno è assoluto “proprietario” di tale identità, allo stesso modo non può essere assoluto “proprietario” (e responsabile) di ciò che nella comunità avviene, ne fosse anche il tiranno assoluto. Se la comunità è un’entità sovraindividuale, lo è sempre, non a singhiozzo. Punto primo.

Fissiamo poi un altro aspetto che può aiutare per la comprensione del ragionamento: la comunità non è un trastullo né un’accademia filosofica né un club del golf (né una squadra di calcio, soprattutto… ). La comunità è l’ambito dove gli individui plasmano e vivono la loro vita e l’importanza che riveste per essi è cruciale, drammatica. Investe, come detto, ogni aspetto dell’esistenza dei propri membri. Uno tsunami perenne, in pratica. E deve funzionare sempre, senza interruzione, esattamente come senza interruzione i suoi componenti vivono la loro vita; diciamo che è perennemente “in servizio”.

La comunità deve quindi “agire” continuamente; e di conseguenza continuamente deve decidere, esprimere una volontà, perché tale è l’aspettativa di tutti coloro che la riconoscono come entità, all’interno e anche all’esterno di essa. Come fare?

Tempestivamente. Pragmaticamente. Con sano e appropriato realismo. E necessariamente un po’ all’ingrosso, stante la più certa che probabile impossibilità di soddisfare allo stesso tempo le infinite e particolari istanze dei suoi membri.

Si, ma chi decide?

Anche questo è semplice. Decide chi nell’ambito della comunità ha tale ruolo in base alle regole in essa vigenti. (Aaaaaaaaaaaaaaaarrrrrrrggggggggggghhhhhhhhh!!!!!!!! Oh! Avete sentito anche voi un urlo? Mi è parso che venisse da sud-est. )

Fine prima puntata.


Prealbe



1 - Anche perché spesso agisce soprappensiero, d’impulso, e poi, anche sforzandosi, non è che si ricordi esattamente perché abbia fatto una cosa piuttosto che un’altra e perché in un modo piuttosto che un altro; anche se a volte si atteggia ad intellettuale, non è che perlopiù sia poi così acuto.

P.S. 100 punti ed un grazie ad Arturo per il suo incredibile intuito.

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