L'apartheid di Israele

Inviato da  mabuse il 28/12/2006 19:43:38
Traduzione di un articolo di Jonathan Cook (Daily Star, 30 maggio 2006)

Ecco perché lo chiamano lo stato ebraico

Recentemente, approvando un effettivo bando dei matrimoni tra israeliani e palestinesi, la Corte Suprema d’Israele ha chiuso in maniera ancora più stretta i cancelli della fortezza ebrea che lo Stato d’Israele sta diventano rapidamente. La decisione dei giudici, per usare le parole di un quotidiano nazionale solitamente assai moderato, è stata “vergognosa”. La Corte Suprema, con una maggioranza risicata, ha stabilito che un emendamento, passato nel 2003 nella Legge di Nazionalità, che impediva ai palestinesi di vivere con una sposa israeliana in Israele – e che era chiamato di “unificazione familiare” – non viola i diritti basilari delle leggi nazionali [in Israele non esistono diritti costituzionali]. La Corte ha precisato che il danno causato alle famiglie separate era sovrastato dai benefici di una maggiore sicurezza. Israele, hanno concluso i giudici della Corte, era giustificata nel chiudere la porta alla residenza per tutti i palestinesi per bloccare l’ingresso di quei pochi che avrebbero potuto usare il matrimonio per lanciare attacchi terroristici [sic!]. Non essendovi principio di equità nella legge d’Israele, i gruppi per i diritti umani che avevano sfidato l’emendamento del governo d’Israele non potevano che sostenere che violasse la dignità delle famiglie. Le coppie miste di israeliani e palestinesi non sono solo impedite di vivere insieme in Israele: sono anche interdette alla vita coniugale nei Territori Occupati, dai quali i cittadini israeliani sono banditi, per via di regolamenti militari. (...) Il giudice Michael Cheshin, in una delle prime udienze, aveva suggerito che le coppie miste che volevano costituire una famiglia “andassero a vivere a Jenin” una città palestinese assediata, nella West Bank. Michael Cheshin ancora dimostra una logica per così dire al di là del mondo, quando giustifica il punto di vista della maggioranza: “dietro questa misura sta il diritto dello stato di non permettere ai residenti di uno stato [sic!] nemico di entrare nel suo territorio in periodo di guerra." Il problema è che i palestinesi non sono un altro stato, nemico o qualunque altra cosa sia; sono un popolo che ha vissuto sotto l’occupazione militare israeliana per quattro decadi. Il concetto per cui i palestinesi, che non hanno armi, stiano facendo una guerra contro Israele, che è una delle più forti potenze militari, accresce l’idea di una guerra che si fa con due pesi e due misure. Il popolo palestinese stanno resistendo alla occupazione d’Israele – alcuni violentemente, alcuni non violentemente – come è sancito dal diritto internazionale. (...) Dei 6.000 palestinesi a cui fu data la residenza in Israele durante il periodo degli accordi di Oslo, solo 25 di loro sono stati indagati per questioni riguardanti la sicurezza (…). Dei 25 non si sa quanti fossero effettivamente coinvolti in attacchi concreti. (...) Se i giudici erano troppo imbarazzati per ammettere che questioni demografiche spingevano a questa legge, pochi altri in Israele son stati altrettanto riluttanti a proposito. Un editoriale del Jerusalem Post, questa settimana ammettava che le argomentazioni sulla sicurezza per questa legge erano “deboli”, osservando piuttosto che “Israele è apertamente minacciata di annichilimento – non solo fisicamente, da un potenziale nucleare iraniano – quanto demograficamente, dalle richieste palestinesi di un diritto al ritorno”. (...) Le trasformazioni di cui sopra renderanno Israele diverso da qualunque altro stato che abbiamo conosciuto in tempi moderni: nel 1980, nel pieno dell’apartheid in Sud Africa, i tribunali si rifiutarono di approvare una legislazione similare a questa legge d’Israele sulla “unificazione famigliare”, dichiarando che ciò contravveniva ai diritti a una vita coniugale. Diversamente, in Israele, nessuno, neppure i tribunali, è pronto a proteggere i più basilari diritti dei popoli autoctoni.

(Jonathan Cook è uno scrittore e giornalista di stanza a Nazareth, autore del libro Blood and religion: the unmasking of the Jewish and democratic state, edito dalla Pluto Press)

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