Re: Il rifiuto dell’autorità

Inviato da  prealbe il 2/5/2007 21:23:46
Guarda, Bifidus, ho gradito la tua risposta.

Benché mi sia in realtà un po’ stufato di questa discussione - per certi toni più che per il livello di certi contenuti (che mi aspettavo con certezza assoluta) - proseguo e - anche per Arturo - provo a chiarire più esplicitamente (anche se gli elementi ci sono più o meno tutti da un pezzo; c’era solo da unire i puntini).


La questione complessiva è, a mio modo di vedere, di una semplicità assoluta.

L’attuale, diffusissimo (ai limiti della capillarità), rifiuto (inteso come estrema insofferenza personale) dell’autorità (e della sua “sorella” gerarchia) è fondato su una base emotiva e corrisponde né più né meno al ribellismo adolescenziale. È un atteggiamento mentale - ampiamente promosso culturalmente, tra l’altro - che cerca in un secondo momento (e naturalmente trova, visto che comunque la realtà è sempre interpretabile a piacere) una giustificazione concreta a sé stesso.

Le giustificazioni che trova sono comunque, per sorte, assai consistenti: gli attuali sistemi in cui siamo inseriti sono effettivamente profondamente spregevoli e radicalmente umilianti. Ma non in quanto gerarchici, ché nessun sistema sociale umano potrebbe non esserlo. Qui sta il sostanziale malinteso. Sono spregevoli e umilianti perché propongono un sistema di vita e di valori (si fa per dire) che é quanto di più lontano (o addirittura opposto) all’uomo e alla sua reale natura.

In questo, tuttavia, è parente di altre brillanti ideologie da tavolino che numerose si sono manifestate concretamente dal XIX secolo in poi e che brillano per la loro intelligentissima stupidità, mentre almanaccano serissime sul meccanismo sociale perfetto partendo però da un’ipotesi di uomo che purtroppo semplicemente non esiste né è mai esistito (né mai esisterà, se tanto mi da tanto) e che è, rispetto a tali concezioni, contemporaneamente molto “di meno” e molto “di più”; cioè un’altra cosa.

Infatti, se proprio dovessi indicare l’aspetto più profondamente “malato” di questi tempi, direi che consiste esattamente nella irrealistica cognizione dell’uomo che praticamente tutti (almeno a livello di massa) condividono e che, oltre a causare l’attuale disastroso corso delle cose, contemporaneamente disinnesca anche “ab ovo” la possibilità di un’opposizione significativa all’esistente, dirottando le imponenti e potenzialmente risolutive risorse intellettuali e umane che potrebbero costruire un’alternativa a sciuparsi vanamente nell’inseguimento di inafferrabili miraggi umani e sociali.

Non a caso mi inchino con tale pedissequa insistenza a qualche millennio di storia passata - che ci racconta dell’uomo e della sua natura cose del tutto diverse dagli attuali fantastici ritratti sociologici - e insisto tanto sull’arroganza intellettuale che caratterizza le teorie che pretendono invece - in nome di una indimostrata superiorità etico/razionale- di superare d’un balzo aspetti culturali che hanno invece caratterizzato la vita sociale dell’essere umano dall’alba dei tempi fino praticamente all’altrieri.

E quali aspetti culturali ritroviamo in un intervallo così lungo? Tanti e diversissimi, naturalmente. Alcuni curiosamente sembrano però essere una costante: forte e consolidato sistema di valori, struttura gerarchica del corpo sociale, rispetto per l’autorità e per le tradizioni (1), prevalenza delle istanze della comunità su quelle del singolo, religiosità.

L’uomo che ne risultava era un individuo intimamente connesso alla sua comunità da legami estremamente concreti, profondi e significativi, la cui assunzione del sistema di valori esistente, non soggiacendo di sicuro allo spirito di relativismo culturale che permea l’uomo contemporaneo, costituiva un costante e solidissimo fondamento esistenziale al suo sentire ed agire (2).

Stante dunque il forte specchiamento che la comunità offriva ai propri componenti, ognuno di essi trovava agevole riconoscersi negli altri membri (di cui, partecipando convintamente allo stesso sistema di usanze e valori, gli erano familiari motivazioni ed espressioni); poteva così agevolmente sussistere la dinamica dell’identificazione psicologica del singolo col suo prossimo (cioè il rivedere sé stesso negli altri) che, come è noto, è il meccanismo che meglio di qualunque altro favorisce un’interazione positiva tra individui (3), visto che comporta l’estensione ad altri delle stesse cure che si rivolgono a sé stessi.

Ciò mostra che la via alla costruzione di un contesto sociale capace di tutelare il più possibile i propri membri è, piuttosto che affidarsi ad astratti principi e razionali automatismi, quella di strutturarlo appoggiandosi ai meccanismi profondi di funzionamento dell’essere umano, cercando di stimolare ed incentivare quelli che lo inducono alla cura e tutela del proprio prossimo. Ma ciò comporta inevitabilmente “esprimere una scala di valori, e su tale base relazionarsi con i propri membri, dirigendo, decidendo, interferendo, premiando e punendo.”. Ogni scelta alternativa, per la sua lontananza dall’essenza umana, è destinata, per quanto ottimamente intenzionata, a produrre solo di peggio.


Prealbe


1 Mentre oggi furbescamente si fa della rottura costante, non dico con le tradizioni ma anche con i precedenti cinque minuti, il marchio e il vanto della modernità. Bisogna cambiare, se no ci si annoia, che diamine; bisogna “evolvere”, eh! Perciò, se è “nuovo”, è bello anche se è brutto.

2 Non stiamo certamente parlando della “coscienza etica” che può discendere dalla lettura scolastica del sussidiario di educazione civica o dalla fruizione saltuaria degli spot marcati “Pubblicità Progresso” ; si manifesta viceversa in questo approccio un’altra delle assolute imbecillità contemporanee: la pretesa di avere solide ed affidabili prestazioni civiche ed etiche a fronte di sistemi di valori assolutamente vacui e frammentari se non semplicemente inesistenti, confidando in un senso morale astrattamente innato nell’essere umano che dovrebbe spontaneamente agire e prevalere a prescindere dall’assenza di educazione. O, meglio, di un’educazione di segno opposto, quale quella veicolata da praticamente tutto l’apparato massmediologico.

3 In pratica l’esatto opposto di quanto avvenga oggi che, per la mancanza dei fattori descritti, si vive in un mondo di persone che ci sono sconosciute non per una mera ignoranza dei loro estremi anagrafici ma proprio perché non sappiamo nulla di loro, delle loro motivazioni e valori, del loro “mondo”; non sono “estranei”, sono “alieni” con cui identificarsi è semplicemente impossibile per mancanza di elementi comuni per noi significativi. Da qui l’atomizzazione sociale di cui parlavo nell’apertura del 3D.
E il continuo velocissimo variare di tutte le manifestazioni esteriori del vivere (dagli abiti alla musica agli stili espressivi agli oggetti d’uso quotidiano) e la coesistenza residuale di un’infinità di stili di vita non fanno altro che generare continue fratture fra le persone, che vedono diminuito ai limiti dell’inesistenza il background in comune con gli altri membri della propria comunità, ormai ridotta ad un disomogeneo agglomerato di micro-nicchie di individui ognuna con “storia” a sé. A questa tendenza già di per sé stessa perniciosa, la promozione della società multietnica ha dato l’ultimo fatale sprint. La mitica “integrazione” di cui tanto si dice in proposito è una pura assurdità per il semplice motivo che non esiste più alcun “tessuto sociale” in cui chicchessia, immigrato come indigeno, possa integrarsi.

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