Il rifiuto dell’autorità

Inviato da  prealbe il 26/3/2007 1:06:18
L’aspetto dell’organizzazione sociale che è attualmente più fortemente soggetto ad un viscerale rifiuto e ad una avversione radicale è, senza dubbio alcuno, l’idea di autorità. Qualunque sia la forma, teorica o pratica, in cui essa si manifesti, le espressioni di rigetto che provoca sono senza compromessi. Si tratta, praticamente, di un tabù contemporaneo, uno dei cui logici corollari é il rifiuto di ogni struttura gerarchica. L’ipotesi di società che ne consegue è quella di una organizzazione essenzialmente orizzontale, in cui lo stato è visto con una funzione di fornitore di servizi o poco di più.

Ciò dipende dall’affermazione di una visione dell’essere umano non più soggetto ad una scala di valori ‘oggettiva’ e condivisa, tramite cui sia possibile ‘pesarlo’ e determinarne la posizione nella piramide sociale. Si tratta di una rottura sostanziale con un lunghissimo passato. Il prezzo che ciò concretamente comporta è una atomizzazione sociale senza precedenti, con una perdita di direzione e di senso pressoché assolute, in cui ognuno è lasciato di fatto a reinventarsi da zero ogni parametro del proprio vivere. Ciò viene spesso presentato come una conquista, come una forma di rispetto dell’individuo.

A me appare viceversa come una forma spesso spietata di ‘abbandono a se stessi’ del proprio prossimo, un crudele ‘politically correct’ del vivere, nell’assurda convinzione che il ‘rispetto dell’altro’ si concretizzi nella ‘non interferenza’ con le sue scelte, qualunque esse siano; nel rimanerne sostanzialmente spettatori, rinunciando a passargli, nel timore di condizionarlo e quindi ‘deformarlo’, le proprie convinzioni, i propri valori, le proprie conquiste nel vivere.

Io sono invece convinto che la sostanza dei rapporti umani stia propriamente nello scambio continuo, nell’interferenza anche forte, anche invadente, con ‘l’altro’ da noi. Certo, la possibilità di interazione negativa aumenta, ma altrettanto quella di interazione positiva; come in qualunque espressione umana ci vuole coscienza, attenzione, cura, e l’accettazione preventiva della possibilità di sbagliare. Ma sempre meglio della gelida, disumana infallibilità dell’astenersi, del non interferire per non sbagliare: alla larga!

E così dovrebbe fare una società di uomini: esprimere una scala di valori, e su tale base relazionarsi con i propri membri, dirigendo, decidendo, interferendo, premiando e punendo. Certo, è rischioso, difficilissimo, come no; ma credo che fare diversamente porterebbe solo a disumani limbi sociali, asettici laboratori sociologici a cielo aperto. Rimedi assai peggiori del male.


Prealbe


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