Re: Io mi rendo conto...

Inviato da  Skabrego il 2/2/2009 14:17:29
Non vengono messi Israele e Palestina sullo stesso piano per un'ipotetica "pari e patta" che risolva capre e cavoli.
Voglio solo far notare che la Palestina non è rimasta in piedi finora da sola, non è una critica "morale", capisco che quando stai affogando ti appigli a tutto quello che puoi, ma nella storia, anche recente, ci sono decine di storie di ingiustizie, popoli scacciati, ecc...che non avendo appoggi sostanziosi sono stati spazzati via dal "più forte" e mai ricordati.

"Solo che anche te fai lo stesso errore che denunci: se da una parte imputi ad israele la pretesa di voler rappresentare il popolo ebraico, cadi nell'errore di ritenere che sia stata un burattino dell'allora due potenze mondiali, USA e URSS, senza fare distinzione tra popolo ebraico e stato di israele."

Chiedo scusa per il fraintendimento, io parlo solo di stati, o classi dirigenti...il popolo ebraico e palestinese non viene mai tenuto in conto da nessuno: sono sicuro che Israele sacrificherebbe migliaia dei suoi abitanti se questo la rafforzasse, penso la stessa cosa per la classe dirigente palestinese...e per quella di qualsiasi altro paese.

Ricordiamoci le storie di corruzione dell'OLP e il fatto che Arafat ci sia letteralmente "campato" sulla disgrazia palestinese, so che questa è ancora una controversia...discutiamone.

Inoltre mi sa che dobbiamo rivedere un pò tutti le nostre idee...



24 - 01 - 2009
E Stalin aiutò Israele. Un saggio su come nacque lo stato ebraico
(la Repubblica, sabato 24 gennaio 2009)
L´Urss sostenne l´istituzione Poi le cose cambiarono I perché li spiega lo storico Leonid Mlecin. Anticipiamo la prefazione di Luciano Canfora

LUCIANO CANFORA


Anticipiamo parte della prefazione di a Perché Stalin creò Israele di Leonid Mlecin (Sandro Teti editore, pagg. 352, euro 17)


Il Bund, movimento socialdemocratico ebraico, il Posdr, partito operaio socialdemocratico russo di Plechanov e Lenin, e il movimento sionista nacquero quasi contemporaneamente, nel biennio 1897-98. Le relazioni tra Bund e movimento sionista furono, dal principio, molto tese e non meno lo furono quelle tra Bund e socialdemocrazia russa e, più in generale tra Bund e l´Internazionale. Il movimento socialista, Lenin non meno degli altri leader, faceva propria la posizione "assimilazionista" che era stata già messa in atto dalla Rivoluzione francese e trovava contraddittoria, rispetto all´obiettivo del socialismo internazionalista, la scelta "nazionale" dei socialisti del Bund. Ad alcuni però, pur tra le asprezze polemiche, non sfuggiva la peculiarità della situazione degli ebrei e, in particolare, degli operai ebrei. (...)

Queste sono le premesse remote di una vicenda che non si è per nulla esaurita. (...) Essa però ha il suo momento culminante nella scelta sovietica, nel biennio 1944-46, di impegnarsi a fondo per la nascita dello Stato di Israele. (...) Nonostante sia usuale l´accusa di strumentalismo e di Realpolitik nei confronti della politica estera sovietica, sta di fatto che la scelta culminata nel voto sovietico a favore della Risoluzione 181 dell´Assemblea generale dell´Onu, il 26 novembre 1947, che stabiliva la divisione in due della Palestina e la creazione dello Stato di Israele, rappresenta un esito del tutto coerente con le premesse poste quasi tre anni prima alla conferenza sindacale mondiale di Londra, nel febbraio 1945. Qui la delegazione sovietica approvò una risoluzione molto impegnativa e dal contenuto inequivocabile che sollecitava in due direzioni: proteggere gli ebrei contro l´oppressione e la discriminazione in qualunque paese; dare al popolo ebraico la possibilità di costituire un "focolare nazionale" in Palestina (promessa di Balfour dopo il primo conflitto mondiale rimasta disattesa).

La doppiezza c´era in quel momento da parte sovietica. Essa penalizzava gli arabi e in particolare i partiti comunisti dell´area (quello palestinese in particolare) ai quali veniva fatto intendere – per esempio dal console sovietico a Beirut, Ruben Agronov – che il governo sovietico non intendeva, con ciò, esprimersi a favore della creazione di uno Stato ebraico in Palestina. I contraccolpi di tale doppiezza furono ben presto percepiti sul versante del prestigio sovietico nel mondo arabo. Non va dimenticato che nel 1954, quando salirono al potere in Egitto i colonnelli e si affermò il "nasserismo", comunque il partito comunista egiziano fu decimato e messo fuori legge.

Pur mentre la lotta tra potenze portava l´Egitto a un riavvicinamento con l´Urss, l´ostilità araba verso Mosca per la scelta del novembre ´47 perdurava immutata, poiché sarebbe stata decisiva per la nascita di Israele. Si ebbero, all´Assemblea generale dell´Onu, trentatré voti a favore, tredici contro e dieci astensioni. Con l´Urss votarono Ucraina, Bielorussia, Polonia e Cecoslovacchia. Se questi cinque voti fossero passati nel campo dei contrari o degli astenuti, ci sarebbe stato un risultato di parità: ventotto contro ventotto. E la risoluzione per la nascita di Israele sarebbe stata respinta. Si può aggiungere che la Jugoslavia già in rotta di collisione (non ancora palese) con Stalin, si collocò tra gli astenuti.

Appena tre giorni dopo il voto alle Nazioni Unite, esplosero gli scontri in Palestina miranti a impedire l´applicazione della risoluzione relativa alla spartizione della regione. Gli Stati arabi inoltre, sostenuti vigorosamente dall´Inghilterra, opposero un rifiuto netto all´attuazione della Risoluzione 181 e diedero di fatto inizio alle ostilità. Gli Usa furono per non breve tempo in una situazione di paralisi e di incertezza. È fuor di dubbio che proprio le reticenze e incertezze statunitensi di quei mesi diedero ai sovietici la possibilità di inserire un forte elemento di contraddizione tra il movimento sionista e l´alleato "naturale", gli Usa.

Esiste un allarmato rapporto del gennaio 1948 di George Kennan, il teorico della dottrina del "containment" nei confronti dell´Urss, rivolto a spiegare a Truman il rischio della situazione. «Se il piano di spartizione dovrà essere applicato con la forza – spiega Kennan al presidente – l´Urss avrà tutto da guadagnare perché troverà, in tale situazione il pretesto per poter partecipare al "mantenimento dell´ordine" in Palestina. E se le truppe sovietiche entreranno in Palestina per consentire l´attuazione della spartizione, gli agenti comunisti troveranno una base eccellente per estendere le loro attività sovversive, svolgere la loro propaganda, tentare di abbattere gli attuali governi arabi e di installare anche lì delle "democrazie popolari". Forze sovietiche in Palestina sarebbero una minaccia diretta per le nostre posizioni in Grecia, Turchia, Iran, una minaccia a lungo termine per tutto il Mediterraneo».

Kennan prosegue denunciando che l´Urss sta già fornendo armi agli ebrei ma anche ad alcuni tra gli arabi. Nei primi mesi del ´48 gli Usa fanno marcia indietro. Addirittura il 19 marzo Warren Austin, delegato all´Onu, propone di sospendere l´applicazione della Risoluzione 181. (...) Il 23 marzo Gromyko, al Consiglio di sicurezza, denuncia le manovre dilatorie degli Usa miranti a creare una "tutela Onu" sulla Palestina. Ed è la fermezza sovietica all´Onu che porta alla formazione dello Stato ebraico. Nella seduta del 14 maggio ´48 al Consiglio di sicurezza Gromyko respinge tutte le proposte alternative o dilatorie. Scriverà Abba Eban nella sua autobiografia: «L´Urss era la sola potenza mondiale che sostenesse la nostra causa».

La vicenda successiva, quella che Rucker definisce del "secondo stalinismo" vede raffreddarsi progressivamente il rapporto Urss-Israele, sebbene vada pure ricordato che solo l´invio massiccio di armi cecoslovacche, voluto da Stalin, consentì al neonato Stato di Israele di sconfiggere l´attacco concentrico di Egitto e Giordania (armati dagli inglesi) nella prima guerra arabo-israeliana, quella appunto del 1948.

Le cause del progressivo capovolgimento di posizione furono molteplici: la rottura con Tito e l´ossessione staliniana di vedersi affermare posizioni analoghe, di autonomia rispetto all´Urss, nei vertici delle altre democrazie popolari: vertici che, specie in Cecoslovacchia erano in larga parte rappresentati da comunisti di origine ebraica; il forte antisemitismo residuale tuttora allignante sia in Russia che in Ucraina e Polonia; la convinzione che a lungo andare la politica di emigrazione dall´Est Europa in Israele (inizialmente favorita molto intensamente da Stalin) portasse a un danno per gli Stati socialisti "europei". Le tappe della crescente ostilità antiebraica nell´ultimo periodo staliniano sono ben note: dalla vicenda dello "Stato ebraico in Crimea" al mostruoso processo ai medici accusati di aver assassinato Ždanov. (...) Al di là delle oscillazioni tattiche (...), una considerazione si può formulare di fronte al fenomeno più rilevante: quello dell´appoggio netto dell´Urss staliniana alla nascita di Israele-Paese "socialista" nel bel mezzo di monarchie feudali – e del successivo distacco. Anche con altri paesi socialisti affermatisi fuori della stretta azione politico-militare sovietica l´Urss entrò in collisione: Jugoslavia prima, Cina poi. È dunque, forse, l´incapacità della dirigenza staliniana (ma anche kruscioviana e poi brezneviana) ad ammettere la possibilità stessa di un policentrismo dell´area socialista la causa principale di questa vicenda e, alla fine, del crollo stesso dell´Urss.

http://www.micciacorta.it/articolo.php?id_news=1358

e anche...

Stalin, da «ostetrico» a nemico della nuova Israele
di Paolo Rastelli - 10/01/2009

Fonte: Corriere della Sera [scheda fonte]

Leonid Mlecin svela i meccanismi che portarono i sovietici a sponsorizzare il voto favorevole alla divisione della Palestina


«Durante l'ultima guerra il popolo ebraico ha patito tremende e indescrivibili sofferenze… Il fatto che nessuno Stato dell'Europa occidentale sia stato capace di garantire i diritti elementari del popolo ebraico e di proteggerlo dalla violenza fascista, spiega il desiderio degli ebrei di costituirsi uno Stato proprio. Sarebbe ingiusto non prendere in considerazione questa circostanza e negare al popolo ebraico il diritto a realizzare le proprie aspirazioni… ». A pronunciare questo discorso appassionato a favore del diritto degli ebrei di costituire un proprio Stato in Palestina fu Andrej Gromyko, rappresentante permanente alle Nazioni Unite e viceministro degli Esteri dell'Unione Sovietica. Era il 4 maggio 1947 e l'Urss, vittoriosa nella Seconda guerra mondiale e già impegnata nel confronto con l'Occidente, aveva identificato nel Medio Oriente, ancora nella sfera di influenza di una debolissima Gran Bretagna, uno dei settori in cui misurarsi con gli ex alleati. Sia Londra sia gli Stati Uniti, un po' per gli interessi petroliferi in comune con i governi arabi, un po' per i tradizionali (e romantici) legami che soprattutto gli inglesi, da Lawrence d'Arabia in poi, avevano con le monarchie della regione, un po' per la diffidenza che gli ebrei palestinesi imbevuti di socialismo ispiravano al dipartimento di Stato di Washington, non erano affatto favorevoli alle aspirazioni sioniste. E così Mosca fece la scelta opposta.
Per chi è nato nel dopoguerra ed è cresciuto leggendo sui giornali dei grandi scontri arabo- israeliani, soprattutto quelli del 1967 e del 1973, è difficile pensare che ci sia stato un momento storico in cui Usa e Urss avevano ruoli opposti rispetto a quelli tradizionali di sponsor, rispettivamente, di ebrei e arabi. Eppure la grande mole di documenti, alcuni dei quali inediti, raccolti dal giornalista e storico russo Leonid Mlecin nel libro Perché Stalin creò Israele (Sandro Teti Editore, pp. 207, e 17, a cura di Luciano Canfora, introduzione di Enrico Mentana, traduzione di Svetlana Solomonova) non lasciano ombra di dubbio. Il georgiano di Mosca, mentre in patria perseguitava gli ebrei (e le altre nazionalità) in nome della russificazione dell'Urss, sulla scena internazionale fu «l'ostetrico» che fece nascere Israele: furono Urss, Ucraina, Bielorussia, Polonia e Cecoslovacchia, nella votazione definitiva all'Onu, a far pendere la bilancia a favore della spartizione della Palestina in due Stati autonomi, uno ebreo e l'altro arabo. E fu Stalin a consentire a Praga, appena entrata nell'orbita sovietica, di vendere armi moderne all'Haganah, in netta inferiorità di fronte agli eserciti arabi nella guerra del 1948. «Oggi non ho più dubbi: lo scopo dei sovietici era estromettere l'Inghilterra dal Medio Oriente», scrisse Golda Meir, ambasciatore a Mosca, poi ministro degli Esteri e infine primo ministro di Israele.
La rottura tra Tel Aviv e Mosca arrivò poco dopo la vittoria degli eserciti ebraici e l'affermazione definitiva di Israele, e fu rapida, come racconta Mlecin: Stalin, sempre a caccia di nemici interni nell'orwelliana ossessione di tenere il suo popolo in perenne stato d'assedio per compattarne la volontà antioccidentale, lanciò la sua campagna contro «la cricca» dei medici ebrei e aumentò le restrizioni all'emigrazione degli ebrei sovietici. La stampa israeliana lo attaccò duramente, nonostante la prudenza del governo di Tel Aviv. Ma Stalin, semplicemente, non poteva concepire l'idea di una stampa libera e vide dietro gli attacchi la mano di Ben Gurion e dei suoi. Poi ci fu un attentato all'ambasciata sovietica di Tel Aviv, la rottura delle relazioni diplomatiche e lo scivolamento di Israele nell'orbita americana. I diplomatici israeliani lasciarono Mosca il 20 febbraio 1953. Pochi giorni dopo Stalin moriva. Ma la frattura tra Israele e l'Urss non venne più ricomposta.

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=23498

Ma c'è anche chi la pensa mooolto diversamente:

Da http://www.azionetradizionale.com un interessantissima intervista a Stefano Fabei, uno degli storici maggiormente esperti sul rapporto tra il Fascismo e il mondo arabo - tema in gran parte trascurato dalla storiografia ufficiale e non, ma di notevole interesse storico e politico, soprattutto se si pensa alla tragica attualita’ dei difficili rapporti tra Occidente e Islam, che qualcuno vuol propinarci come scontro tra due diverse civilta’ - .
Come ha avuto inizio, e quali sono stati i caratteri salienti dei rapporti tra il Fascismo e l’Islam?
Già prima della marcia su Roma posizioni filoarabe e filoislamiche erano presenti all’interno dei fasci di combattimento: derivavano dalle molteplici esperienze politiche confluenti nel movimento fondato da Mussolini il 23 marzo 1919: da quella socialista a quella repubblicana, dall’anarchica alla sindacalista rivoluzionaria, dall’arditismo al futurismo avanguardista.
L’idea di un’Italia «nazione proletaria», nemica naturale di quelle plutocratiche e imperialiste era molto diffusa in questo primo fascismo «di sinistra», repubblicano e rivoluzionario, ed in quel periodo essa emerse con un certo vigore anche nel corso dell’esperienza fiumana. Tra la fine della Prima guerra mondiale e l’avvento al potere di Mussolini una serie di fatti e circostanze politiche, interne ed internazionali, permisero all’Italia d’essere, o almeno apparire, la nazione in grado di fare da tramite, da intermediaria tra l’Oriente e l’Occidente. Un mese prima della marcia su Roma Gabriele D’Annunzio, scoperte le grandi e molteplici affinità tra il Vangelo e il Corano, affermò che proprio dall’Oriente sarebbe venuta «la forza nuova per l’Italia nuova: di questa Italia che il destino ha voluto costituisse geograficamente e spiritualmente il ponte tra l’Occidente e l’Oriente.»

Poi, però, nei primi otto anni di potere Mussolini non portò avanti un’autonoma politica araba perché la politica estera italiana aveva come fondamentale punto di riferimento quella inglese, e dall’andamento dei rapporti con Londra dipendeva la politica di Roma nei confronti degli arabi. Essendo in corso la «riconquista» della Libia, era poi difficile per Mussolini avviare un vero e proprio dialogo con il mondo arabo. Inoltre gli impulsi ad una politica estera veramente rivoluzionaria, anche nei confronti dei Paesi arabi, sostenuta dai fascisti più dinamici, venivano soffocati dalla eccessiva influenza che avevano nel regime nazionalisti e cattolici conservatori. Solo all’inizio degli Anni Trenta la nostra politica araba cominciò a caratterizzarsi in maniera più autonoma e dinamica, presentando l’Italia come «ponte» tra l’Est e l’Ovest, un punto di riferimento, un «faro di luce» per le nazioni islamiche. Non a caso tra il 1930 e il 1936 Roma cercò di accentuare la sua azione culturale ed economica nel Medio Oriente e nell’area arabo-islamica in generale. Pensiamo all’inizio a Bari della Fiera del Levante nel 1930; ai convegni degli studenti asiatici organizzati a Roma sotto il patrocinio dei Gruppi Universitari Fascisti nel 1933 e nel 1934; a Radio Bari, che iniziava le sue trasmissioni in lingua araba nel maggio del 1934; all’attività di penetrazione nella stampa araba con sovvenzioni a giornali e giornalisti; all’Istituto per l’Oriente e l’Istituto Orientale di Napoli, centri di attività culturale che svolgevano una proficua azione politica. Secondo Said Sciartuni, un collaboratore arabo della «Vita italiana», la rivista di Giovanni Preziosi, a prescindere dai rapporti economici e commerciali esistenti, tra mondo arabo e l’Italia fascista esisteva un legame ideologico che avrebbe avuto il suo peso effettivo nei loro rapporti futuri. Il mondo arabo secondo lui era un fertile campo per l’espansione del fascismo, che esso considerava come un mezzo essenziale per la sua rinascita nazionale. L’Italia era quindi chiamata a svolgere una propaganda per lo sviluppo del fascismo in Oriente; così avrebbe potuto combattere il comunismo nel mondo arabo conquistandosi ampie simpatie. Ai valori dell’Islamismo (ma anche del Buddismo) si sarebbe poi rifatto, subito dopo l’inizio della campagna razziale, il presidente dei CAUR (i Comitati di Azione per l’Universalità di Roma, la cosiddetta «internazionale fascista»), Eugenio Coselschi, nel messaggio rivolto, nel settembre 1938, al Congresso antibolscevico ed antigiudaico di Erfurt, per contrapporre alle «nefaste dottrine che propongono l’assoggettamento di tutte le nazioni e di tutte le razze alla tirannia di un’unica razza sottomessa alle prescrizioni del Talmud la santità della croce cristiana, la saggezza del Corano e la chiaroveggenza di Budda» e per esaltare «l’idea universale di Roma» e la sua battaglia spiritualista in nome di tutti i «credenti, e i devoti, sia a Cristo, a Maometto o a Budda» contro il vile materialismo.

Mussolini e la spada dell’Islam. Quale la storia? Alla base del legame che si instaurò, vi era solo una visione di realpolitik del Duce?

È questa la terza fase della politica arabo-islamica del fascismo, quella relativa alla seconda metà degli Anni Trenta, gli anni dell’Asse, il giorno prima della cui nascita, il 24 ottobre 1936, Hitler aveva dichiarato a Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri del Duce, che il Mediterraneo era un mare italiano e che qualsiasi modifica futura nell’equilibrio mediterraneo si sarebbe dovuta fare a favore dell’Italia, così come la Germania avrebbe dovuto avere libertà di azione verso l’Est e verso il Baltico. Orientando i dinamismi delle due potenze fasciste in queste direzioni esattamente opposte, non si sarebbe mai potuto avere un urto di interessi tra Germania e Italia. In altri termini, secondo Hitler, i Paesi arabi sotto controllo francese e inglese, quasi nella loro totalità, facevano parte della sfera d’influenza di Roma. L’anno dopo, il 18 marzo 1937, il Duce, durante il suo viaggio trionfale in Libia, assunse il titolo di «Spada dell’Islam». Mussolini era il protettore dei musulmani, in Libia, in Etiopia, dove li aveva sottratti alle vessazioni del Negus, in Palestina e un pò ovunque nel Mediterraneo. A prescindere dai rapporti economici e commerciali esistenti tra mondo arabo e Italia fascista, la politica mediorientale e la questione araba divennero argomento della stampa di regime.

Quale è stato il ruolo svolto dalla Gran Bretagna nelle relazioni tra Italia e mondo arabo?

Come ho già detto, la Gran Betagna è stata sempre la grande antagonista dell’Italia nel Mediterraneo, ma, come nella politica araba della Germania, così in quella dell’Italia si tese a non pregiudicare i rapporti con Londra, almeno fino al momento in cui, con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, la rottura divenne irreversibile. Dall’andamento delle relazioni con gli inglesi dipese l’appoggio al nazionalismo arabo e ai movimenti di liberazione dell’area mediorientale, come quello palestinese.

L’ Italia fascista e la resistenza palestinese. Appartiene davvero all’internazionalismo di sinistra, come una certa interpretazione della storia sostiene, il primato storico nell’aver dato supporto alla causa palestinese?

Assolutamente no. Fu l’Italia il primo Stato europeo a sostenere in modo concreto la lotta di liberazione del popolo palestinese dal mandato britannico e dal progetto sionista in Terrasanta. Tra il 10 settembre 1936 e il 15 giugno 1938 l’Italia versò al Gran Mufti di Gerusalemme, che guidava la rivolta del popolo palestinese contro le forze militari della Gran Bretagna e contro l’immigrazione ebraica, circa 138.000 sterline, una somma di tutto riguardo per quei tempi (ai valori attuali circa 10 milioni di euro)… Questo contributo finanziario fu deciso dal Duce all’indomani della guerra d’Etiopia, non solo in ragione della posizione assunta dall’Italia nei confronti del nazionalismo arabo, e «per dar fastidio agli Inglesi», ma anche in omaggio alle posizioni anticolonialiste del Mussolini socialista rivoluzionario e del primo fascismo. Oltre al denaro, il ministero degli Esteri decise di inviare ai mujâhidîn palestinesi un consistente carico di armi e munizioni, in principio destinato al Negus ma acquistato in Belgio tramite il SIM. Questo materiale, depositato per quasi due anni a Taranto, sarebbe dovuto giungere, tramite intermediari sauditi, ai palestinesi impegnati nella prima grande intifâda per abbattere il regno hascemita di Transgiordania, porre fine al protettorato britannico, bloccare l’arrivo di altri ebrei e il progetto sionista in Terrasanta.

Qual è stato il contributo materiale – in uomini e mezzi – offerto dal mondo islamico alle forze dell’Asse durante la Seconda guerra mondiale?

Si tratta di un contributo molto significativo, difficile da quantificare numericamente. Volendo azzardare qualche cifra diremo prudentemente che oltre 300.000 furono i musulmani delle regioni islamiche dell’Unione Sovietica (caucasici, turchi di Crimea, tartari del Volga, turkestani, azeri, ecc.) che si arruolarono con i tedeschi per combattere contro l’Armata Rossa di Stalin; 117.000 i caduti. Per quanto riguarda gli arabi, tra il 1941 ed il 1945, si calcola che 500 siriani, 200 palestinesi, 450 iracheni, e 12.000 circa tra algerini, tunisini, marocchini ed egiziani si unirono attivamente all’Asse. 6.300 fecero parte d’unità militari del Reich, poche centinaia combatterono con le mostrine del Regio Esercito o della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, altri ancora militarono nelle unità della Francia di Vichy. Emanuel Celler, membro del Congresso degli Stati Uniti, il 10 aprile 1946 dichiarò che duemila soldati arabi dell’Asse prigionieri di guerra erano ospiti del campo di prigionia di Opelika, nell’Alabama. Nei Balcani poi, oltre 30.000 volontari della Bosnia, dell’Albania e di altre regioni musulmane entrarono nelle Waffen SS, cui bisogna aggiungere quelle migliaia di fedeli di Allah che combatterono in milizie e formazioni autonome.

Perché questa pagina di storia che riguarda il rapporto tra Fascismo e mondo arabo è rimasta, fino ai giorni nostri, così poco conosciuta?

In effetti si tratta di un capitolo molto trascurato dagli storici, non solo da quelli dei movimenti filofascisti, che allora nacquero e si svilupparono un pò in tutto il mondo, ma anche, lacuna ancor più grave, dagli storici del colonialismo e della decolonizzazione; infatti il fenomeno filofascista di certi Paesi e gruppi politici, nel mondo arabo-islamico in particolare, fu anzitutto un corollario della resistenza al colonialismo. E poi c’è stata la tendenza ad assimilare, senza i necessari distinguo, il fascismo al colonialismo, per non parlare dell’imbarazzo che la simpatia e il sostegno di molti musulmani del cosiddetto Terzo Mondo alla guerra dell’Asse suscitavano in certi ambienti politici e culturali.

Cosa direbbe ai giovani di destra che tendono a seguire le correnti di chi vuole a tutti i costi vedere uno scontro tra due diverse culture, quella «occidentale-crisitana» e quella araba-musulmana?

Io ritengo che il cosiddetto scontro di civiltà non esista e che questa tesi sia sostenuta da chi cerca di impedire la conoscenza e la collaborazione tra realtà umane, culturali e politiche certamente differenti ma non per questo necessariamente antagoniste. Le diversità sono a mio giudizio una ricchezza e una risorsa necessaria in un mondo in cui il processo di globalizzazione tende ad omogeneizzare tutti nell’american way of live. Chi basa la propria identità su solide radici non teme il diverso, ma cerca di conoscerlo e collaborarci, se possibile, in vista del raggiungimento di un comune obiettivo… ma il discorso è estremamente complesso…

Domanda di rito: i suoi progetti per il futuro, ha pubblicazioni in cantiere?

Al momento ho in cantiere la storia di un soldato del Novecento e delle sue guerre; si tratta della biografia del generale Niccolo Nicchiarelli, Capo di Stato Maggiore della Guardia Nazionale Repubblicana durante la RSI.

Bibliografia di riferimento

1. S. FABEI, Una vita per la Palestina (Storia del Gran Mufti di Gerusalemme), Mursia, 2003.

1. S. FABEI, Mussolini e la resistenza palestinese, Mursia, 2005.

1. S. FABEI, Il fascio, la svastica e la mezzaluna, Mursia, Milano, 2002.

Per concludere...

E ora gli arabi fanno il tifo per la nuova guerra fredda
Nel mondo arabo l’opinione pubblica tiene per Putin e non per la Georgia. La nuova grande tensione internazionale, l’atteggiamento aggressivo della Russia fa sognare che si ristabilisca un chiaro potere russo in Medio Oriente, che, come quello sovietico di un tempo, si contrapponga agli Usa e a Israele: il mondo arabo vibra a questo pensiero. È la corda della memoria della Guerra Fredda quella che suona, nota da Washington il Delphi Global Analysis Group: ricordare il tempo in cui il Grande fratello era là con le sue armi, i suoi uomini, il suo denaro, suscita risposte piuttosto positive alle mire egemoniche di Mosca, anche se parliamo dell’opinione pubblica e del mondo degli intellettuali e dei giornalisti. Le vicende cecene sembrano non avere turbato il mondo musulmano: la Russia, come l’Urss di un tempo, fa scattare un riflesso filiale e insieme di rivincita.
Intriga non poco quasi tutti i giornali arabi la speranza di un alleato forte che l’America non osi contrastare più di tanto. Lo sfondo di rapporti con l’Iran (dove l’Urss costruisce uno dei reattori nucleari), con la Siria (Assad è in arrivo a Mosca proprio in questi giorni) e il gran traffico d’armi russe che rende il Medio Oriente un puntaspilli di missili, fa da sfondo a una speranza di pieno impegno sul territorio della Umma musulmana. Più chiaro di tutti è l’editorialista Ahmad Umrabi, kuwaitiano, che il 13 agosto scrive su Al Bayan: avendo Putin sfidato l’ordine globale per stabilire il predominio russo dimostra di essere pronto a diventare una potenza mondiale. «Forse oggi si prepara a un’alleanza con noi arabi e con l’Iran. Riusciremo ad approfittare di questa opportunità?». Il giornale giordano Al Ghad spiega meglio con un editoriale dello stesso giorno: «Il mondo intero sentiva la mancanza della Guerra fredda perché essa forniva sicurezza ed equilibrio. Poi è venuto il tempo del caos, del dubbio... del monopolio americano del potere globale». Ma adesso, prosegue il giornale, «la Russia ha nuovi alleati nell’Iran, nella Cina, nell’America Latina e formerà con loro un potente fronte globale... esso sarà dotato di grande potere militare perché i guadagni petroliferi russi e iraniani vengono utilizzati per costruire forza militare». Insomma, conclude idealmente un editorialista del giornale giordano Al Quds al Arabi, il potere degli Usa si restringe mentre quello russo sembra ampliarsi, non sarà meglio che noi arabi smettiamo di mettere tutte le uova nel paniere americano?
Più cauto ma sempre sostanzialmente al fianco dell’antico alleato il giornale più importante e più legato al governo d’Egitto, Al Ahram, che di Ferragosto ha scritto che l’Occidente non ha mai cambiato, dai tempi della caduta dell’Urss, il suo atteggiamento aggressivo verso la Russia, e che ora «la circonda militarmente sia in Europa che cercando di isolarla dall’Asia e impedendole l’accesso alle regioni ricche di petrolio e al Medio Oriente». Di Saakashvili Al Ahram dice che è più o meno un burattino americano. E conclude che la Russia non permetterà che la Georgia si trasformi in un cavallo di Troia per distruggerla. Anche un settimanale vicino ai Fratelli Musulmani che si stampa in Giordania, Al Sabil, scrive che gli americani intervengono ovunque vi sia resistenza contro il loro potere, per quello aiutano minoranze come quella albanese in Kosovo o quella Uyghur in Cina e sostengono l’integrità della Georgia mentre hanno distrutto quella della Serbia, amica della Russia.
Insomma, la lettura è molto chiara anche se le leadership politiche sono molto più caute dei loro intellettuali. Esistono però invece sotterranee preoccupazioni per cui la situazione attuale è diversa da quella della Guerra Fredda, e il titolo di questo capitolo porta il titolo: «Iran». È evidente infatti che la Russia di Putin ha in mano una carta terribile contro gli Usa e contro l’equilibrio mondiale, e di fronte a una Polonia armata di missili Putin non esiterà a incrementare la sua amicizia balistica e atomica con Ahmadinejad e il suo Asse. Dunque i Paesi sunniti temono oltremodo questa alleanza, e di una crescita del potere iraniano legato alla nuova strategia. I sunniti temono l’Iran dei mullah e le loro evidentissime mire sul Medio Oriente. Un segno molto espressivo lo si ha ancora il 4 agosto, prima della vicenda georgiana, nell’editoriale del giornale saudita Arab e-journal Elaph, firmato dall’intellettuale moderato Saleh a Rashed: l’editorialista si dice preoccupatissimo della minaccia iraniana di bloccare Hormuz e di controllare così tutti i traffici e i movimenti del Golfo e aggiunge che sopportare passivamente l’atomica in mano all’Iran equivale ad affidarla a Bin Laden. Dunque, scrive, non dobbiamo entrare nella trappola antiamericana dell’eccitazione islamista, né dobbiamo fingere di non vedere una ferita che, se non cauterizzata, porterà alla morte. A Rashed propone di bombardare l’Iran in proprio, senza aspettare né gli Usa né Israele: che sia l’Arabia Saudita a farlo. Una posizione estrema e certamente non condivisa dai politici, ma che ha il coraggio di mostrarsi al pubblico. La paura dell’Iran è grande e può moderare l’adesione islamica al nuovo corso russo se esso intende servirsi di Ahmadinejad.

Messaggio orinale: https://old.luogocomune.net/site/newbb/viewtopic.php?forum=53&topic_id=4851&post_id=133182