Re: La morte

Inviato da  totalrec il 7/8/2006 2:57:52
"In hoc enim fallimur, quod mortem prospicimus; magna pars eius iam praeterit. Quicquid aetatis retro est, mors tenet." (Seneca)

[Questo è il nostro errore, di vedere la morte come qualcosa che sta davanti a noi; in realtà gran parte di essa è già trascorsa. Tutto il tempo che è già passato, appartiene alla morte.]

"Del non essere non ti permetterò né di dirlo né di pensarlo. Infatti non si può né dire né pensare ciò che non è." (Parmenide)


Ho trascorso un tempo considerevole della mia vita passata - ammesso che "passata" sia un termine provvisto di un qualche significato - a interrogarmi sulla morte. Non credo di essere arrivato ad una conclusione certa, nè del resto sarebbe stato possibile. Quando si è sempre stati, e si continua ad essere, atei come una spugna le risposte non vengono mai facili, e quando vengono non sembrano mai soddisfacenti. Tuttavia un giorno ho incontrato un libro che mi ha fornito su questo argomento la risposta più sensata e completa in cui mi sia finora capitato di imbattermi. Il libro è la raccolta completa delle poesie di Giovanni Giudici edita qualche anno fa nei Meridiani della Mondadori. Va letta con attenzione, soppesata, digerita. Ci vuole molto tempo, e spesso capita - salvo che si possieda dimestichezza con la lettura della poesia - che ci si stanchi di leggere componimenti apparentemente incomprensibili prima che una qualsiasi risposta sia penetrata dentro di noi. Occorre perseveranza e acutezza di sentimenti perchè si veda, all'improvviso, dischiudersi uno spiraglio d'illuminazione inattesa che rimane impresso nella coscienza e riempie di senso, come un'epifania retroattiva, tutto ciò che abbiamo letto fino a quel momento.

Non credo di poter dire - sarei incredibilmente presuntuoso - di aver capito, dopo questa lettura, cosa sia la morte. Non credo sia possibile capirlo, né prima che essa arrivi né dopo. Lo stesso atto del capire è qualcosa in cui, ormai, nutro poca fiducia, come in un giocattolo il cui funzionamento si credeva miracoloso, ma un giorno si rompe, rivelando le molle e gli elastici che banalmente lo tenevano in movimento. Credo però di avere intuito, almeno grossolanamente, i meccanismi e i princìpi nascosti che stanno alla base del nostro percorso e della nostra condizione di uomini, compresa quella che definiamo (impropriamente) la sua parte finale. Questo non significa che io abbia smesso di aver paura della morte. Uno può anche conoscere a menadito il meccanismo che fa muovere le montagne russe del luna park, bullone per bullone, rotella per rotella, ma questo non vuol dire che avrà meno paura a montarci sopra. Tuttavia, la conoscenza del meccanismo aiuta a circoscrivere la paura, a depennare dal novero dei nostri timori quelle visioni che, alla luce di ciò che si è appreso, non appaiono più verosimili.

Ad esempio ho smesso di pensare alla morte come una fase, infinita e terribile, di non esistenza. Se ho ragione – e sento di averla – la morte è l’esatto contrario: non assenza di essere ma assenza di individualità. Non la fine dell’essere, ma la fine di ciò che lo delimita e lo circoscrive; e cioè la fine di quell’insieme di strutture riordinatrici che danno origine a quella peculiare specificazione dell’essere – una delle tante – che chiamiamo “io”. La morte è l’accesso ad una fase più “elevata” dell’essere, in senso quantitativo, non morale, né spirituale. Una fase dalla quale, peraltro, non siamo mai veramente usciti. Ciò che chiamiamo il nostro “io” è un coacervo di pensieri, idee, allucinazioni, sogni e lunghi periodi di vuoto che nessuno di noi saprebbe definire, eppure lo raffiguriamo come un ente definito e unitario. Ciò che chiamiamo la nostra vita è un’insieme di eventi e esperienze compiute da persone completamente diverse a cui ci sforziamo penosamente di dare un ordine lineare, inserendolo a forza in un’improbabile struttura unitaria riferibile ad una singolarità che chiamiamo “io”. La morte è la fine di questo sforzo terribile – e un po’ ridicolo – che il cervello - o per meglio dire l’attività riordinatrice che attribuiamo a torto o a ragione al suo funzionamento - compie nel tentativo di dare ordine, linearità, unicità a cose che non ne hanno e non ne hanno mai avuta.

Io non sono uno scienziato, e se sto per dire castronerie compatitemi e correggetemi. Ma da quel poco che so di questi argomenti, in meccanica quantistica è un dato ormai acquisito il carattere immaginario di ciò che chiamiamo “direzione del tempo”. E cioè: il fatto che una tazza di vetro si rompa sul pavimento DOPO esser stata lasciata cadere è, dal punto di vista della fisica quantistica, un evento tanto probabile quanto il suo opposto. E’ il nostro cervello – o ciò che esso riceve da chissà dove – che imprime agli eventi questo ordine immutabile (ma arbitrario): PRIMA la tazza sfugge di mano, POI si rompe. Ma si tratta di un ordine inesistente nella fisica dei quanti, dove è perfettamente possibile che la rottura della tazza sul pavimento avvenga prima che essa cada. A ciò sembrerebbe opporsi il secondo principio della termodinamica, secondo il quale in ogni sistema chiuso il disordine, o l'entropia, aumenta sempre col tempo. Una tazza integra sul tavolo è in uno stato ordinato, mentre una tazza rotta sul pavimento è in uno stato di disordine. Si può passare facilmente dallo stato ordinato del passato (tazza integra) a quello disordinato del futuro (tazza rotta), ma non viceversa.

In realtà è il nostro cervello che imprime agli eventi questo ordine peculiare, ordine che non esiste nella realtà delle cose. Se il disordine aumenta col tempo è solo perché noi misuriamo il tempo nella direzione in cui il disordine aumenta. Il disordine non è nella natura delle cose, è solo che il nostro cervello misura la natura delle cose procedendo unicamente in quella direzione. Dove non c’è un cervello ad osservare l’evento (la rottura della tazza), esso può svolgersi indifferentemente nell’una o nell’altra direzione. Non credo ci sia bisogno di spiegare che cos’ha a che fare tutto questo con il discorso sulla morte. Credo sia intuibile come il percorso che ci conduce, in modo apparentemente ineluttabile, dalla culla alla tomba, sia solo uno dei tanti percorsi possibili. Credo sia intuibile come ogni istante di ciò che chiamiamo la nostra vita (o la nostra morte), sottratto alla dittatura ordinatrice dell’attività cerebrale, sia presente ovunque, in qualsiasi punto del tempo o dello spazio.

C’è un libro, probabilmente noioso, che non ho letto e che non leggerò. Si chiama “Gli spiriti ci parlano” (edizioni Pendragon) ed è stato scritto da un gruppo di persone che in esso hanno riportato alcuni presunti colloqui con spiriti di personaggi famosi contattati attraverso sedute medianiche, o qualcosa di simile. Non amo la banalizzazione della morte. L’idea che esistano chiacchiere dopo la vita mi fa rabbrividire. Per questi motivi evito come la peste i libri in cui si accredita l’idea che i morti passino il tempo a chiacchierare con i vivi. Dopo che il mio cammino terreno sarà concluso, mi piace immaginare che mi sarà concesso il diritto a un minimo di silenzio e ad una sospensione sine die del cicaleccio comarile. Tuttavia mi ha colpito, nella pubblicità vista sul web, il sottotitolo del libro, costituito da un messaggio emblematico che gli spiriti loquenti avrebbero inviato ai loro interpellanti terreni. Un messaggio in cui questi sedicenti vip dell’aldilà hanno voluto sintetizzare la condizione terrena, unificandola, consapevolmente o no, con quella ultraterrena:

Non si è mai morti, non si è mai nati. Si è sempre stati.

Non so se questi spiriti (tra cui spiccano personaggi del calibro di Alessandro Magno, Napoleone, Carlo Magno, Maometto, Gandhi, Akenaton, Mozart, perfino Guttuso… una specie di Novella 2000 dell’oltretomba) conoscessero la fisica dei quanti. Sicuramente, se questa è la loro visione della morte, cercherò di non essere troppo severo con la loro logorrea. Il silenzio è d’oro, ma una volta tanto, tra uno sproloquio e l’altro, hanno detto una cosa che credo di condividere.



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