Re: Anarchia

Inviato da  Truman il 23/1/2008 22:57:03
Riporto qui alcuni commenti inseriti in precedenza nella zona download:
http://www.luogocomune.net/site/modules/mydownloads/singlefile.php?cid=28&lid=114

Il testo è ripreso (in modo selettivo) da
http://www.nonluoghi.info/nonluoghi/modules.php?name=News&file=article&sid=508

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Analisi: Ripensare l'anarchia (parte I)

[...] le differenti “teorizzazioni anarchiche” corrono il rischio di strutturarsi in modo da divenire infalsificabili. Ed eccoci nel pieno della religione libertaria (il “dottrinarismo” di cui parlava Berneri) che, come tutti i fondamentalismi che si rispettino, si basa su certi dogmi e certissimi sacramenti. Esaminando quelli che fondano le diverse sette libertarie, due hanno una funzione importante ai fini di questo discorso:
1) la proprietà è un furto (è il fondamento di certi anarchismi socialisteggianti tra Kropotkin e Malatesta);
2) la proprietà è il fondamento della libertà (quasi esclusivo del libertarianism di Rothbard e Friedman).

[...] [Sull'anarcocapitalismo]

Teorema II: La proprietà è il fondamento della libertà

Corollario: il mercato è il luogo della libertà.

Se la proprietà per gli anarcosocialisti è sempre e comunque illegittima e criminale, per gli anarcocapitalisti è sempre e comunque una mano santa. Senza proprietà non esiste libertà. In quest’ottica il mercato significa sovranità degli individui in quanto consumatori. I miei acquisti sono voti e questo è il miglior mezzo di controllo sociale dei mezzi di produzione. Nel mercato, dicono i libertarians, nessuno mi impone qualcosa in nessun ambito (morale, etico, di consumo, ecc.) ed io sono realmente libero di fare qualunque cosa. I servizi di cui intendo usufruire (educazione, sanità, trasporti, infrastrutture, agenzie di protezione, tribunali, ecc.) non mi sono imposti dallo stato ma li acquisto liberamente nella misura che voglio e per il tempo che voglio.[...]

“Lo sfruttamento non esiste”, recita il mantra anarcocapitalista. Robert Nozick, pur non essendo tecnicamente un anarcocapitalista di provata fede ma solo un loro compagno di merende, ha liquidato ogni “assurda” pretesa di considerare sfruttamento l’ approfittarsi della altrui condizione di svantaggio con la formuletta che vede le transazioni economiche come “rapporti economici fra adulti consenzienti” intercorsi cioè fra soggetti “volontari”. Il salariato non è sfruttato dall’imprenditore che si compra i suoi sforzi e il suo tempo per arricchirlo. Per difendere il nucleo metafisico dell’individualità autonoma fondata nella proprietà e quindi del mercato quale fonte di libertà, non è possibile “assimilare” nella costruzione ideologica il concetto di sfruttamento, pena il crollo dell’intera impalcatura. La difesa è quindi strenua, anche davanti all’evidenza dell’utilizzo del differente potere contrattuale, non solo per poter utilizzare il lavoratore, ma per far si che tale disequilibrio si perpetui, perpetuando insieme la possibilità di continuare ad usufruire di tale maggior potere, cosa che delinea un disegno antilibertario. Asserire che un lavoratore “sceglie” liberamente in quanto “imprenditore di sé stesso”, di accettare le condizioni propostegli è una mistificazione perché dei due attori coinvolti, imprenditore e lavoratore, il secondo ha già un padrone e si chiama bisogno.

Quest’ultimo lo affitta al primo. Sono quindi due padroni alleati, pertanto il primo (imprenditore) farà di tutto per mantenere in vita il secondo (il bisogno) in quanto gli è funzionale e simpatico. Vivono in simbiosi. Pertanto la transazione, “il rapporto economico fra adulti consenzienti” non è realmente a due, ma a tre. Questo inquina notevolmente il clima perché oltre ai due “adulti ” c’è n’è un terzo che ad uno dei due punta un’arma, quella della necessità.

Questa situazione è consensuale come l’accettazione della “protezione” delle attività commerciali proposta dalla mafia ai negozianti (o dallo stato ai cittadini, che poi è la stessa cosa).

[...] Mi si obietterà che accettando ( volontariamente, of course ) le condizioni propostegli il salariato si garantisce comunque un lavoro; perché, pagando le tasse il cittadino non accede forse ai servigi dello stato? I trenta denari che otteniamo per il tradimento di noi stessi non possono accecarci a tal punto da non vedere al di là dei nostri momentanei meschini guadagni l’importanza di ciò che perdiamo.
E’ curioso constatare come davanti a situazioni così lampanti ed allo spettro della “invalidazione” del costrutto, le giustificazioni anarcocapitaliste diventino vaghe e tautologiche. Piombini, ad esempio, una volta ha risposte alle mie obiezioni dicendo che “in uno scambio le parti non hanno mai identico potere contrattuale altrimenti non avrebbero bisogno di fare alcuno scambio”.

[...]
Francamente non so che tipo di potenzialità libertarie siano insite in una società che veda la servitù, per quanto volontaria, quale base di effettualizzazione, anzi lo so perché non devo fare molti sforzi di immaginazione. Del resto la società propostaci da questa scuola di pensiero prevede che, liberamente scelti dai consumatori e in regime di concorrenza fra loro, sussistano scuole, esercito, polizia, magistrati, carceri, ecc.

[...]
A questo punto la libertà rischia di diventare uno specchietto per le allodole. Perché considerare autoritaria la situazione statale e libertaria quella in cui le istituzioni statali sono private? In realtà, ancora una volta, c’è un’unica risposta che i seguaci di Rorhbard forniscono: perché nel secondo caso è possibile la scelta, e Liberty is choice. “Ogni gruppo umano – dice sempre Piombini – è libero di organizzarsi volontariamente come desidera, anche in maniera gerarchica e autoritaria, se ciò favorisce il perseguimento dei fini che si prefigge entrando in quell’organizzazione”, ad esempio il fine di sopravvivere.

Mettiamo che io fossi il proprietario di una forza di polizia tutta mia o di un esercito di guerrieri di ventura, bè avrei tutto l’interesse a creare le condizioni di insicurezza sociale che sarebbero favorevoli alla mia attività. Del resto il mercato opera spesso creando prima la domanda e poi l’offerta. A questo punto l’acquirente non è più così “libero” di scegliere se difendersi o meno, è costretto ad acquistare il servizio; non gli conviene né rimanerne sguarnito né boicottarlo. E’ una strana libertà. Certo, può sempre scegliere fra me e un altro fornitore di servizi di sicurezza o di bounty killers e alla fine decidere per quello che lo “serve meglio”, ad esempio l’esercito che per lo stesso prezzo gli porta gli scalpi dei nemici o i loro attributi per farne nacchere, ma questo non mi fa apparire la condizione più desiderabile, anzi. Né mi appare come una grande conquista di libertà quella di pagare dei continui pedaggi stradali anche per andare a far la spesa all’alimentari del mio paese, cioè la metastasi della cellula proprietaristica in ogni ambito della vita, incluso quelle attualmente ancora relativamente non intaccate. Insomma, quello che mi sembra stonato in tutto ciò è che in una simile concezione uno ha tanta libertà quanto riesce a comprarsene. Ma questa non è altro che la estremizzazione del mondo che già abbiamo. Previti, per esempio, può già comprarsi la giustizia.

C’è un’unica ragione per cui si può sottovalutare l’aspetto aggressivo della proprietà, quella di attribuire agli aggrediti, ossia agli esclusi dal banchetto, quelli cioè a cui si toglie ciò che sarebbe naturalmente loro per poi rivenderglielo (ad esempio, il tempo), il motivo della loro esclusione, per scelta o per incapacità. Sorvoliamo sulla prima ipotesi, improbabile, fallace e comunque residuale. La seconda è una attribuzione di colpa (come dire “cornuti e mazziati”) per il proprio stato di esclusione che è un diffuso ed arcaico pregiudizio liberista noto come “spencerismo” o “darwinismo sociale” e sa molto di malthusianesimo. In altri termini, il mercato “genera eminenze” (parole di Giovanni Sartori). L’idea, ricapitolando, è questa: se tutti abbiamo le stesse possibilità e A realizza maggiori traguardi di B, A se l’è meritato (ha guadagnato l’”eminenza”), mentre B merita il suo permanere in una condizione di inferiorità a causa della sua imperizia, pigrizia o stupidità. Si può giungere a queste conclusioni perché sia ad A che a B sono state concesse le stesse chances, partivano cioè nella stessa situazione di “libertà”.[...]

Fu comunque Nietzsche a scoprire la maggiore incongruenza del darwinismo sociale: questo sostiene che chi vince è il migliore, ma ciò non è vero – fa notare il tedesco perché la vittoria non va affatto al “più idoneo” per una legge di natura, bensì a colui che dimostra la maggiore “volontà di potenza”. Da qui la necessità, secondo Nietzsche, di esortare i “migliori” a dimostrare volontà perché i “peggiori”, se motivati ed organizzati, possono vincere. A questo punto la “differenziazione che genera eminenza” produrrebbe una selezione non in base a virtù intellettuali o d’altro tipo, bensì solo in base alla nietzschiana “volontà di potenza”. Il premio va al più vorace (e rapace)! Questo sembra essere il valore principe della società di mercato capitalistica! Ecco il vero problema.
Verrò forse accusato di comunismo se ritengo che una società in cui tutti gli esclusi dal banchetto non potranno acquistare alcuna libertà e premeranno ai bastioni delle enclaves fortificate dei “liberi” (cioè gli “eminenti”) che vi saranno rinchiusi (!) protetti dai loro eserciti privati non rappresenti poi una gran conquista? Si badi che non ragiono per esagerazioni ed iperboli se libertari come il fiammingo Boudewijn Bouckaert o l’americano Evan MacKenzie, tessono le lodi delle “privatopie”, le città private in cui la upperclass americana tende sempre più a rifugiarsi, chiusa in cittadelle medioevali con tanto di mura di cinta e di bravi salariati a difenderne gli ingressi. Finalmente liberi! Gli altri, gli esclusi dai benefici effetti della società capitalistica, sono rimasti “chiusi fuori”.

Più che una utopia mi sembra una distopia simile al futuro presentatoci dalla letteratura cyberpunk alla Gibson o alla Sterling. [...]

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