Re: Cassazione: coltivare una pianta di marijuana non è reato

Inviato da  Makk il 29/6/2011 14:24:47
Non è proprio "qualcosa di più".
E' solo RI-stabilire un principio che aveva fatto tendenza nelle Cassazioni precedenti: coltivare in sé non costituisce reato, perché la destinazione si deve presumere sempre all'uso personale. Il reato è lo spaccio. Collateralmente lo è il "trasporto" (se fai uso personale ti porti la dose, non il pacco di foglie secche).

Quindi, in passato, non bastavare avere la (le) piantina(e), e nemmeno la quantità era significativa, perché il "grower" poteva benissimo conservare un "raccolto" e usarlo in dosi singole tali da rientrare nell'uso personale.

Diverse sentenze erano andate in questa direzione. Inclusa quella, stupendissima, che un rastafariano aveva ottenuto, dove si citava che anche l'uso "smodato" (per noi cattolici) non lo era per un rasta in quanto la sua religione prescriveva usi più intensi

In pratica, in Italia la maria era reato ma portare a condanna un piccolo coltivatore era difficile.

Poi la fini-giovanardi aveva cambiato le cose, perché citava espressamente la coltivazione come reato "in sé". Anche la vecchina che il nipote le aveva mollato la "piantina ornamentale" in terrazzo era perseguibile. E la sbirraglia si è scatenata con fotografie satellitari dei balconi, che erano diventate prove valide.

Purtroppo questo ha portato ad almeno una Cassazione che (controvoglia) ribadiva il principio che coltivare una particolare pianta sia nocivo per la collettività (notare che se io coltivo papaveri da oppio devono aspettare che estraggo la linfa e produco la ben più pericolosa sostanza per arrestarmi).

Questa nuova sentenza non ha cassato una legge (non è nei poteri della Cassazione). Ha dato una "interpretazione autentica" come si dice in gergo.

E cioè che reato è ciò che costituisce danno EFFETTIVO per la collettività, non ciò che qualcuno decide a priori essere danno sociale. Un principio giuridico fondante, che la fini-giovanardi aveva calpestato pesantemente.

Il principio per il quale il cittadino è responsabile di sé stesso e la legge deve arretrare di fronte all'esercizio della libertà individuale, purché la mia libertà non collida con i diritti altrui.
Cioè, se l'esercizio della mia libertà procura un danno ad altri, ecco che questo danno và disciplinato e devono essere legiferate le "regole" per dirimere la controversia.
Ma la legge si deve occupare del danno: ovvero non del comportamento, ma delle conseguenze del comportamento.

Sorvoliamo sulle complicazioni giuridiche: basta sapere che alcuni danni sono automatici col comportamento perché sono intrinsecamente pericolosi.
Ma il principio di disciplina del comportamento e non di sanzione del comportamento è salvaguardato: si dice che c'è una "pericolosità sociale" di un dato comportamento anche se non ci sono danni visibili procurati da quella data persona (es. l'eccesso di velocità).

Il concetto di pericolosità sociale è delicatissimo, và usato con estrema attenzione perché è la linea di confine fra la legge come salvaguardia della libertà e legge come imposizione autoritaria di comportamenti forzati.

Il PDL aveva agito come un elefante in un negozio di cristalli, forzando la coltivazione della cannabis come "pericolosità sociale". Un ovvio processo alle intenzioni senza riscontri giuridicamente validi. Insomma un pensiero "politico" che voleva obbligare i giudici a condannare senza tener conto della [ir]razionalità della legge e dovendo far finta di credere a una stronzata come quella della vecchina come pericolosa criminale.

Qualunque giureconsulto (avvocato o giudice che sia) sente le "unghie sulla lavagna" di fronte a una forzatura di questo tipo.
Non che sia la prima di queste leggi illiberali: per es. le leggi sulle pesantissime sanzioni ai ragazzini che scaricano MP3 sono dello stesso tipo. Sbirri e magistrati sanno benissimo che non sono "criminali" e perseguono svogliatamente, cercando tutte le scuse per non applicarle.

Tuttavia con la cannabis si è fatto di peggio: un comportamento del tutto innocuo (coltivare le piante) assurge a reato.
Si penserà "sì, ma solo nell'eccezione della cannabis".
Ma in giurisprudenza non esiste la famosa eccezione che conferma la regola a livello di legiferazione.
Le eccezioni posso esistere nell'applicazione della legge, non nella stesura
.
E' proprio il meccanismo della giurisprudenza che vuole questo: faccio la disciplina generale e poi demando al "prudente apprezzamento del giudice" l'applicazione concreta, incluse le eccezioni caso per caso.

Quello che la fini-giovanardi fa (un'eccezione che conferma la regola) in giurisprudenza si chiama "precedente".
Non ha prescritto sanzioni per "la versione malvagia" di un comportamento ma ha dichiarato fuorilegge un comportamento innocuo. (Sò che è sottile come distinzione rispetto ad altre norme che sembrano fare questo, mi dispiace di non poter essere più chiaro).

Cioè mette il mattone angolare per costruire una serie di altre possibili eccezioni sottratte alla dinamica del processo. Questo è un vero e proprio "vulnus" (tallone d'Achille, cavallo di Troia) al principio che si deve perseguire qualcuno SOLO per qualcosa di male che ha fatto o che potrebbe fare.

Nonché al principio costituzionale (difficile da comprendere nelle sue implicazioni) che "nessuno può essere privato del diritto di essere giudicato dal suo giudice naturale".
Io faccio qualcosa di male (presuntivamente) e ho diritto di veder esaminata la cosa da un giudice che si suppone esperto nel giudicare casi come il mio.

La fini-giovanardi cancella questo diritto nel caso della coltivazione della cannabis: ho una piantina? Basta chiacchere! Condannato!
Il giudice è un semplice notaio che certifica la condanna, non c'è NIENTE da decidere, da "apprezzare", da vagliare.

La Cassazione ha messo un primo chiodo sulla bara di questo mostro giuridico che è la Fini-Giovanardi. Ha stabilito che la "pericolosità sociale" non è automatica in un comportamento innocuo. E' una inaccettabile generalizzazione.

Hanno ragione i PDL che i giudici gli hanno indebolito una legge, ma non è affatto vero che "fanno politica": fanno giurisprudenza.
Sono i politici che non dovrebbero fare le leggi se non capiscono un cazzo di giurisprudenza
(o quando, come nel caso della Fini-Giovanardi, si credono "più furbi" della giurisprudenza e cercano di forzarla a fare le cose "come vogliono i sondaggi elettorali" invece che come vanno fatte)

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