Re: Perchè è nato il concetto di Dio?

Inviato da  ludfrescj il 17/12/2007 19:56:29

“Eccetera... ??? (cominci bene la tua risposta....)”

Questo è un mio problema: te lo spiego in due parole. Mi preme di essere, quando scrivo, sintetico: amo la sintesi! E un titolo di apertura per me è la sintesi per eccellenza di quanto ho in animo di dire o di scrivere. Ma sono purtroppo anche ansioso… Di modo che quando vado a metterlo – il titolo – ogni volta m’assale un sottile panico, così che scrivo/sciupo la prima parola d’istinto, come mi capita. (‘Eccetera’ voleva dire “riprendendo il discorso”, “aggiungendo ancora annotazioni” e via di seguito. Non farci caso.)


”una deficienza ontologica, non cognitiva” che io dico e tu citi.

Qui occorre capirsi: per me ESSERCI è diverso/altro da SAPERE DI ESSERCI: per il mio dopo/morte non so di esserci, ma ci sarò realmente; mentre il credente che conosco, quello che va per la maggiore, del suo dopo/morte sa di esserci, ma non ci sarà realmente. In altre parole: io, adesso, non ho coscienza del mio dopo/morte né posso averla (ho disperazione); ma non potrò veramente non esserci in quell’immenso paesaggio che mi attende (INFINITO). Al contrario chi adesso ha coscienza del suo dopo/morte (ha speranza) non potrà veramente esserci in quel ristretto perimetro che l’attende (PADRE, PARADISO o che altro): un infinito territorio che sta per inghiottirlo e non saprà come viaggiarci.


”E come la chiami questo ‘SAPERE di essere infinito’? Di che cognitivita' dispone qualcuno che afferma (con discreta certezza) cio'?”

E questo è il punto: chiamo l’ESSERE di prima|di ora|di dopo Infinito, ma non lo conosco, non ne so niente, non ne ho né posso averne la minima coscienza. La mia è logica supposizione, un pensiero scarno e freddo, è pura immaginazione se vuoi; anzi no: è sintesi! Di quale conoscenza o cognizione parli? Questa appartiene al credente banale e ripetitivo, non a me; il quale si affida, abdica, rinuncia alla sua immaginazione, rinuncia al suo pensiero sintetico; e si rimette a quello che gli dice il suo prete, il suo teologo, il suo papa…


“ ‘Pensare l’Aldilà come un paesaggio sterminato – ad esempio – dove viaggiare all’infinito e perdermici felicemente (perché questo ho già detto che per me è il Divino)’ – mi citi ancora – non ti pare questo un bisogno di ‘credere’ in un qualcosa in alternativa al nulla della morte?”

Che dici?… Il mio credere nell’infinito senza conoscerlo non è un bisogno, se mai una necessità; ma di più: è la mia condizione, di cui ho la facoltà di prenderne coscienza come ogni altro se lo vuole. Ma io sono cosciente di essere/appartenere a un infinito che non conosco/non posso conoscere per i miei limiti terreni. E di cui la morte – ancora credo – è una sorta di spartiacque tra coscienza limitata che ho e coscienza illimitata che avrò. Che poi il Nulla (non c’è parola più livida, ingannatrice e demente) sia una valenza della morte lo dici tu che “non vedi un vero motivo nello sperare di continuare ad esistere dopo la morte se non quello di aver ceduto all'influenza del persar comune” Il pensare comune è quello – ti ho detto e ripeto – del falso credente che ha speranza in Dio che mai vedrà; non quello del vero credente che dispera nel Divino dove s’immergerà.


"Lo spero anch'io che ci possa essere una continuazione… ma dal sperarlo al crederci, c'e' un autentico abisso di mezzo!"

Penso che ci sia un abisso fra credere in ciò che si sa sperando e credere in ciò che non si sa disperando, piuttosto che tra vita|morte|aldilà che è un semplice seppure incomprensibile (ancora) continuum.

“Ma questo che mi descrivi non e' un bisogno socioculturalmente diffuso?…”
No.

“Sei sicuro di mantenerti in una posizione individualistica?”
Sì.

“e' ironia, non scherno” – dici di te.
Bene, continua. Sorvolo sul resto…

Ciao, ludfrescj


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