Re: OLOCAUSTO PALESTINESE

Inviato da  perspicace il 26/8/2014 10:25:51
La strage dei giornalisti palestinesi a Gaza

Just fucking boys

16 luglio 2014. Prende la mira con calma, dalla nave. Il primo shrapnel ha centrato i bambini che giocavano a pallone sulla spiaggetta, dilaniandone uno. Gli altri scappano verso il capanno. Aspetta che lo abbiano raggiunto. Si sente calmo, freddo: come uno jihadista col coltello in pugno che aspetta la fine del messaggio registrato per sgozzare l’ostaggio. Eccoli tutti lì: in trappola. Il secondo shrapnel centra il bersaglio: sia lode a Yahweh, il dio degli eserciti.
Ahed Atef Bakr, Zakaria Ahed Bakr (10 anni), Mohamed Ramez Bakr (9 anni) e Ismail Mohamed Bakr (11 anni) [nella foto in alto: la fuga dei bambini tra il primo e il secondo colpo di mortaio] sono morti in una luminosa giornata di sole sotto il fuoco di una fregata militare israeliana [fonte: → Corriere della sera]. Dall’albergo prospiciente accorrono i primi soccorritori: sono tutti giornalisti stranieri. Uno di loro vomita davanti ai resti carbonizzati di quello che era un bambino di 10 anni: il fumo della suo olocausto sale fino alle narici di un qualche dio osceno. «They’re just fucking boys», sibila tra i denti un giornalista americano. «Si: sono solo bambini», gli risponde quello italiano [fonte: → l'Espresso].
Non c’erano “target militari”, su quella spiaggia. I quattro bambini sono stati macellati davanti all’hotel dei corrispondenti stranieri: chi ha orecchie per intendere, intenderà.

Uno che non voleva intendere è Ayman Mohyeldin, che stava giocando a pallone con quei ragazzini pochi minuti prima della mattanza.




«Today was a personal low point – giving first aid with colleagues to two children wounded by shrapnel on Gaza beach on terrace of our hotel», tweetta [fonte: → NBC]. Mohyeldin è un veterano del giornalismo di guerra: è stato in Egitto durante la rivoluzione del 2011 (e arrestato per due volte dai gendarmi di Mubarak), e di nuovo nel 2013, durante la deposizione di Morsi; è stato in Ukraina durante la guerra civile. Ha lavorato per Al Jazeera e la CNN, oggi lavora per la NBC, sa qual è il proprio mestiere, e lo fa bene. I suoi reportage non piacciono a Israele, e mettono in discussione le versione ufficiali dell’uso di “scudi umani” e dei “target militari”: dai siti filo-sionisti e Neocon è accusato di essere un farneticante “Hamas spokesman”, due giorni dopo viene → rimosso dall’incarico (e gli viene → impedito di partecipare al programma Nightly News).

Un’altra che non aveva orecchie per intendere è Diana Magnay, corrispondente della CNN: → documenta l’esultanza di alcuni israeliani per le bombe lanciate su Gaza, e denuncia di essere stata minacciata: «una parola sbagliata, e distruggeremo la tua auto».




iene immediatamente richiamata a casa.
I precedenti lasciano pochi dubbi: l’esercito israeliano (IDF) fa opera di “targeting” nei confronti dei giornalisti. Nel novembre 2012 l’esercito israeliano ha → bombardato il Gaza Media Center (8 giornalisti feriti), l’edificio della Agence France-Presse, la sede in Gaza di Al Jazeera e → l’hotel che ospitava i giornalisti stranieri.
«Israel does not target journalists», → aveva dichiarato il portavoce del primo ministro Mark Regev: «We don’t target journalists, we target Hamas».
La versione dell’IDF è stata smentita dagli stessi giornalisti. Con macabro senso dell’humor, la corrispondente del Washington Post ha tweettato al portavoce dell’IDF: «Se Hamas è nella camera 208, avvertitemi: io sono nella 209».



Targeting the media, shooting the messenger


9 luglio 2014: Un’auto dell’agenzia di stampa Media 24, con un evidente contrassegno TV in rosso sul cofano, è centrata da un proiettile sparato dell’esercito israeliano. Hamdhi Shihab muore sul colpo, altri tre giornalisti restano feriti [fonte: → The Huffington Post].




20 luglio 2014. Il cameramen 26enne della Continue TV Production Khaled Hamad sta riprendendo l’attacco dell’IDF al quartiere Sajaya, Gaza est (67 vittime civili). È su un’ambulanza, e indossa un giubbotto con la scritta “PRESS”: viene colpito e lasciato per quattro ore senza soccorso, muore dissanguato [fonte: → The Guardian].



Poche ore prima, l’ufficio stampa del governo israeliano ha inviato a tutti i giornalisti stranieri accreditati una mail che si conclude in modo inequivocabile: “Israele non è in nessun modo responsabile per ferite o danni che potrebbero accadere come risultato di giornalismo sul campo”. Il giorno prima (19 luglio) l’aviazione aveva bombardato la torre al-Jawara, nella quale si trovano diverse redazioni giornalistiche, tra cui quella della iraniana Press Tv e dell’agenzia di stampa al-Watanya. Lo stesso 20 luglio il giornalista Kareem Tartouhi è ferito in una diversa operazione, mentre la casa del giornalista della stazione radio Al-Ashab Mahmoud al-louh è bombardata dall’artiglieria israeliana.



30 luglio 2014. L’aviazione israeliana bombarda il mercato di Shojayah, in pieno pomeriggio, durante la “finestra umanitaria” di sospensione dei bombardamenti. Sameh Al-Aryan, 26enne, di Al-Aqsa TV Channel, e Rami Rayan, 25enne, del Palestinian Media Network, si recano sul posto per documentare l’accaduto. L’aviazione israeliana ritorna una seconda volta, colpendo il mercato mentre sono in corso le operazioni di soccorso. 17 civili inermi restano uccisi, 160 feriti: tra loro, i due giornalisti. Un terzo, Mohamed Nour Eddine Al-Dairi, 26enne, fotografo del Palestinian Network for Journalism and Media, morirà per le ferite riportate tre giorni dopo. Un quarto giornalista, Hamed Shobaky del Manara Media Production Company, è gravemente ferito [fonte: → International Federation of Journalists (IFJ)]. L’orrore per la strage al mercato è sopravanzato da quello per il bombardamento della → scuola-rifugio gestita dall’ONU che uccide 23 tra donne e bambini.



1 agosto 2014. Abdullah Nasr Fahjan, giornalista della televisione Al-Aqsa TV, sta fotografando l’esodo notturno dalle proprie case degli abitanti del sobborgo di Al-Jineene, a Rafah in seguito all’intimazione dell’esercito israeliano. Poco dopo mezzanotte un drone lo punta e lo colpisce alla testa. Abdullah muore tre ore dopo in ospedale [fonte: Humanize Palestine].


2 agosto 2014. Il giornalista freelance Chadi Hamdi Ayad, 24enne, muore nella sua casa bombardata, ad Al-Zaytoun, nel sud-est di Gaza. Anche suo padre resta ucciso dalle bombe dell’IDF. Lo stesso giorno Moussa Al-Qawasme, 31enne, fotografo dell’agenzia di stampa Reuters, mentre sta riprendendo gli scontri tra manifestanti ed esercito israeliano nel quartiere di Bab Al-Zawiya di Hebron (Cisgiordania), viene ferito dai soldati israeliani, nonostante porti un casco con la scritta “PRESS”. Sempre in Cisgiordania, il giorno dopo viene ferito il giornalista Abd Marish [fonte: → l'Humanité].

3 agosto. Due auto di giornalisti palestinesi che lavorano per l’agenzia di stampa cinese Xinhua News Agency, con ben visibili sul cofano il contrassegno TV, sono puntate e colpite dall’IDF davanti alla Mushtaha Tower, in Gaza City.

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FONTE: http://www.estense.com/?p=404783

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