La vergognosa quanto scontata assoluzione per la strage di Piazza della Loggia

Inviato da  m4x il 19/11/2010 5:40:47
Trentasei anni prima, il 28 maggio 1974, in quella stessa piazza era esplosa una bomba nascosta in un cestino. Sette etti di polvere sufficienti a uccidere otto persone e ferirne quasi cento. Tutti cittadini riuniti da sindacati e comitato Antifascista, per manifestare contro l’escalation di attentati neri verificatisi in città nei mesi precedenti. Oggi, in quella piazza tanto bella quanto atroce non resta che una targa con i nomi delle vittime, il vecchio manifesto che proclamava la mobilitazione e la colonna sbrecciata del loggiato dov’è esploso il cestino.

La Corte d’Assise di Brescia, chiamata a giudicare i sospetti responsabili della strage, si è riunita poco lontano dalle logge rinascimentali. Due anni di dibattimento, 166 udienze e migliaia di testimoni. La camera di consiglio è durata un’intera settimana, e alla fine l’elefante non ha partorito neppure il topolino: Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte, Francesco Delfino e Pino Rauti sono stati tutti assolti dal reato di concorso in strage, per insufficienza di prove.

In realtà, le prove hanno avuto più di trent’anni per venire a galla e accumularsi, nello sconcerto di chi ha seguito i diversi iter giudiziari.


Il primo processo iniziò nel 1979, seguendo la pista dei neofascisti bresciani Ermanno Buzzi e Angiolino Papa, assolti tre anni dopo per non aver commesso il fatto (anche se Buzzi venne assolto da “cadavere”, strangolato dai camerati Pierluigi Concutelli e Mario Tuti nel carcere di Novara, poco prima di testimoniare nel processo d’appello).

Il secondo fu avviato nel 1984, sulla scia della “pista nera milanese”: anche questo si concluse nel 1989 con l’assoluzione, a formula piena, dei neofascisti Cesare Ferri, Alessandro Stepanoff e Sergio Latini.

Il terzo processo – di cui ieri è stata letta la sentenza d’appello – è iniziato sulla base di un nuovo filone, aperto nel 1993 grazie all’apporto di alcuni collaboratori. Si tratta di Carlo Digilio, militante di Ordine Nuovo e agente della Cia (nome in codice “Erodoto”), arrestato nel ’92 dopo una lunga latitanza e condannato a dieci anni di carcere per banda armata e detenzione di esplosivo; di Maurizio Tramonte, esponente padovano di Ordine Nuovo e fonte “Tritone” per conto del Sid (l’allora Servizio informazioni difesa), e di Martino Siciliano, altro militante di On.

Furono proprio questi tre neofascisti, negli anni Novanta, a tirare in ballo la cellula veneta di Ordine Nuovo, retta dal medico Carlo Maria Maggi.

Digilio – alias “Erodoto”, o “zio Otto” – fece il nome di Zorzi agli inquirenti, sostenendo che, da Mestre, avesse fornito l’esplosivo per la strage. Materiale poi consegnato a quel Giancarlo Esposti, altro ordinovista, ucciso due giorni dopo piazza della Loggia in un misterioso scontro a fuoco con i carabinieri, a Pian del Rascino.

A sua volta, Tramonte – alias “Tritone” – venne coinvolto nell’inchiesta perché il 6 luglio del ‘74 aveva inviato al Sid, da Padova, una velina in cui riferiva di una riunione tenutasi ad Abano Terme tre giorni prima del maledetto 28 maggio.

In quella riunione, stando a quanto riportato ai servizi da Tramonte, Carlo Maria Maggi aveva illustrato la nuova strategia dell’eversione nera, che prevedeva non solo la sanguinosa strage di Brescia, ma altri attacchi terroristici.

Insieme a Maggi, alla riunione aveva preso parte anche Pino Rauti, che rimarrà comunque agli annali come uno dei fondatori di Ordine Nuovo. Di qui, l’indagine a carico di Zorzi, Maggi, Tramonte e Rauti, cui si aggiunse un altro esponente della cellula veneta, Giovanni Maifredi, deceduto nel 2009 e ai tempi collaboratore del ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani.

Infine, gli inquirenti chiesero anche il rinvio a giudizio per il generale dei carabinieri Francesco Delfino, l’uomo che, a capo del Nucleo operativo bresciano, dal 1974 aveva coordinato le indagini sulla strage. Un lavoro davvero scrupoloso e puntuale, quello di Delfino; che si potrebbe sintetizzare con l’inspiegabile e precipitoso lavaggio della piazza, pochi minuti dopo la strage: “pulizia” che avrebbe fatto scivolare nei tombini bresciani ogni traccia dell’esplosivo utilizzato dai terroristi e fornito dai loro mandanti, insieme a ogni altra preziosissima prova.

D’altronde, la sentenza di Brescia si inserisce nel solco giudiziario tracciato a suo tempo dal processo per Piazza Fontana, solco nel quale restano sepolti tutti i procedimenti relativi alla Strategia della tensione.

Nel 2004, dopo la condanna all’ergastolo in primo grado, per la strage del 12 dicembre Zorzi e Maggi furono assolti dalla Corte d’appello di Milano, con sentenza confermata in Cassazione nel 2005. Per ironia della sorte (giudiziaria) in quell’occasione Franco Freda e Giovanni Ventura furono invece ritenuti responsabili: peccato che non fossero più perseguibili, perché già assolti in via definitiva, per lo stesso capo d’imputazione, nel processo di Bari, confermato in Cassazione nel 1987.

Evidentemente, l’ex camerata Delfo Zorzi – oggi cittadino giapponese e imprenditore di successo, con tanto di negozio nella prestigiosa galleria Vittorio Emanuele, a Milano – ha tutte le ragioni per sventolare la sua fiducia “nella giustizia con la g maiuscola”: da buon militante, sa bene che lo Stato non può condannare se stesso. Al massimo, può aprire delle indagini, depistarle e istruire un processo con le prove miracolosamente raccolte. Ma non può arrivare a delle condanne. Perché finirebbe per avvalorare tutta quella mole di deposizioni, fatti, coincidenze, veline informative che hanno fatto gridare, dal 1969 in poi, alla “strage di Stato”.

A prescindere dal suo esito, il processo di Brescia si è occupato degli esecutori dell’eccidio di Piazza della Loggia: eversori neofascisti privi di scrupoli, capaci di mettere qualche etto di esplosivo in un cestino per poi farlo saltare in mezzo a centinaia di innocenti, durante una manifestazione. Altra cosa sarebbe stato occuparsi di chi ha fornito quell’esplosivo, e del perché lo ha fatto.

Gianadelio Maletti, numero due del Sid durante la Strategia della Tensione, nel 2009 ci ha confermato che l’esplosivo utilizzato a Piazza Fontana proveniva da un deposito americano in Germania:

“L’esplosivo giunse dal Brennero, a bordo di uno o più tir. Ricordo che arrivò una breve informativa […]. Parlava di questi camion, che erano partiti dalla Germania, erano giunti in Italia e avevano scaricato una certa quantità di materiale in Veneto, a Mestre. Si trattava di materiale esplosivo: fu consegnato a un esponente della cellula mestrina di Ordine Nuovo”. ²


La velina, naturalmente, non venne trasmessa alla magistratura. Al contrario, ne furono informati, come sostiene lo stesso Maletti, “il ministro della Difesa, il ministro dell’Interno, il capo dell’Ufficio Affari Riservati, il capo di Stato maggiore dell’Arma dei carabinieri”, e probabilmente altri.

La fonte che aveva dato le informazioni – Gianni Casalini, un ordinovista padovano meglio noto come fonte “Turco” – venne chiusa nel 1975. Aveva iniziato a parlare, Casalini. E sapeva anche che l’esplosivo giunto dalla Germania era custodito in uno scantinato, a Venezia. Deposito che venne “ripulito” dai carabinieri di Padova, proprio nel ‘75.

E che forse custodiva anche il materiale utilizzato per Piazza della Loggia.

I servizi, dunque, sapevano, depistavano e coprivano. E con loro non operavano solo i carabinieri, ma anche tutta la catena informativa e decisionale che dal Sid iniziava a salire, fino ai piani alti dei ministeri romani. Ministeri che poi, senza alcun imbarazzo, inviavano corone di fiori per listare a lutto le piazze italiane, con funerali che mai avrebbero dovuto essere di Stato.

Nel 1973 Giorgio Gaber, all’indomani delle stragi, cantava: “Capire cosa c’è dietro al dolore/ saperlo analizzare e motivare/ allora quel dolore è la mia rabbia/ di fronte a repressioni sempre più allarmanti/ La rabbia di uno/ La rabbia di tanti”.

A quasi quarant’anni di distanza, lo Stato si è assolto per l’ennesima volta. E al Paese, che invoca sotto dettatura una memoria impossibile da condividere, dove le vittime e i carnefici sono la stessa cosa, non resta che questo: la rabbia di troppi.


di Maria Elena Scandaliato e Andrea Sceresini (nessunbavaglio, 18 novembre 2010)


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