Re: Il caso del "Mostro" di Firenze

Inviato da  Segugio il 5/3/2008 18:19:16
http://firenze.repubblica.it/dettaglio/Maledizione-del-mostro-unaltra-morte-misteriosa/1430494?ref=rephp
Interrotto il processo Calamandrei: è stato trovato morto il figlio dell'imputato di 35 anni.

Era perduto nella droga e vagabondava, sin dall'adolescenza,leggo.

Vediamo: quindi più o meno dagli anni in cui sua madre accusa il marito di far parte della setta del "mostro".....la stessa madre Mariella Ciuli che "impazzirà" in quegli anni.

La fragilità psichica e incapacità mentale della moglie dell'imputato mi fa venire in mente la debolezza della figura psicologica femminile in tutta questa vicenda.

metto qui un link interessante e riporto un brano di un'interessante analisi psicologica di una blogger che recensisce un'intervista con la moglie di Narducci, altro personaggio implicato
http://www.rossellated.splinder.com/archive/2005-04

La potenza di questi uomini è fondata sulla complicità maschile, stretta in un patto indissolubile. Essi divengono interdipendenti grazie al fitto scambio di favori ed alle reciproche coperture che assicurano la tutela di interessi personali, familiari, economici, politici. Come i mafiosi, ma più acculturati e raffinati, hanno costruito un sistema nel sistema, una specie di nicchia ecologica protetta, in cui è possibile decidere “come devono andare le cose” attraverso alleanze matrimoniali e familiari, collocazioni strategiche e scelte di campo. La crescita del potere personale è determinata dal rafforzamento reciproco.

In questa nicchia, il potere dei soldi, del sapere e della conoscenza, della medicina e della ginecologia in particolar modo, pone gli uomini al di sopra, molto al di sopra delle mogli, delle sorelle, delle mamme. Il loro potere è intollerabile. Ancora più intollerabile quando queste donne sono anche pazienti da curare. Chi più del ginecologo può incarnare l’archetipo del maschio dominatore? I ginecologi si sono appropriati del corpo delle donne, sottraendo loro l’autosufficienza nel dare alla luce i figli, ospedalizzando il parto, trattando la gestazione come una patologia. Francesco Narducci, figlio di un ginecologo, non disdegnava la materia. Egli era un gastroenterologo, ma aveva aiutato il fratello nell’elaborazione della tesi in ostetricia e ginecologia.

Mi sembra inevitabile associare alcuni aspetti di questa vicenda al culto del femminino sacro, all’adorazione della dea, al simbolismo della rosa riportati ne “Il Codice da Vinci” di Dan Brown. Ma il filone esoterico, che pure è stato rintracciato nei delitti fiorentini, sembra sprofondare in una oscurità inimmaginabile. Qui la setta agirebbe non per preservare il culto della dea, bensì per appropriarsi del femminino sacro, rubarle il potere di generare e nutrire. Nei delitti, il corpo della donna è terribilmente offeso, scempiato, mutilato degli organi riproduttivi che vengono chirurgicamente asportati. Una lettura freudiana indurrebbe ad interpretare questi atti come l’esito estremo di un’invidia incontenibile della vagina e del seno che sfocia in un odio profondo verso il corpo femminile, di una omosessualità latente e non accettata, di una insopportabile frustrazione del maschio che non accetta il limite impostogli dalla natura. In quest’ottica, la ricerca ed il possesso del feticcio rappresenterebbe il superamento del limite, l’esercizio del potere assoluto di vita e di morte. Ma una tale interpretazione ci condurrebbe molto lontano, a ciò che è stato il rapporto con le madri, e non avremmo molto da dire, poiché le donne raccontate da Francesca sono figure sbiadite, di contorno, ignavie, imbalsamate nella stereotipia del gruppo sociale. Francesca stessa racconta del suo ruolo di moglie operando un riduzionismo forte, che nulla lascia trapelare oltre la superficie di un amore definito un lago tranquillo, ricalcato sulle orme materne, pago delle indiscusse e comode abitudini borghesi.

In questo ambiente è forte il controllo sociale, apparentemente impossibile sgarrare. In cambio della sicurezza economica e del lusso, la donna deve rinunciare a pensare, a porsi domande e a sapere. Il prestigio della donna è il riflesso di quello posseduto dal marito, dal padre, dal suocero, dai fratelli, dai cognati. Le donne sono complici passive, interessate alla conservazione dei benefici derivanti dalla loro soggezione. Esse potranno godere del lusso finché riusciranno a custodire gelosamente ed a tramandare ai figli il familismo amorale mascherato di sacralità familiare.

Nel libro di Cugia la protagonista parla del suo matrimonio come di un rito collettivo, “Eravamo una coppia copiata” dice. Come non pensare che in questa cornice conformistica l’assenza di un figlio non generasse un’angoscia profondissima? Qui il racconto assume toni foschi: la donna viene sottoposta alle visite ginecologiche del suocero e del cognato; il suocero fa svariate diagnosi e infine prescrive il Valium per curare la presunta sterilità della nuora. La descrizione è fredda e tetra: è il marito medico, nudo, in ginocchio sul letto, ad iniettarle il Valium in vena prima di fare l’amore. Ma la donna non pare ancora comprendere, a distanza di molti anni, quanto possa risultare inquietante questa scena. Non vuole demolire il mito di un matrimonio perfetto, per quanto disturbato da domande tremende. Perciò innalza difese imbattibili, che il giornalista non riuscirà a scalfire con la sua interpretazione realistica di un “matrimonio di copertura”.

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