Re: Film “eversivi”

Inviato da  music-band il 17/11/2006 9:20:08
Ho riflettuto molto sul modo di porre fine alla polemica tra me è pikebishop, che nelle mie intenzioni non è mai cominciata. Eviterò a questo punto di scrivere una mia recensione sul film in questione perchè potrebbe essere interpretata come un gesto ulteriormente provocatorio da "saccente".
Se qualcuno è interessato a sapere ciò che intendo, quando parlo di argomentare le motivazioni che ci spingono a giudicare un film, esiste su questo sito, da molto tempo, la prima parte di una mia recensione al film "2001 Odissea nello spazio". Dico questo soltanto al fine di sottolineare che non si tratta di un mio accanimento nei confronti di questa discussione, ma semplicemente di ciò che, a mio avviso, debba essere l'approccio alla settima arte.

Per quanto riguarda invece il film in questione, riporto una recensione scritta da altra persona; non voglio dire se sono daccordo oppure no con questa recensione, sempre per lo stesso motivo di non voler apparire di parte o dare l'impressione di voler sbeffeggiare le opinioni di pikebishop. La riporto con l'unico scopo di fornire un esempio concreto a ciò che ho sostenuto rispondendo a pikebishop, e cioè che nel giudicare un film, è necessario analizzarlo nelle sue molteplici componenti.

Spero che quanto detto finora, chiarisca definitivamente la questione e plachi l'animo di pikebishop

una recensione del film "Munich":

Tratto dal romanzo di Gorge Jonas Vengeance: The True Story of an Israeli Counter-Terrorist Team, rimandato e riscritto più volte fino a cadere nelle mani del geniale Tony Kushner, premio Pulitzer per Angels in America, l’ultimo lavoro di Spielberg è un pugno allo stomaco assestato con geometrica precisione, un apologo morale che parte dalla Storia particolare, specifica per innalzarsi fin da subito a riflessione universale sul rapporto tra soggettività e Stato, tra responsabilità individuale (l’uomo) e collettiva (il popolo). Il regista e lo sceneggiatore mantengono un equilibrio prodigioso dando voce alle opposte parti di un dialogo impossibile, cogliendo i personaggi in conflitto non già come figure di cartapesta incarnanti visioni “di stato” antitetiche, bensì uomini fragili, prima marionette mosse dalla madrepatria, poi esseri umani fagocitati dal dubbio. Il racconto, retto da una tensione quasi insostenibile, si dipana in mezza Europa, ma nonostante la dispersione non diviene mai dispersivo. Il regista riesce mirabilmente, grazie alle scelte cromatiche adottate dal grande direttore della fotografia Janusz Kaminski, a suggerire la localizzazione dell’azione senza ricorrere alla didascalia spaziale o temporale (cosa rarissima nel cinema di spionaggio). Avner (Eric Bana), il protagonista, è anima smarrita e schiacciata da un potere sempre più invisibile, sempre più sfuggente, fantasma senza patria, patria che da madre benevola – “E’ Israele tua madre” gli dice la moglie – si tramuta in matrigna da cui fuggire, proprio perché non più “casa”. Per questo, abbandona l’arida “terra promessa”, alla ricerca di un nuovo nidus da ricostruire in un altrove nel quale sperare (vanamente) di potersi riparare da una violenza tentacolare, ramificata (come ricorda il “papà” Michael Lonsdale, il primo personaggio pienamente “opaco” del cinema di Spielberg, figura tra le più ambigue e sconvolgenti del cinema americano recente). E’ la fine dei sogni, è la maturazione graduale di un bambinone ingenuo e senza memoria (un “sabraA”, ovvero un ebreo d’Israele, figlio dello stato e non nella/della diaspora), alla ricerca inconscia di ricostituire una comunità su una terra non macchiata dal sangue. Cresciuto in un Kibbutz, dunque in una comune, ha appreso l’arte culinaria, nonostante le mani “da macellaio”. Il pasto è sempre abbondante perché collettivo. La tavola è sempre imbandita e ricca di pietanze cucinate istericamente da chi cerca di annullarsi nell’unico gesto che gli resta da compiere “per l’altro”, “per gli altri”. Lo splendido incipit, che non chiude la rappresentazione del massacro di Monaco ma che anzi la coglie “dialogando” con le immagini di repertorio, fermandosi e soffermandosi sul “visibile”, ovvero su ciò che la massa ha visto, ricostruendo storicamente la percezione dello spettatore palestinese o israeliano del tempo dell’evento, per la prima volta diffuso dai media su scala planetaria, è un’acuta analisi dello iato che separa visibile e non visibile, fissazione analogica e diffusione su vasta scala di un evento da un lato e “arte”, ri-costruzione, ipotesi poetica, ri-figurazione e trasfigurazione simbolica dall’altro, sul vuoto che Spielberg si azzarda di colmare segnando il confine che separa, eticamente ed esteticamente, la manipolazione dei mezzi di comunicazione di massa (dei media televisivi o radiofonici) e quella cinematografica (nei casi migliori, finalizzata alla stimolazione del dubbio, più che alla delucidazione tramite il commento dello pseudo-evidente). Un’immagine, di potenza e forza uniche, forse il take più sconvolgente del cinema degli ultimi anni, sintetizza questa dialettica intermediale: interno di un appartamento, un televisore trasmette dall’“esterno” l’ingresso del terrorista fedayn incappucciato dalla terrazza, ma è la macchina da presa a coglierlo dall’“interno”. Come a dire: il medium cinematografico può superare la superficie, penetrare la storia. Per il completamento dell’evento, Spielberg si affida all’intermediazione del suo protagonista, che “riattraversa” idealmente la tragedia, la ripAercorre e la rielabora partendo dai pochi frammenti visivi percepiti in diretta, dagli schermi televisivi. Non a caso, il primo flash di Monaco Avner lo “vede” e lo “vive” dal finestrino dell’aereo (doppio simbolico del monitor televisivo), sopra le nuvole (ovvero, al di là del visibile). Il rituale della rappresaglia, iterata fino a divenire meccanica disumana del gesto violento e potenzialmente infinito, è colto secondo stilemi che appartengono al cinema di spionaggio anni ’70: zoom, fotografia sgranata, proliferazione dei punti di vista. Più scelta “morale” che di maniera, più sperimentazione sfacciata che omaggio pedissequo ai grandi vecchi, la messa in atto/in scena degli assassini mirati è un saggio di multivisione, di “polipercezione” e “policognizione”, nonché abile gestione del flusso delle informazioni diegetiche. Spielberg rende conto dello spazio dell’azione seguendo la staffetta di sguardi dei cinque componenti del gruppo (spesso in elaboratissimi long take), ora avvicinandosi al giocattolaio belga Robert (Mathieu Kassovitz) o al freddo contabile Hans (Hanns Zischler), ora sposando lo sguardo gelido della macchina di morte a cui “interessa solo il sangue ebreo” Steve (Daniel Craig) o dell’“uomo delle pulizie” che “si preoccupa” (Ciarán Hinds), fino a giungere al perno centrale del racconto e della visione, che completa il quadro dirigendo quasi sempre, e sempre “automaticamente”, la sinfonia di morte. La violenza è il contrario del dialogo: significativamente, sono gli strumenti di comunicazione di massa o interpersonale ad essere rifunzionalizzati, a divenire strumenti di morte (telefoni, televisori). Morte, sangue, “nessuna pace alla fine di tutto questo”: una femme fatale prezzolata olandese, che muore dopo aver riservato un’ultima carezza al gatto, nuda come colui della cui morte si è resa responsabile; un giovane palestinese che assiste inerte al massacro della propria famiglia, poi ucciso dagli agenti una volta divenuto guardiano della villa dell’architetto di Monaco, “intoccabile” (forse) peArché spalleggiato dalla CIA; un intellettuale che, presentando la sua traduzione in italiano delle Mille e una notte in un improbabile bar romano, sostiene che “la narrazione ci salverà dalla morte” (come Sheherazade), prima di essere fatto fuori dagli agenti; una bimba che si diletta al pianoforte salvata in extremis. C’è sempre uno scambio di sguardi tra vittime e carnefici, tra agenti portatori di morte e obiettivi da eliminare, quasi a connettere le esistenze. La scoperta dell’altro passa attraverso la visione del volto. Chi non riconosce e si riconosce nel volto dell’altro “non esiste”… Spielberg non parla (solo) di agenti o rappresentanti di poteri in lotta, ma di uomini, di volti. Lo sbeffeggiato montaggio alternato che connette sesso e morte, che tanto ha fatto ridere i critici cultori dell’ovvio, che guardano pregiudizialmente con sospetto ogni azzardo politicamente ambiguo, è sintesi evidente di una catarsi impossibile: la responsabilità e le conseguenze di un gesto, dei gesti contro l’altro, che tanto i responsabili della strage di Monaco che gli agenti del Mossad sembrano ignorare, indifferenti ed ostili a ciò che sfugge all’immediata (e falsa) “comprensione”, ricade su chi l’ha compiuto nel momento in cui ridiventa Soggetto. Il gesto si tramuta in fardello, non c’è “amore” che possa liberare o purificare, non c’è carezza che possa rassicurare o consolare. Munich è il tragico “rovescio” degli altri film “storici” di Spielberg: Salvate il soldato Ryan e Schindler’s List. Dalla massima altruistica che segnava in maniera esplicita (il film del 1993) o implicita (il war movie del 1998) le due opere (“chi salva una vita salva il mondo intero”), al suo opposto: chi uccide un uomo uccide il mondo e, per citare una battuta pronunciata dal (dis)innescatore di bombe Mathieu Kassovitz, “perde la sua anima”. Un film dall’impossibile finale: oggi viviamo nella “sospensione” di cui Spielberg ricostruisce mirabilmente la genesi. Non a caso, nell’ultima inquadratura dello skyline newyorkese, le twin towers “incombono”… E non c’è pace alla fine di tutto questo.

Manuel Billi

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