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L'ideologia della Provocazione - Un breve saggio di Enrico Voccia

Enrico Voccia

L'ideologia della provocazione

di Enrico Voccia

 

Premessa

La simulazione è un concetto semanticamente assai ambiguo. Una delle tante ambiguità che le sono strutturalmente connesse è quella relativa alla dimostrabilità o meno della volontarietà di un meccanismo simulatorio in atto. Da questo punto di vista, la premessa metodologica del comportamentismo si dimostra, in un caso come quello che analizziamo, valida. Noi non possiamo presumere a priori le motivazioni mentali alla base di un comportamento simulatorio, dal momento che ogni dichiarazione in merito può essere parte della simulazione stessa e, di conseguenza, non costituire una metacomunicazione chiarificatrice su di essa. Ciononostante, esistono comportamenti simulatori che, anche se non distinguibili oggettivamente come tali caso per caso, devono di necessità, per la logica stessa del loro funzionamento, essere volontari o involontari. Può essere allora interessante analizzare due casi limite di ognuna di queste categorie di atti simulatori, per scoprirne tratti in comune, specificità, interazioni.

 

Una simulazione involontaria: l'ideologia

Per ideologia non intendiamo qui un generico sistema di idee, bensì quei determinati e particolari meccanismi — mentali, politici e sociali allo stesso tempo — che posseggono alcune caratteristiche del tutto specifiche:

  1. Il sistema di idee in questione si propone come realizzatore di obiettivi altamente desiderabili, generalmente per l'umanità nel suo complesso.
  2. Tradotto in prassi politico/sociale, gli obiettivi previsti dal meccanismo ideologico non sono raggiunti e, al loro posto, si ottengono risultati assolutamente controproducenti rispetto alla soddisfazione dei bisogni e dei desideri della maggior parte delle persone e, solitamente, perfettamente rispondenti a quelli della sola minoranza dominante.
  3. Paradossalmente, proprio in virtù di tali plateali fallimenti, tale sistema d'idee è in grado di continuare ad essere circondato da una particolare luce di positività. Esso è infatti in grado di ricondurre — "ideologicamente" — il suo materiale fallimento rispetto agli obiettivi propagandati, non alla sua concreta prassi politico/sociale bensì ad una "cattiva applicazione" di questa.
  4. In virtù di tale sua caratteristica, questo sistema di idee permane a lungo nella mente e nei comportamenti delle classi dominate e risulta di difficile estirpazione, continuando a produrre i propri effetti di subordinazione delle classi soggiogate, che sembrano nei suoi confronti in preda ad una sorta di coa-zione a ripetere, apparentemente incuranti dei fallimenti a ripetizione e dei relativi danni che esso gli procura.

Un'ideologia è dunque un classico esempio di simulazione involontaria, che si distingue dalla truffa proprio per il suo carattere inconscio. Nel caso che intendessimo truffare una persona vendendogli, ad esempio, un videoregistratore finto, saremmo perfettamente coscienti dell'imbroglio e, noi, un tale oggetto non l'acquisteremmo mai. Se, invece, fossimo preda di un tipico meccanismo ideologico, non solo cercheremmo di "venderlo" ad altri propagandolo, ma lo faremmo innanzitutto nostro, "acquistandolo" in prima persona e pagandone il relativo prezzo. É per questo motivo che l'ideologia ha una maggiore potenza di propagazione virale rispetto alla banale truffa. Mentre il truffatore gode platealmente i vantaggi dell'azione, svoltasi tutta a nostro danno, l'ideologo assai spesso non riceve alcun vantaggio dalla sua adesione comportamentale al meccanismo ideologico, anzi ne condivide con gli altri i danni. Per cui, se è raro che il truffatore imbrogli due volte di seguito la stessa persona, l'ideologo appare, anzi è, in perfetta buona fede e, denunciando il mancato raggiungimento degli obiettivi come dovuto a cause esterne all'ideologia stessa, può continuare a propagarne il meccanismo, proiettandone potenzialmente all'infinito i danni.

Ovviamente c'è anche chi, appartenendo alle classi dominanti, riceve notevoli vantaggi dalla prassi sociale innescata dall'ideologia e, di conseguenza, se ne fa anch'esso propagatore. Nonostante le apparenze però, il suo ruolo nella nascita, sopravvivenza e diffusione nell'"ecologia delle idee" del meccanismo ideologico è secondario: egli appare agli occhi delle masse più come un truffatore cosciente che altro, venendo etichettato, all'interno stesso del meccanismo ideologico, come una sorta di profittatore dell'idea, un "profanatore" di essa. Si pensi, solo per fare un esempio, all'immagine che semplici fedeli e basso clero di un po' tutte le religioni hanno del rapporto delle loro alte gerarchie con la religione in quanto tale. Questa non è vissuta come il fondamento ideologico dei privilegi goduti dai loro superiori, bensì come la "pura fonte" che questi, con il loro comportamento e la loro posizione nella gerarchia sociale, profanano e che occorre ricostituire nella sua purezza originaria. Lo stesso, sostanzialmente, può dirsi per il rapporto base/vertice nei movimenti politico/sociali organizzati gerarchicamente.

Da questo punto di vista l'ideologia possiede un'affinità formale con la provocazione perfetta — quella in cui polizie o servizi segreti riescono a convincere l'"utile idiota" a compiere direttamente l'azione provocatoria. In questo caso, infatti, possono essere le stesse vittime ad abbracciare la loro croce, difendendola a spada tratta contro ogni evidenza contraria, mostrando in pieno la loro "buona fede" nel subire insieme con gli altri le conseguenze negative delle loro azioni, anch'esse, come vedremo, ideologicamente condizionate.

 

Una simulazione volontaria: la provocazione

Un'azione provocatoria è invece un classico esempio di simulazione volontaria. Abitualmente nel bel mezzo della crescita di un movimento d'opposizione, viene compiuta — o fatta eseguire da quello che nel gergo dei servizi segreti si definisce l'"utile idiota" di turno — un'azione armata, le cui caratteristiche sono pressappoco le seguenti:

  1. L'azione in questione è rivolta o contro una parte della società "neutra" rispetto allo scontro in atto (e rispetto alla cui presa di posizione si svolge una battaglia politica tra l'apparato di potere e gli oppositori) o — in apparenza — contro lo stato stesso.
  2. L'azione è in varie maniere rivendicata o a nome di qualche parte del movimento d'opposizione (per giustificare la repressione complessiva di quest'ultimo e/o innescare processi di desolidarizzazione al suo interno), oppure a nome di un nemico paraistituzionale di questi (per compattare il movimento antigovernativo intorno alla struttura statale contro il "nemico comune").
  3. Una provocazione ben costruita è tipicamente ambigua. In altri termini, tale azione è volta ad ingenerare nel movimento d'opposizione l'irrisolvibile dubbio che essa possa essere stata effettivamente compiuta da qualche propria "scheggia impazzita", e/o la falsa certezza della colpevolezza del nemico politico paraistituzionale. Sia il dubbio sia la falsa certezza ingenerano automaticamente nel movimento un'enorme difficoltà a reagire in modo opportuno. In un caso, per paura di criminalizzare ulteriormente dei "compagni che sbagliano" ma che, in ogni modo, non sono "soggettivamente" dei provocatori, o, al contrario, per la frettolosa volontà irrazionale (scusa non richiesta, accusa manifesta) di dissociarsi al più presto possibile dai presunti provocatori, "soggettivi" o "oggettivi" che siano. Nell'altro caso, per l'automatica reazione di sdegno contro il nemico politico e/o per scaricare immedia-tamente su di lui eventuali responsabilità. Tutte queste reazioni sono proprio quelle volute dall'azione provocatoria. Esse conducono, le prime due, ad una sorta d'autorivendicazione dell'atto provocatorio; l'ultima, ad un'alleanza di fatto con lo Stato che si stava combattendo; in tutti i casi ad una paralisi, per lo meno momentanea, del movimento nei confronti dei suoi obiettivi iniziali.
  4. Il dubbio e la confusione aumentano nel movimento in maniera esponenziale se lo stato, invece di compiere in prima persona l'azione incolpandone poi altri, riesce a farla compiere all'utile idiota di turno. Il massimo si raggiunge quando i corpi dello stato riescono a far eseguire da infiltrati su cui non gravano sospetti — o addirittura da persone in buona fede — un'azione in sé per lo meno "giustificabile" agli occhi del movimento antigovernativo, ma che per motivi "accidentali", per un "errore", ecc., si trasforma in un'azione esecrabile.
  5. Immediatamente dopo l'azione provocatoria parte una massiccia campagna di disinformazione da parte dei mass-media di regime, mentre si intralciano e criminalizzano le strutture di controinformazione dei movimenti d'opposizione. S'impedisce così la comunicazione corretta sull'accaduto, costringendo lo stesso movimento antigovernativo a parametrare, almeno in un momento iniziale, le proprie opinioni sulle informazioni fornite ad arte dallo Stato.
  6. Quanto finora detto, utilizzando a scopo esemplificativo lo stato ed i movimenti di opposizione ad esso, è ampiamente replicabile all'interno dei singoli corpi sociali. Le dinamiche descritte restano sostanzialmente le stesse anche quando sono parti dello Stato a porsi l'obiettivo di provocare altri corpi dello Stato, quando parti dei movimenti di opposizione fanno lo stesso nei confronti di alcuni loro compagni di strada, ecc.

 

Il "dilemma dei prigionieri"

Una provocazione struttura quindi un contesto di totale indecidibilità, da parte dei movimenti d'opposizione, sulla condotta da tenere e determina, solitamente, paralisi o atteggiamenti del tutto irrazionali rispetto allo scopo. I movimenti d'opposizione vengono, in pratica, a trovarsi in una situazione molto simile al "dilemma dei prigionieri" presentato e studiato dalla Teoria dei Giochi.

Un giudice istruttore sta trattenendo due uomini sospetti di rapina a mano armata. Le prove sono insufficienti (...) [dice allora loro] che per farli condannare ha bisogno di una confessione. Non nasconde che se nessuno dei due confessa, può accusarli soltanto del possesso illegale di armi da fuoco, un'imputazione che comporta sei mesi di reclusione. Se entrambi confessano riceveranno la condanna minima prevista per la rapina a mano armata, cioè due anni. Tuttavia, se a confessare è soltanto uno dei due, questi sarà considerato testimone di stato e verrà liberato, mentre l'altro riceverà vent'anni, la sentenza massima prevista dalla legge. Senza dare ai due uomini l'opportunità di giungere ad una decisione unanime, il procuratore li fa rinchiudere subito in due celle separate in modo che non possano comunicare.

[Ai prigionieri], dal momento che sei mesi di prigione sono senz'altro il male minore in paragone ai due anni, per non parlare dei venti, la logica detta loro di non confessare. Ma giunti a questa conclusione, nella solitudine delle loro celle separate, sorge nella loro mente un dubbio: "E se il mio compagno (...) approfitta della situazione e confessa? In tal caso lui viene liberato, ed è questa la cosa più importante per lui, e io non ricevo più sei mesi, bensì vent'anni. Pertanto (...) sarò più al sicuro confessando, poiché se lui non confessa, sarò io a essere liberato. Ma (...) se faccio questo, non solo tradisco la fiducia del mio compagno (...) [ma] se lui è sleale quanto me (...) confesseremo tutti e due e saremo condannati a due anni, un esito peggiore dei sei mesi che potremmo ricevere se negassimo entrambi il crimine". (...)

Le situazioni umane tipiche del dilemma dei prigionieri (...) insorgono ogni qual volta due o più persone vengono a trovarsi in uno stato di disinformazione conseguente alla necessità di prendere una decisione in comune, e per una ragione o per l'altra non possono comunicare e accordarsi sul corso di azione migliore. Nel caso dell'originale dilemma dei prigionieri abbiamo visto che esistevano due ragioni per questa incapacità di giungere ad una decisione definitiva: la mancanza di fiducia e l'impossibilità di comunicare. Nelle situazioni di vita reale uno solo di questi fattori è già sufficiente per creare un punto morto. (...)

Ma si deve decidere, e quindi cosa si può fare? La risposta non è semplice e, come accade spesso con problemi difficili, la domanda più semplice è: cosa non si deve fare?

É evidente che la decisione non va presa sulla base del proprio giudizio meditato (che è l'unico criterio importante in una decisione non interdipendente). Piuttosto la mia decisione deve basarsi sulla mia meditata supposizione riguardo a quale l'altra persona riterrà essere la soluzione migliore e, esattamente come nel caso dei due prigionieri, la decisione dell'altra persona sarà a sua volta determinata da quel che lui pensa che io pensi sia la decisione migliore. Troviamo pertanto che tutte le decisioni interdipendenti, nell'assenza di comunicazione aperta e libera, si basano su questo regresso teoricamente infinito di quel che penso che lui pensa che io penso che... (...)

Una decisione interdipendente, per riuscire (nell'assenza di comunicazione diretta), deve basarsi su qualche "visione del mondo" comune a entrambe le parti, su qualche assunto tacitamente condiviso, o su qualche elemento che, per la sua evidenza, la sua eminenza fisica o metaforica o qualche altra sua qualità unica, si distingua particolarmente dalle altre numerose possibilità egualmente presenti nella maggior parte delle situazioni.

É da notare ora che i prigionieri potrebbero essere anche entrambi innocenti (di conseguenza il comportamento del giudice potrebbe inserirsi in un'azione provocatoria vera e propria) e, ciononostante, potrebbero trovarsi a decidere entrambi di confessare un delitto non commesso. L'azione provocatoria tende a creare esattamente contesti di tal genere, in cui svanisca il senso stesso del termine "evidenza" ed il tessuto sociale colpito si trovi letteralmente avviluppato dall'ambiguità radicale della provocazione.

 

Il "dilemma dei movimenti"

Utilizziamo ora il modello del dilemma dei prigionieri per comprendere il "dilemma dei movimenti" politici antigovernativi sottoposti ad una provocazione. Innanzitutto, tali movimenti sono di solito compositi ed eterogenei, ed esistono ordinariamente forti battaglie tra le varie componenti per la supremazia. Lo Stato, nel portare avanti l'azione provocatoria, fida nel fatto che le gelosie reciproche renderanno difficile prendere le decisioni corrette; ad ogni buon conto, provvede a rendere ancor più difficile la comunicazione — isolando i prigionieri eventualmente accusati dell'atto, veicolando campagne di stampa depistanti, operando arresti e perquisizioni a tappeto, ecc.

L'ambiguità dell'azione provocatoria compiuta o fatta compiere dallo stato mette quindi il movimento antigovernativo in una situazione di stallo. Questi non ha sufficienti informazioni e/o fiducia sul fatto di essere "del tutto innocente" per agire in modo efficace. Puntando tutto sulla sua "innocenza", corre il rischio di risultare "colpevole" agli occhi delle masse per via dell'incriminazione senza possibilità di scampo di qualche propria componente. Accentrando invece la propria strategia di difesa sulla colpevolezza e/o provocatorietà ("soggettiva" o "oggettiva") di una qualche "scheggia impazzita" senza potere oggettivamente dimostrare tale premessa, corre il rischio di creare spaccature al proprio interno. Il risultato finale di tale situazione di stallo sono reazioni disordinate ed inefficaci.

 

Le autoprovocazioni dei movimenti

Al movimento in questione viene insomma a mancare un elemento unitario di decisione in tali frangenti, una "visione del mondo comune" sul da farsi. In effetti una visione del mondo tesa ad annullare gli effetti dell'azione provocatoria si scontra con due enormi condizionamenti mentali che, solitamente, sono presenti in modo forte nella mentalità dei militanti dei movimenti antigovernativi: innanzitutto un irrazionale sentimento di responsabilità collettiva e, in secondo luogo, un fraintendimento del concetto di solidarietà.

Abbiamo ricordato che all'interno dei movimenti d'opposizione antigovernativi si svolgono lotte feroci per il predominio politico. V'è però almeno una fase in cui tutte le tendenze che lottano per la conquista del potere politico svolgono una strategia comune: quella di trasformare l'abitudine dei militanti allo scontro contro il nemico comune in una sorta di sentimento di "appartenenza al branco". Tale strategia si concreta nella demonizzazione di fatto del dissenso, nell'invocazione dell'"unità del movimento" contro il nemico comune, nelle accuse di "essere fuori dal movimento" rivolte contro chiunque non vuol rinunciare alla propria opinione e conseguente prassi politica. Un irrazionale senso di responsabilità collettiva invade così completamente il movimento d'opposizione invischiatosi in tali tentativi di unitarietà politica a tutti i costi.

Tale senso di responsabilità collettiva porta istintivamente i militanti di movimenti d'opposizione (che contano magari milioni d'aderenti e decine di componenti interne!) a sentirsi irrazionalmente responsabili della condotta politica di tutti gli altri membri. Un tale "sentimento del branco" è tra le cose che invischiano i movimenti antigovernativi nelle trame di una provocazione statale. Si tratta di un sentimento del tutto inutile operativamente — essendo impossibile un tale paranoico controllo — ma che crea nella mente dei militanti d'opposizione un ineliminabile senso di corresponsabilità per l'eventuale altrui idiozia. Accade così che il senso di responsabilità collettiva porti il movimento a comportarsi come l'innocente che, di fronte alla polizia, pensa di poter essere in qualche modo ritenuto corresponsabile di un delitto perché conosceva, anche se in maniera del tutto accidentale, l'assassino. Tali suoi comportamenti "nervosi", verbali e non verbali, verranno in modo implicito e/o esplicito veicolati dai mass-media alle masse come segni di "colpevolezza collettiva", rendendo difficile la credibilità della strategia di difesa contro la provocazione.

Altro elemento di difficoltà è, come dicevamo, un malinteso senso di solidarietà. É tradizionale nei movimenti, di fronte agli autori di un'azione avente le caratteristiche della provocatorietà, operare la classica distinzione tra il provocatore "soggettivo" (l'infiltrato vero e proprio) e quello solamente "oggettivo" (il "compagno che sbaglia" in buona fede). Tale distinzione può anche avere un fondamento: il problema è che il solo tentare di porla aumenterà a dismisura l'ambiguità dell'azione provocatoria, rafforzandola enormemente.

Cercando di operare tale distinzione si entra difatti in un terreno a dir poco minato, dal momento che è assolutamente impossibile distinguere tali elementi in modo oggettivo. Il tentativo di discernere il provocatore "soggettivo" da quello solamente "oggettivo", per comportarsi conseguentemente, avrà dunque il solo effetto di creare spaccature e nuove lacerazioni nel movimento tra chi rivendica al movimento — di là dall'oggettivo errore compiuto — l'autore dell'atto provocatorio e chi nutre forti dubbi in proposito. Gli effetti negativi di un'azione provocatoria, compiuta in buona fede o meno nei confronti di un movimento, possono così durare decenni.

 

Il "compito in classe del tutto imprevisto ed imprevedibile"

Come possono i movimenti antigovernativi difendersi dalle provocazioni degli organi dello Stato? Almeno in teoria, la faccenda non è impossibile da affrontare, dal momento che il carattere di strutturale ambiguità dell'azione provocatoria la rende facilmente riconoscibile. In realtà, è solo il tentativo di volerla analizzare troppo in profondità — in particolare l'impossibile ma fascinosa lusinga di cercare di capire se si tratti di una provocazione statale diretta o dell'azione di "utili idioti", "schegge impazzite", ecc. — che avviluppa il movimento in una spirale di contraddizioni e lo riduce all'impotenza.

Ancora una volta la Teoria dei Giochi può offrirci uno spunto interessante per comprendere la situazione. La situazione analizzata è quella di una classe che ha completa fiducia nel fatto che il suo professore mantiene sempre le sue promesse. Un sabato questi si presenta in aula ed annuncia alla classe: "La prossima settimana vi sarà un compito, in un giorno per voi del tutto imprevisto ed imprevedibile".

É ovvio che l'intenzione del docente è di esaminare i suoi allievi un giorno in cui essi non si siano specificamente preparati ad affrontare un lavoro scritto. Alcuni studenti tra i più "intelligenti" cercano di affrontare il problema. Cominciano con l'escludere il sabato come possibile giorno del compito in base al seguente ragionamento: "Se saremo arrivati fino il venerdì senza che ci sia stato il preannunziato compito imprevisto, non potrà certamente esserci il sabato, perché altrimenti il compito non sarebbe più, per definizione, imprevisto". Non appena essi hanno escluso il sabato, essi si rendono conto che un tale ragionamento è perfettamente ripetibile anche per il venerdì, anzi per tutti gli altri giorni della settimana prossima: "Se abbiamo già escluso il sabato, allora il compito imprevisto non potrà esserci nemmeno il venerdì; ma allora neanche il giovedì, il mercoledì e il martedì, poiché lo stesso trascorrere dei giorni ci offrirebbe di volta in volta informazioni sul giorno del compito, rendendo tali giorni prevedibili e, quindi, inadatti allo svolgimento di un compito imprevisto. Resterebbe solo il primo giorno della settimana, il lunedì, ma proprio per ciò esso è il più prevedibile di tutti ed è quindi anch'esso da scartare."

Questi studenti comunicano il loro ragionamento, acquistando vari consensi sul fatto che il professore non può assegnare alcun compito in un giorno del tutto imprevisto ed imprevedibile — dunque non ne assegnerà nessuno. Ma il professore faceva affidamento proprio su tale ragionamento per rendere del tutto imprevisto ed imprevedibile l'assegnazione di un compito durante la settimana seguente. Questo così potrà arrivare in un qualsiasi giorno e ciononostante essere davvero del tutto imprevisto ed imprevedibile, cogliendo così alla sprovvista la maggior parte della classe.

Gli studenti, insomma, si sono raggirati da soli proprio tramite il tentativo di capire il giorno in cui poteva arrivare il compito "del tutto imprevisto e imprevedibile". Si sono salvati, nella classe, preparandosi al compito, gli studenti troppo "stupidi" per seguire i compagni intelligenti nei loro ragionamenti ed hanno colto, nel discorso del professore, solo l'informazione essenziale — che in un giorno della settimana seguente si sarebbe svolta una verifica delle loro conoscenze. Si sono salvati anche gli studenti molto intelligenti, che hanno compreso che il tentativo stesso di cercare di comprendere la data del compito era ciò che lo rendeva "del tutto imprevisto ed imprevedibile", adeguandosi perciò alla prassi degli studenti "stupidi" (ma fino a che punto, vista la magra figura dei loro compagni "intelligenti"?).

I movimenti antigovernativi dovrebbero perciò rifiutare le false alternative — "soggettività" o "oggettività", "colpevolezza" o "innocenza" — innescate dall'azione provocatoria dello stato. Dovrebbero, invece, accentrare la loro attenzione esclusivamente sul fatto che un'azione provocatoria è stata compiuta, e che occorre assolutamente mettere fuori gioco la sua potenza devastante — insomma toglierne di mezzo l'ambiguità.

 

L'ideologia all'opera

Come nella provocazione è simulata un'inesistente azione armata contro se stessi, nell'ideologia troviamo la simulazione di un altrettanto inesistente rapporto mezzi/fini nell'azione politica. In entrambi i casi il risultato è un "vantaggio di posizione" a tutto favore delle classi dominanti. Per approfondire i legami che uniscono strutturalmente la simulazione volontaria della provocazione con la simulazione involontaria dell'ideologia, analizzeremo ora un caso specifico. Il nostro intento sarà quello di mostrare all'opera i meccanismi di formazione, sopravvivenza e diffusione di un meccanismo ideologico oggi assai diffuso: "La situazione attuale è dovuta al fatto che finora abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi, per cui se vogliamo uscire dalla crisi adesso occorre che facciamo sacrifici".

La situazione, ben conosciuta, è la seguente. I governi di tutto il mondo piangono miseria, sbandierando ai quattro venti lo spettro della recessione e di un deficit pubblico simile ad un baratro senza fondo; allora, per "combattere" detta recessione e contemporaneamente risanare le finanze statali, tagliano le spese ed aumentano le entrate. Le spese tagliate sono solitamente quelle cosiddette sociali (assistenza sanitaria, servizi pubblici, ecc.) e le nuove entrate sono ricavate quasi esclusivamente dal reddito della classe lavoratrice. Contro le previsioni, immancabilmente, anno per anno, il deficit di bilancio aumenta e la recessione pure. I governi allora piangono nuove lacrime e invitano "tutti" ad ulteriori sacrifici, aumentando le tasse e diminuendo le spese con le stesse modalità di prima, dopo di che l'anno dopo ci si accorge nuovamente che deficit e recessione aumentano invece di diminuire; quindi la storia ricomincia identica.

Il motivo fondamentale di tale situazione, in apparenza alquanto strana, per cui uno stato tutto teso al risparmio non fa che aggravare il suo deficit, è in realtà assai semplice: gli stati riconvertono tutti i denari "risparmiati" in finanziamenti versati più o meno direttamente nelle tasche delle grandi aziende pubbliche e private. Il meccanismo è il seguente. Gli stati accusano in continuazione i lavoratori di "guadagnare troppo", d'essere sino a questo momento "vissuti al di sopra dei propri mezzi" (o meglio, di quelli della nazione) e, di conseguenza, d'essere la causa della recessione in atto. Riducono pertanto il salario reale di questi ultimi, i quali ovviamente sono costretti a contrarre i propri consumi; tale fatto di per sè aggrava la recessione in atto. Le grandi aziende allora chiedono allo stato varie forme di finanziamento a fondo perduto per assorbire le conseguenze delle minori spese dei lavoratori salariati, finanziamenti che lo stato regolarmente concede chiedendo, al contempo, nuovi sacrifici ai lavoratori per contenere il deficit. Grazie a questi nuovi sacrifici i salariati hanno ancora meno soldi da spendere, la recessione riprende, le grandi aziende ottengono nuovi finanziamenti dallo stato, questo impone ai lavoratori nuovi sacrifici, ecc.

Resta da domandarsi perché i lavoratori non riescano a ribellarsi a questo stato di cose. Il fatto è che la maggioranza di essi é più o meno consciamente convinta che la colpa della recessione é tutta loro, che essi in pratica "guadagnano troppo" per permettere l'ordinato svolgersi dell'accumulazione capitalistica — mentre la causa reale della recessione é esattamente l'inverso: che essi guadagnano troppo poco per sostenere la crescita dell'economia in un momento dato. I sindacalisti quindi, nei confronti con la base, si giustificano col fatto che i sacrifici cui hanno dato il loro consenso sono rivolti ad evitare il male peggiore in tempo di crisi, in altre parole i licenziamenti a catena; i lavoratori solitamente mugugnano, fischiano, alzano anche le mani ma, alla fine, lasciano stare solitamente le cose come stanno. Ovviamente la minaccia dei licenziamenti é una cosa di cui non si dovrebbe tenere alcun conto — tanto questi avverranno in ogni caso, visto che grazie alla politica "risanatrice" del governo la recessione aumenterà proprio a causa di questi stessi sacrifici — ma i lavoratori sono oramai entrati in questo perverso gioco di autocolpevolizzazione e nella gran maggioranza dei casi non sanno chiedere altro che nuovi finanziamenti a fondo perduto alle proprie imprese in crisi, perpetuando in una spirale perversa la propria miseria materiale e sudditanza politica.

 

La simulazione involontaria della vittima come fondamento della simulazione volontaria del carnefice

Ora possiamo giungere a comprendere un dato fondamentale: ciò che definivamo in precedenza le "autoprovocazioni" dei movimenti, non sono altro che meccanismi ideologici. In apparenza il ragionamento dei lavoratori che si ritengono in qualche misura "colpevoli" della recessione in atto, sembra avere un "ovvio" fondamento. In fin dei conti, se una famiglia è rovinata dai debiti, ciò non significa che "è vissuta al di sopra dei propri mezzi", in altre parole che ha speso in misura maggiore delle proprie entrate? Ciò non varrà dunque, così si dice o sottintende, anche per quella "grande famiglia" che in fondo è una nazione?

Ebbene, se la prima cosa è sicuramente vera, la seconda no. Quest'analogia, nonostante la sua apparente "ovvietà", non ha alcun senso logico né tanto meno oggettivo. Come abbiamo appena visto, infatti, le leggi che regolano il deficit di bilancio di un sistema economico ristretto e relativamente chiuso come una famiglia di lavoratori dipendenti, non sono affatto le stesse che regolano un sistema economico ampio e interconnesso come una nazione — tant'è vero che, applicando alla pretesa "grande famiglia" le regole che riducono il deficit di bilancio della famiglia in senso stretto, i risultati sono disastrosi. Credendo di fare i propri interessi, nel momento stesso in cui accusano le classi dominanti di aver speso le pubbliche risorse di là dalle possibilità di bilancio, accettano di fatto l'idea che sia necessario, per uscire dalla recessione, fare "sacrifici" (sia pure "tutti", "egualitariamente", ecc.). Le classi lavoratrici offrono così spontaneamente allo stato la copertura ideologica perché questi diminuisca il loro livello di vita e di capacità contrattuale, aumentando di conseguenza quello delle classi dominanti.

Niente di sostanzialmente diverso avviene quando i movimenti politici d'opposizione si lasciano avviluppare dai sensi di responsabilità collettiva. Anche qui quella che scatta è un'analogia tanto apparentemente ovvia quanto oggettivamente del tutto impropria. Una famiglia, di fronte alle difficoltà della vita, non raggiunge i migliori risultati se si comporta unitariamente? Lo stesso non deve allora fare la "grande famiglia" del movimento politico/ sociale contro il nemico comune?

Come nel caso precedente, se la prima cosa è vera, la seconda è invece del tutto falsa. Una famiglia, e in genere una piccola comunità umana, è composta di pochi membri; il coordinamento delle loro azioni è perciò relativamente agevole e, di conseguenza, vantaggioso nell'ottica del rapporto sforzi/benefici. La stessa cosa non si può affatto dire per un gruppo umano un po' più numeroso e, nel caso di movimenti politico/sociali composti da centinaia, migliaia, magari milioni di individui raggruppati in varie sottocomponenti interne, un simile coordinamento delle azioni diventa addirittura del tutto impossibile. Questo a meno che l'eterogeneo movimento in questione si trasformi in un partito rigidamente centralizzato — ma tutto ciò implica, nella maggior parte dei casi e a parte qualunque altra considerazione, un abbandono degli obiettivi ini-ziali del movimento stesso a tutto vantaggio di una feroce lotta intestina per il predominio politico di una parte su tutte le altre.

Ciononostante, la maggioranza dei membri di un movimento d'opposizione, in preda al meccanismo ideologico della "necessaria unità del movimento contro il nemico comune", vorrebbe la botte piena e la moglie ubriaca. Vorrebbe, in altri termini, che il movimento agisse come un sol'uomo gratuitamente, senza pagare lo scotto del feroce scontro interno per il predominio. Il risultato di tale pia speranza è un puro sentimento di responsabilità collettiva, che ha l'unico effetto d'esporre il movimento alla potenza devastante di una provocazione politica sufficientemente ben organizzata. Lo stesso discorso può farsi per il malinteso senso di solidarietà di un movimento nei confronti di un provocatore "oggettivo" ma non "soggettivo". Non giudichiamo un nostro errore assai diversamente se sappiamo d'averlo compiuto in buona o in cattiva fede? Non dobbiamo allora fare la stessa nei confronti del provocatore "oggettivo", distinguendolo dall' infiltrato? Il fatto è però che quest'ultima operazione, come abbiamo visto in precedenza, è del tutto impossibile da compiere, e porta l'unico risultato concreto di aumentare a dismisura la potenza dell'azione provocatoria.

Un movimento che rifiuta il senso di responsabilità collettiva e di interrogarsi sulle dinamiche interne dell'autore del gesto provocatorio, che rimanda continuamente alla responsabilità individuale degli atti compiuti, è pressoché impermeabile alle provocazioni. La provocazione, quale particolare e devastante forma di simulazione volontaria di un comportamento sociale distruttivo, con tutto il suo corollario di devastazioni, di morti, di angosce individuali e collettive, si mostra possibile solo a partire dall'accettazione, da parte delle persone avviluppate nella sua logica, di determinati e di per se altrettanto devastanti meccanismi ideologici. La simulazione involontaria della vittima è il fondamento della possibilità di riuscita della simulazione volontaria del carnefice. Lo stesso credere che le forme di responsabilità collettiva siano costitutive di un movimento, è il risultato di infinite provocazioni portate a buon termine, che hanno portato a interiorizzare le proprie catene.

Come nel caso del compito "imprevisto ed imprevedibile", ci vediamo anche qui portati verso un paradossale elogio della "stupidità". Di fronte ad un meccanismo ideologico, l'unica via di fuga è attenersi strettamente all'informazione essenziale, l'unica che si può ragionevolmente controllare: gli obiettivi propagandati vengono raggiunti? In altri termini, cui prodest? E, di fronte ad una risposta negativa od inquietante, comportarsi "stupidamente" di conseguenza.

Enrico Voccia  (Shevek)


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