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  •  caio
      caio
L'iraq dalle stelle alle stalle
#1
Ho qualche dubbio
Iscritto il: 22/4/2005
Da Padova
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Potrebbe interessare a pochi, ma in una sezione dedicata alle cospirazioni mi sembra possa starci a fagiolo un lungo articolo che scrissi 11 anni or sono sulla prima guerra del Golfo, un argomento che a qualcuno potrebbe sembrare vecchio e sorpassato, ma non lo è assolutamente, soprattutto dal mio punto di vista di appassionato di storia antica.

Io seguo come un mantra una visione della storia che dev’essere studiata globalmente nelle sue complesse vicende e non per comparti a sé stanti, un metodo seguito nei tempi antichi da Tucidide e soprattutto, da Polibio. Chi vuol comprendere cos’è successo in Iraq negli ultimi 25 anni, non può non prendere in considerazione gli anni ’80, la guerra Iran-Iraq e il concetto dello scontro tra civiltà teorizzato da un famoso libro di Samuel Huntington, professore di Scienze Politiche all’università di Harvard. Secondo Huntington, l’intrinseca violenza presente nei regimi e nell’ideologia islamici, coinvolgerà sicuramente l’intero pianeta e da uno scenario simile il mondo occidentale deve difendersi. Le tesi di Huntington sono contestate aspramente e non solo nel mondo islamico, ma nello stesso tempo trovano condivisione negli ambienti della destra ultraconservatrice vicina ai falchi repubblicani statunitensi.

L’altro aspetto è ben noto a tutti: il petrolio. Ridicolo pensare che la politica estera degli Stati Uniti rivolta al controllo delle risorse petrolifere mondiali – ripeto: rivolta al controllo delle risorse, non facciamo l’errore di pensare che gli statunitensi vogliano bere petrolio nei bar – sia nata con la crisi del Golfo del 1990.

1948

Un documento redatto nel 1948 dal Dipartimento di Stato USA, declassificato recentemente, pone gli obiettivi della politica estera statunitense. Partendo dal proprio punto di vista di vincitori assoluti della seconda guerra mondiale, il responsabile del Dipartimento di Stato, George Kennan, scrisse tra le altre cose:

“Noi possediamo circa il 50 per cento della ricchezza prodotta sulla Terra, ma solamente il 6,3 per cento della popolazione mondiale […]. In una tale situazione, non possiamo evitare di essere oggetto di invidia e risentimento”.

Da queste considerazioni, continua Kennan, nasce l’esigenza di creare un cordone di relazioni che permetta agli Stati Uniti di mantenere la propria sicurezza nazionale e per fare questo,

“dovremo abbandonare ogni forma di sentimentalismo e idealismo e concentrare tutta la nostra attenzione sui nostri immediati obiettivi nazionali. […] Non dobbiamo illuderci di poterci permettere il lusso dell’altruismo o di poter agire come benefattori del mondo”.
[Policy Planing Staff, “Review of Current trends: US Foreign Policy”, 24 febbraio 1948]

Non è un concetto inedito della politica estera statunitense. Sin dalla fine del XIX secolo, con la progressiva frantumazione dell’impero coloniale inglese, gli Stati Uniti sono diventati la massima potenza mondiale economica e militare e questo sulla base di un nuovo modus operandi: non conquiste territoriali dirette (a parte l’episodio delle Filippine all’inizio del XX secolo), ma interventi militari con l’obiettivo di porre le nazioni sotto la propria sfera d’influenza e di conseguenza, adozione del “principio della porta aperta”, come scritto in un documento del 1944 del Dipartimento di Stato USA, il principio che prevede accesso illimitato alle risorse per le aziende statunitensi, ma non per gli altri paesi. È lo stesso, esatto modus operandi seguito dall’impero ateniese, sotto il nome Lega Delio-Attica, dopo la vittoria della Grecia (quasi) unita sull’impero persiano, dal 478 a.C.: la patria della democrazia antica e i fautori dell’esportazione della democrazia dei tempi moderni.

IRAQ INGLESE

L’Iraq che conquistò l’indipendenza nel 1932, dopo la dominazione inglese, cominciò fin da subito a reclamare la propria sovranità sull’immenso accesso al Golfo Persico di uno sceiccato confinante protetto dalla corona inglese, il Kuwait. La provincia Iraqena che Saddam Hussein rivendicò come pretesto per l’invasione del 2 agosto 1990, ha una storia complicata alle spalle, che non è il caso di trattare. Resta il fatto che la rivendicazione e la successiva invasione di Saddam Hussein, nascondevano ben altre questioni, molto più complesse. Il quadro complessivo della vicenda rientra nella strategia delineata nei pochi paragrafi precedenti, una strategia che, per quanto riguarda i paesi del Golfo Persico e le nazioni islamiche in generale, trova incondizionato appoggio teorico nello scontro tra civiltà di Samuel Huntington e altri oscuri interessi che ben poco hanno a che fare con le ideologie e le tesi etnico-politico-religiose.

Un documento del Foreign Relations of the United States del 1945, chiarisce la politica da perseguire negli stati con le maggiori risorse petrolifere:

“La nostra politica nei confronti dell’Inghilterra si fonda sul reciproco riconoscimento di un’assai ampia comunanza d’interessi e sul controllo, almeno temporaneo, di gran parte delle libere risorse petrolifere del mondo…”.

È impossibile comprendere la storia recente del Medio Oriente, se non si parte da questi chiari e fondamentali princìpi di politica estera del paese più potente della Terra, come risulta chiaro anche da un altro documento del 1953:

“La politica degli Stati Uniti è di mantenere le fonti petrolifere mediorientali nelle mani dell’America”.

IRAN-IRAQ

Saltando a piè pari la storia recente dell’area mesopotamica, chiaramente troppo lunga e complicata da esporre in questa sede, cerchiamo di comprendere come e perché sia stata creata la dittatura irachena e i problemi ad essa connessi.

Il primo tassello della storia recente, si può individuare nel colpo di stato che pose sul trono della Persia lo “Shah-an-Shah”, il re dei re Mohammad Reza Pahlevi, per mano della CIA e dei servizi segreti inglesi. Reza Pahlevi depose un leader iraniano democraticamente eletto, Mossadeq, dalle intenzioni deleterie per quanto concerneva i rapporti con l’occidente: uno dei punti di forza del suo governo, riguardava la nazionalizzazione delle risorse petrolifere del paese. L’intervento occidentale, avvenuto nel 1953, in piena guerra fredda, fu legittimato come “una forma di lotta contro il comunismo”, anche se diplomatici dell’epoca, come l’ambasciatore inglese a Teheran, esclusero che il pericolo fosse reale. La stessa ambasciata USA iraniana, in quel 1953, relazionò in tal senso.

Mossadeq fu eliminato per la sua politica nazionalista e in un paese dalle grandi risorse petrolifere, questo si scontra con i dettati di politica estera statunitense che abbiamo visto in precedenza. Lo scià Reza Pahlevi cambiò immediatamente rotta e per fare questo dovette attuare una violenta repressione politica interna. Le risorse petrolifere dell’Iran arricchirono una parte minima della borghesia del paese e lasciarono nella più assoluta povertà milioni d’iraniani, mentre un flusso inarrestabile di petrodollari navigava verso l’occidente. Secondo una stima prudente di Amnesty International, il regime dello scià provocò diecimila vittime e non meno di centomila prigionieri politici. Negli anni ’70, il regime dello scià, visto a dir poco benevolmente dall’occidente, aveva il più alto tasso di esecuzioni mediante pena di morte del mondo e un ricorso alla tortura che non aveva eguali in alcun altro paese. Tutto questo non provocò ondate di sdegno nel mondo occidentale, anzi, come scrisse un esperto statunitense di politica moediorientale, “Più il regime diventava dittatoriale, più stretti si facevano i rapporti tra USA e Iran”.

Uno dei personaggi religiosi più influenti del paese, l’ayatollah Khomeini, fu tra i pochi che osarono levare la propria voce contro il regime dello scià, contro la tortura e contro la destituzione e lo scioglimento incostituzionale del parlamento iraniano. Dopo aver conosciuto il carcere, Khomeini fu esiliato nel 1964, ma nonostante una così prolungata lontananza, la sua effigie riempì le piazze durante i moti di rivolta del 1978, repressi con la consueta violenza dal regime dello scià, con l’apice delle centinaia di morti dell’8 settembre 1978. Appoggiato incondizionatamente dalle dichiarazioni dell’allora presidente USA Jimmy Carter, lo scià alla fine fu costretto ad abbandonare il paese, che accolse in patria l’esiliato ayatollah Khomeini.

L’occidente assistì quasi allibito ai fatti iraniani del 1978-79, al consenso quasi totalmente unanime (noi diremmo bulgaro) rivolto a Khomeini e alle elezioni che si svolsero nella correttezza più assoluta, come dichiarato dagli osservatori internazionali. Le considerazioni sulle implicazioni democratiche del nuovo regime, non sono alla base del rifiuto occidentale verso gli ayatollah, come dimostrato dalla brutale politica dello scià che lo precedette. Il nazionalismo iraniano avrebbe espulso le aziende occidentali dai propri campi petroliferi e potenzialmente avrebbe potuto innescare un’ondata di rivendicazioni panislamiche nella regione e nel mondo arabo in generale. Bisognava fermare immediatamente Khomeini e il mezzo era proprio lì accanto, pronto per essere messo in moto.

IL NUOVO PRESIDENTE SADDAM HUSSEIN E LA GUERRA IRAN-IRAQ

La storia dell’Iraq indipendente vede nel 1958 la scalata al potere di Abdul Karim Passim, un altro leader che, come l’iraniano Mossadeq, rivelò la propria intenzione di nazionalizzare i pozzi petroliferi iracheni (come fece con l’inglese Iraq Petroleum) e rivendicò la sovranità del proprio paese sulla provincia kuwaitiana, non ancora stato indipendente. Un leader potenzialmente destabilizzante per l’occidente non si può che eliminare.

Le riunioni tra agenti della CIA e membri del partito Ba’ath, un piccolo movimento nazionalista iracheno che aveva importanti agganci nell’esercito, avvennero nel Kuwait. Lo scambio fu chiaro e preciso: appoggio della CIA nel tentativo di colpo di stato, in cambio dell’eliminazione dei partiti e dei leader comunisti e dei loro alleati, una volta al potere. Il colpo di stato fu messo a segno nel 1963, quando Saddam Hussein, in esilio in Egitto fino a quel momento, tornò per partecipare alla carneficina che ne seguì. La corsa verso il potere assoluto di Saddam Hussein si concluse nel 1979, quasi contemporaneamente alla rivoluzione iraniana. Il nuovo presidente iracheno tornò immediatamente utile agli Stati Uniti e agli alleati occidentali.

L’appoggio a Saddam Hussein non si limitò al rifornimento militare, che tra le altre commesse, comprendeva armi di distruzione di massa chimiche e biologiche, ma interessò anche l’assistenza tecnica, l’addestramento militare e l’intelligence. Per fare un solo esempio, l’uso dei gas contro l’esercito iraniano fu possibile grazie ai rilevatori satellitari statunitensi. Un ex funzionario dei servizi segreti statunitensi dichiarò che,

“tutto venne fatto senza alcuna perplessità […]. Sapevamo esattamente dove andava a finire quella roba e ci siamo girati dall’altra parte per non vedere”.

Un funzionario dell’amministrazione Reagan, chiarì ancor meglio il concetto, riconoscendo che Hussein “è un bastardo. Ma all’epoca era il nostro bastardo”.

Con gli Stati Uniti, oltre ad alcuni paesi arabi come Giordania ed Egitto, i paesi maggiormente coinvolti nelle forniture all’Iraq furono Francia e Gran Bretagna (e un’altra ventina di stati). Prima della guerra con l’Iran, il paese di Saddam Hussein godeva di buona credibilità in occidente, specialmente in Francia, ma era comunque inserito nella lista statunitense dei paesi terroristi: il favore che Saddam Hussein e il suo paese stava recando all’occidente, fu suggellato il 26 febbraio 1982, quando il nome dell’Iraq fu depennato dalla lista.

QUANTO MI COSTI

Assunto al ruolo di paese non terrorista, l’Iraq divenne meta di forniture militari quasi senza alcuna restrizione: “La vera ragione [per la cancellazione dalla lista] era quella di aiutarlo a vincere la guerra contro l’Iran”, come ammise un funzionario del Dipartimento della Difesa statunitense.

Senza scendere in dettagliate e noiose liste, basti sapere che negli ultimi due anni dell’amministrazione Reagan (1987-1988), furono approvate 241 licenze per esportazioni cosiddette a doppio uso, consistenti, ad esempio, in apparecchiature civili che possono avere rilevanza in campo militare. Parte consistente di questa tecnologia, finiva direttamente al MIIM, il ministero dell’Industria e dell’Industrializzazione Militare iracheno, l’ente che seguiva i programmi di sviluppo nucleare, chimico e biologico.

È in quel periodo che Saddam sferra il suo attacco contro le popolazioni curde del nord del paese.

HALABJA

Le armi chimiche occidentali, usate da Saddam Hussein, sterminarono gran parte della popolazione curda di Halabja, una carneficina di cinquemila persone. Il massacro non passò sotto silenzio in occidente, ma le pressioni delle organizzazioni umanitarie non sortirono effetto. Sul massacro di Halabja non si sono aperti grandi dibattiti o programmi di studio, anche se su quell’episodio atroce scrisse a dir poco controcorrente un giornalista come Fulvio Grimaldi, ma non vorrei allungare troppo questo brodo.

Il massacro indicibile di Halabja ebbe come unica conseguenza un leggero inasprimento nei controlli delle forniture militari all’Iraq e una risoluzione di condanna da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. L’uso delle armi chimiche da parte dell’Iraq nella guerra contro l’Iran, era in flagrante violazione degli accordi di Ginevra del 1925, un protocollo che tentò di arginare il ripetersi delle atrocità della prima guerra mondiale; per quanto riguarda dei concittadini, come i curdi, invece, non si trovò nemmeno un riferimento simile. Le blande misure adottate verso l’Iraq non impedirono minimamente il continuo rifornimento militare al regime di Saddam Hussein.

In realtà, le forniture militari aumentarono proprio dopo il massacro di Halabja. Anche se può suonare ironicamente macabro, le esportazioni delle famigerate tecnologie a doppio uso raddoppiarono subito dopo il massacro curdo, mentre Amnesty International abbaiava al vento e ai sordi da anni. Dopo la fine dei lunghi anni di guerra tra Iran e Iraq, l’organizzazione internazionale umanitaria presentò un appello all’ONU dove si evidenziavano i rischi che “dopo la guerra [Iran-Iraq] in Iraq si possa verificare un ulteriore, importante deterioramento nel campo dei diritti umani”. A tutto questo fece seguito non solo il silenzio, ma un raddoppio delle forniture militari, come già scritto.

LA MIA LOBBY SUONA IL ROCK

Furono molti i gruppi di pressione che impedirono le sanzioni contro l’Iraq di Saddam Hussein e tra questi lo US-Iraq Business Forum, guidato da un ex ambasciatore statunitense in Oman e diplomatico operante a Baghdad, l’avvocato Marshall Wiley. La lista delle società coinvolte nell’Us-Iraq Business Forum chiarirà molte cose in seno al comportamento del gruppo e alla sua influenza nelle decisioni statunitensi: le compagnie petrolifere Amoco, Mobil, Exxon, Texaco, Occidental, le industrie della difesa Lockeed, Bell-Helicopter, United Technologies e inoltre AT&T, General Motors, Bechtel, Caterpillar… Quando le industrie, queste industrie, fanno affari, non c’è pensiero umanitario che tenga.

IRAQ IN ROVINA

Aiuti monetari e militari, tecnologie e quant’altro, non possono cancellare otto anni di guerra devastante. L’Iran dichiara la resa, ormai distrutto, ma la vittoria festeggiata in Iraq – e nell’occidente, non dimentichiamolo – ricorda molto da vicino una classica vittoria di Pirro. Il paese è sull’orlo della bancarotta, dissanguato letteralmente dal milione di morti, feriti e invalidi dovuti alla guerra e finanziariamente, a causa dei prestiti contratti nel periodo bellico. Saddam Hussein non è preoccupato: viene salutato come il salvatore, l’argine principale contro il fondamentalismo islamico ed è sicuro che l’occidente non potrà non aiutarlo, come è sempre successo durante gli otto anni di guerra. Il dittatore, però, non sapeva ciò che si stava preparando a Washington.

DIETRO LE QUINTE…

Il testo di riferimento è di Nafeez Mosaddeq Ahmed, giovane studioso inglese: “Dominio”, pubblicato da Fazi Editore nel marzo 2003.

Gli Stati Uniti, alla fine degli anni ’80, avevano bisogno di un fronte militare che giustificasse l’imponente spesa pubblica dedicata alla Difesa. L’Unione Sovietica stava crollando e la guerra fredda era ormai finita con la caduta della cortina di ferro. Vi sembra un quadro azzardato dato che il muro di Berlino cadde alla fine del 1989? Il disfacimento dell’impero sovietico non può essere collegato con la caduta del muro. Le previsioni storico-politiche mettevano già in conto tutto questo. Il problema, in questi casi, è rappresentato solamente dai tempi, non dalla conclusione dei fatti; e gli scenari, di conseguenza, vengono studiati con grande anticipo, come successe in quel caso.

Prima della crisi del Golfo del 1990, negli Stati Uniti era in corso un grosso conflitto politico sui tagli alle spese militari, come riferì il 12 febbraio del 1990 il Washington Post:

“Il Governo e il Congresso sono pronti alla più aspra e dura battaglia sul bilancio della Difesa nella storia recente”.

Questo dato, collegato a una dichiarazione del direttore della CIA di fronte alla Armed Forces Committee del Senato del 23 gennaio 1990, forma il quadro che individuò nell’Iraq il nuovo nemico da combattere. Webster dichiarò ormai riconosciuto il fatto che gli Stati Uniti erano sempre più dipendenti dal petrolio del Medio Oriente, non tanto per l’approvvigionamento (comunque importante), quanto per l’importanza politico-strategica.

Alla luce della nuova situazione e forte della popolarità del presidente Bush, in seguito al riuscito blitz di Panama, il generale Schwarzkopf descrisse i possibili scenari in seguito a un intervento militare nell’area del Golfo Persico. Siamo nel febbraio del 1990, cinque mesi prima dell’invasione irachena del Kuwait. Schwarzkpof non fece altro che rimaneggiare il Piano Bellico 1002 del CENTCOM, un piano militare stilato all’inizio degli anni ’80 dall’amministrazione Reagan e che vedeva come protagonista e avversaria l’Unione Sovietica. Il Piano Bellico 1002 fu integrato con un cambio di numerazione (1990) e l’Unione Sovietica sostituita dall’Iraq.

Spiace dover interrompere per citare le fonti, ma in questo caso è necessario. Le dichiarazioni del generale Schwarzkpof davanti alla Armed Forces Committee del Senato, sono datate 8 febbraio 1990 (titolo del rapporto: “Threat Assessment, Military Strategy, Operational Requirements”). Il piano prevedeva la copertura mediante una serie di basi dell’Intelligence da impiantare in Arabia Saudita. La prima simulazione si tenne nel gennaio del 1990, mentre uno studio della Georgetown University preconizzò e completò uno scenario bellico USA-Iraq durato due anni. Questo studio sembra uno sguardo al futuro e merita un attimo di approfondimento con la citazione letterale di Ahmed.

“Lo studio esaminava il futuro della guerra convenzionale e concludeva che la guerra che aveva maggiori probabilità di verificarsi e avrebbe reso necessario l’intervento militare USA, sarebbe stata tra l’Iraq e il Kuwait o l’Arabia Saudita. Lo studio ebbe un’ampia circolazione fra ufficiali del Pentagono, membri del Congresso e imprenditori bellici”.

Dettagli della strategia apparvero in un articolo del Los Angeles Times del 5 agosto 1990 (3 giorni dopo l’invasione del Kuwait) e in uno studio del professore di Diritto Internazionale Francis Boyle, componente della commissione internazionale d’inchiesta che indagò sui crimini commessi durante la Guerra del Golfo, presieduta dall’ex segretario alla Giustizia USA Ramsey Clark. L’invio di armi, equipaggiamenti e scorte in Arabia Saudita, cominciò nel gennaio del 1990, sei mesi prima dell’invasione irachena del Kuwait.

KUWAIT VERSUS SADDAM, SADDAM VERSUS KUWAIT

Perchè Saddam Hussein decise d’invadere il Kuwait?
Il motivo ufficiale iracheno: il Kuwait era una provincia dell’Iraq prima dell’invasione ottomana e dopo l’indipendenza dell’Iraq del 1932, diventò un protettorato inglese, sino all'indipendenza del 1961. Saddam Hussein pretendeva la restituzione del territorio, come altri suoi predecessori. Dopo la verità propagandistica, vediamo la realtà dei fatti.

I motivi principali sono quattro, un paio dei quali collegati intimamente tra loro.

Secondo Saddam Hussein, durante la guerra Iran-Iraq il Kuwait avrebbe trafugato milioni di barili di petrolio dal pozzo di Rumaila, vicinissimo al confine Iraq-Kuwait. La sofisticatissima tecnologia a trivella inclinata, necessaria al furto, sarebbe stata fornita dagli Stati Uniti.

Il Kuwait, durante il conflitto Iran-Iraq, avrebbe costruito diverse strutture, alcune delle quali militari, in territorio iracheno.

Le due questioni più importanti, collegate tra loro.

Dopo la guerra Iran-Iraq, il paese di Saddam Hussein era in ginocchio e aveva assoluto bisogno di denaro liquido per rimettere in sesto lo stato e le infrastrutture e per pagare gli ingentissimi debiti contratti. Il Kuwait formò un cartello con gli Emirati Arabi Uniti e contravvenendo alle decisioni dell’OPEC, aumentò la produzione di petrolio, facendone crollare il prezzo. La situazione dell’Iraq si fece drammatica, in special modo nel momento in cui lo stesso Kuwait pretese immediatamente il pagamento del prestito elargito al salvatore dal fondamentalismo islamico durante la guerra con l’Iran.

I due ultimi punti furono oggetto di una lunga contesa tra i due paesi, iniziata esattamente il giorno dopo la conclusione della guerra Iran-Iraq, l’8 agosto 1988: quel giorno il Kuwait decise unilateralmente l’aumento della produzione di petrolio, facendo crollare il prezzo da ventuno a undici dollari al barile e provocando un disavanzo annuo all’Iraq, visto in prospettiva, di quattordici miliardi di dollari l’anno. Nel marzo successivo, il Kuwait chiese all’OPEC un nuovo aumento del 50 per cento e nonostante il rifiuto dell’organizzazione dei paesi produttori di petrolio, così fece.

Nello stesso tempo, il Kuwait chiese all’Iraq la restituzione dei trenta miliardi di dollari prestati durante il conflitto con l’Iran; era proprio la condotta di politica petrolifera del Kuwait a rendere la richiesta impossibile da onorare, posto che Saddam Hussein volesse veramente farlo.

Potrà sembrare incredibile, ma forse non tanto alla luce dei fatti e della condizione del proprio paese, ma Saddam Hussein tentò di risolvere la questione diplomaticamente. Un funzionario dell’amministrazione Bush, citato in un articolo di Newsday del 21 gennaio 1991, riferì in questi termini il conflitto diplomatico tra i due paesi:

“Il Kuwait era in sovrapproduzione e quando vennero gli iracheni a dire: ‘Non potete fare qualcosa in questo senso?’, i kuwaitiani risposero: ‘Sono fatti vostri’. E non lo dissero nemmeno con garbo. Furono orribili, furono stupidi, furono arroganti. Furono tremendi”.

Un amico e alleato occidentale come re Hussein di Giordania, riferì al San Francisco Chronicle del 13 marzo 1991, che trovava sorprendente la reazione kuwaitiana:

“Saddam Hussein mi disse quanto era ansioso di assicurarsi che la situazione si risolvesse il più presto possibile […]. Era nell’interesse dei kuwaitiani risolvere il problema”.

Chi legge non deve prendere queste notizie come una beatificazione di Saddam Hussein, tutt’altro. Il dittatore iracheno (e soprattutto, tutto il suo paese), usciva da una devastante guerra durata otto anni e un altro conflitto era l’ultima prospettiva da considerare, a meno che…

…a meno che l’appoggio dell’occidente, che non era mai mancato negli ultimi otto anni, non aiutasse l’Iraq in una questione territoriale ed economica di difficilissima soluzione. Molti osservatori internazionali e alcuni protagonisti della politica mondiale, notarono nell’atteggiamento irrazionale del Kuwait la presenza di una potenza ben maggiore, con l’appoggio di alleati occidentali e arabi. Non è un’ipotesi campata in aria: la confermano molti dati, fatti e dichiarazioni, nonché un’inchiesta condotta dall’ex segretario alla Giustizia statunitense Ramsey Clark. È forse difficile credere alle pressioni statunitensi e di concerto inglesi ed egiziane, indirizzate al mantenimento e all’inasprimento della linea kuwaitiana verso l’Iraq, ma l’ultimo avvenimento, prima dell’attacco iracheno al Kuwait, è la classica ciliegina sulla torta che non può che confermare lo scenario da Risiko di quell’angolo di Medio Oriente.

“SONO AFFARI VOSTRI”

È ipotizzabile che gli Stati Uniti abbiano spinto l’Iraq sull’orlo della disfatta economica, per costringerlo a fare la mossa che avrebbe permesso un’intervento diretto nell’area del Golfo Persico? Ho già tracciato lo scenario ricostruito da Nafeez Mosaddeq Ahmed tramite documenti ufficiali e dichiarazioni. A corroborare la teoria manca un tassello, tra l’altro abbastanza noto per essere stato usato in un’occasione ufficiale di non poco conto.

La campagna elettorale per le presidenziali statunitensi del 1992, vide di fronte il presidente in carica George Bush padre, Bill Clinton e il terzo incomodo, il miliardario Ross Perot. Proprio quest’ultimo, in occasione di un faccia a faccia con George Bush, svelò uno dei retroscena della Guerra del Golfo e chiese spiegazioni direttamente al presidente, il quale non seppe fare altro che rivendicare l’onore nazionale e considerare assurda la domanda.

Abbiamo già visto che i preparativi statunitensi per l’intervento nel Golfo erano in corso da mesi, prima di quel fatidico 2 agosto 1990, data dell’invasione irachena al Kuwait. L’aggressione era nell’aria, tanto che funzionari e ministri kuwaitiani continuavano a manifestare la loro tranquillità, sentendosi protetti dall’ala militare degli Stati Uniti, come dichiarò il ministro degli esteri del Kuwait, fratello dell’emiro capo del governo:

“Noi non risponderemo all’Iraq [sulla questione dei debiti e sulla sovrapproduzione di petrolio]. Se non gli va bene così, che occupino pure il nostro
territorio, noi faremo entrare gli americani”.
[dichiarazioni riportate dal Los Angeles Times il 5 agosto 1990]

Lo stesso emiro capo del governo diede ordine alle forze armate del Kuwait di contenere l’esercito di Saddam Hussein per almeno ventiquattr’ore in caso d’invasione: poi ci avrebbero pensato Stati Uniti e alleati. Saddam Hussein, all’oscuro di tutto questo, contattò l’ambasciatrice statunitense a Baghdad, April Glaspie e la informò della sua intenzione d’invadere il Kuwait (ultimi giorni di luglio 1990). Questa fu la risposta dell’ambasciatrice:

“Abbiamo studiato la storia a scuola. Ci hanno insegnato a dire: libertà o morte. Credo che lei sappia bene che noi abbiamo fatto esperienza del colonialismo. Non abbiamo alcuna opinione sui confini interarabi, come la sua controversia di confine con il Kuwait. Il Segretario di Stato James Baker ha disposto che i nostri portavoce ufficiali sottolineino questa direttiva”.

In pratica, April Glaspie ha risposto, come da direttive superiori, che agli Stati Uniti non interessano in alcun modo gli affari interni interarabi e di conseguenza, il loro cucciolotto Saddam si è sentito legittimato all’invasione. Ripeto, senza voler essere irrispettoso nei confronti della vostra attenzione durante la lettura, che questa notizia venne usata in campagna elettorale da Ross Perot in un faccia a faccia con il presidente Bush, il quale non seppe in alcun modo rispondere e il motivo non può che essere uno: la notizia è vera. Quale candidato alla presidenza dello stato più potente del mondo e presidente in carica, lascerebbe passare una menzogna di tal fattezza senza ribattere e sbugiardare un rivale pericoloso? Ricordo anche che Ross Perot, da assoluto outsider quale era, ritiratosi dapprima dalla corsa presidenziale e poi tornato nell’agone, totalizzò un risultato sorprendente per un indipendente (18.9%).

Il dialogo tra l’ambasciatrice Glaspie e Saddam Hussein fu oggetto anche delle indagini di un ex funzionario della CIA, John Stockwell, in seguito fondatore di Peaceways e dell’Association for Responsable Dissent, un’associazione di ex-funzionari della CIA e del governo statunitense critici verso le attività del servizio segreto. Stockwell lavorò per tredici anni nel servizio segreto e agendo in Angola e in Vietnam si meritò la Medaglia al Merito della CIA nel 1973.

Stockwell rivelò che l’ambasciatrice Glaspie, che non sapeva di essere registrata durante il suo incontro con Saddam Hussein, ripetè per dieci volte che gli Stati Uniti non avevano accordi difensivi con il Kuwait e che queste direttive le erano state ripetute non solo dal Segretario di Stato Baker, ma dal presidente Bush in persona.

La vicenda ebbe anche una conferma ufficiale, forse involontaria, quando il deputato Lee Hamilton, membro della Commissione per le Relazioni Internazionali del Congresso, al termine di un’udienza, pronunciò queste parole:

“Siamo stati noi a dare a Saddam Hussein il via libera per invadere il Kuwait”.

Il Sottosegretario di Stato John Kelly riferì al Congresso, il 31 luglio 1990 (notare la data: l’invasione del Kuwait è del 2 agosto 1990):

“Non c’è nessuna relazione vincolata da trattati che ci leghi ad alcun paese del Golfo. Questo è chiaro […]. Storicamente abbiamo sempre evitato di prendere posizione sulle dispute di confine o sulle deliberazioni interne dell’OPEC”.
[udienza della sottocommissione per l’Europa e il Medio Oriente del Comitato per gli Affari Esteri della Camera degli Stati Uniti, 31 luglio 1990].

Per dare un altro contributo sul clima che circondava all’epoca le relazioni tra Stati Uniti e Iraq, voglio ricordare un tragico episodio che vide protagonista un giornalista inglese dell’Observer, impiccato dal regime di Saddam Hussein poco prima dell’invasione del Kuwait. Per placare le solite voci disfattiste dei pacifisti e degli attivisti per i diritti umani, un gruppo di senatori statunitensi si recò direttamente a Baghdad per rassicurare il dittatore in questo modo, con le parole del senatore Alan Simpson:

“La democrazia è una questione molto confusa. Ritengo che i suoi problemi dipendano dai media occidentali e non dal governo degli Stati Uniti”.

Un altro senatore in gita mesopotamica, Howard Metzenbaum, sbavò queste parole:

“Sono stato seduto qui ad ascoltarla per circa un’ora e adesso mi rendo conto che lei è un uomo forte e intelligente e che vuole la pace”.

Qualche giorno di pazienza e l’uomo forte e intelligente che vuole la pace, si sarebbe trasformato nel pericolo pubblico mondiale numero uno, con buona pace di chi ha sempre pensato (e magari subìto) che Saddam Hussein fosse un criminale macellaio e genocida. Il copyright di quel pensiero, ovviamente, diventò preda dei veri difensori della libertà.

PERCHÉ?

Da quanto sopra riportato, è chiaro e lampante che le manovre degli Stati Uniti miravano a destabilizzare ancor di più l’Iraq e a destituire Saddam Hussein, obiettivo raggiunto il primo, fallito il secondo. Perché l’azione della prima Guerra del Golfo non fu portata fino in fondo? La risposta è stata sotto gli occhi di tutti a partire dalla seconda guerra del Golfo, proprio la situazione che gli Stati Uniti volevano evitare con la guerra del 1991.

Il quesito più importante: perché eliminare un alleato fedele come Saddam Hussein? Per lo stesso motivo per cui furono eliminati precedentemente Mosaddeq in Iran e Passim in Iraq: una pericolosa propensione all’autonomismo nazionalista, insita chiaramente nell’ideologia del partito di Saddam Hussein, il Ba’ath. La sua semplice eliminazione, però, costituiva un problema di non semplice soluzione. La speranza statunitense si basava su un possibile colpo di stato militare che mantenesse una certa stabilità nel paese, eliminasse un pericolo come Saddam Hussein e nello stesso tempo, non desse alcuna possibilità di rivolta agli sciiti del sud – intimamente legati agli sciiti dell’Iran fondamentalista - e ai curdi del nord.

Chi ha seguito attentamente le vicende belliche della seconda guerra del Golfo, ricorderà le voci insistenti che circolavano all’inizio del conflitto su possibili contatti tra le forze armate statunitensi e alcuni pezzi grossi dell’entourage di Saddam Hussein. In parole povere: eliminare Saddam Hussein, trovare un fantoccio da mettere al suo posto, senza grilli per la testa e mettere mano alla ricostruzione dell’Iraq devastato da dodici anni di embargo.

Come già scritto in precedenza, da qualunque recondito calcolo nascesse, l’intenzione di Saddam Hussein era quella di evitare l’invasione del Kuwait e di giungere a un accordo. Ciò è provato dai tentativi di negoziato proposti, tentativi che ebbero ben poco spazio sulla stampa occidentale.

La prima proposta irachena, datata 23 agosto 1990, tre settimane dopo l’invasione, fu semplicemente ignorata dall’amministrazione Bush e in un primo tempo addirittura negata, salvo tarda ritrattazione (come riportato da Newsweek il 10 novembre 1990). Un’altra proposta fu inoltrata nell’ottobre del 1990 senza esito, sino all’ultimo tentativo di resa e di ritiro condizionato.

Era il 2 gennaio 1991: l’Iraq si dichiarò disposto al ritiro delle truppe dal Kuwait in cambio dell’assicurazione che l’esercito internazionale non avrebbe attaccato i soldati iracheni, del ritiro delle truppe occidentali dalla zona del Golfo, della soluzione del conflitto palestinese e della messa al bando delle armi di distruzione di massa dalla regione. Condizioni inaccettabili per molti versi, proprio a partire dalla personalità deviata del dittatore iracheno, a quel tempo ancora una specie di eroe nella propria convinzione personale, specialmente dopo la recente vittoria nella guerra contro l’Iran. La proposta di eliminare le armi di distruzione di massa dalla regione, sembra quasi un tentativo di autonomina a gendarme della regione del Golfo al soldo dell’Occidente. La situazione palestinese, per di più, difficilmente può trovare una soluzione affidata ai diktat. L’avvio di negoziati, comunque, avrebbe intanto evitato la guerra, come dichiarato da importanti osservatori della questione mediorientale, anche in seno al Dipartimento di Stato USA.

Il quasi totale silenzio dei mass-media sulla proposta irachena, dimostra che l’apparato propagandistico messosi in moto per la guerra che si sarebbe scatenata di lì a pochi giorni, funzionava già perfettamente. La situazione bellica futura, che può spiegare l’assoluta intransigenza degli Stati Uniti, venne così commentata dall’autorevole Washington Post il 10 agosto 1990:

“Meno di anno dopo che i cambiamenti politici nell’Europa dell’est e nell’Unione Sovietica hanno fatto vacillare l’industria bellica sotto la minaccia di tagli drastici, addetti e analisti dicono che la crisi del Golfo Persico ha fornito alle aziende militari un esile filo di speranza [...]. I possibili beneficiari della crisi comprendono l’intero spettro dell’industria militare”.

Uno scenario generale – mantenimento delle truppe nel Golfo e destituzione di Saddam Hussein - confermato dalle dichiarazioni di uno stratega dell’aviazione statunitense, riportate dal Washington Post il 23 gennaio 1991, ad attacco già sferrato:

“In soldoni volevamo che la gente capisse questo: sbarazzatevi di lui e noi saremo più che lieti di aiutarvi nella ricostruzione. Non tollereremo Saddam Hussein e il suo regime. Sistemate lui e noi vi sistemiamo l’elettricità”.

L’invito non era rivolto a chiunque si fosse ribellato: le rivolte degli sciiti al sud e dei curdi al nord furono debellate da Saddam Hussein a guerra finita e senza interventi da parte occidentale, proprio perché non era quella la soluzione ottimale. Addirittura, come riferito dal senatore Peter Galbraith al senato statunitense, l’esercito iracheno si mosse contro i ribelli solo quando non ebbe
“chiare indicazioni che gli Stati Uniti non volevano il successo della rivolta popolare”.

Ciò che successe nel sud sciita e nel nord curdo, è solo una delle pagine vergognose di quella guerra, senza distinzione alcuna tra i fronti.
La guerra del 1991, l’embargo, le crisi con gli ispettori dell’ONU, i raid aerei statunitensi che si sono ripetuti molte volte nei dodici anni tra le due guerre, il terrorismo e infine il secondo conflitto, meriterebbero altre lunghe trattazioni.
Inviato il: 9/6/2015 21:49
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