DJANGO

Inviato da  Calvero il 19/1/2013 13:18:54
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Il fatto che un commento a questo film si possa spostare su vari piani precisi, fa sì che acquisti una dimensione particolarissima nello scenario artistico cinematografico. Principalmente sul piano morale, dove l'inserimento di una cosiddetta causa, una "rivendicazione", gioca le sue carte innovativamente. E non c'è solo questo, of course: - un film assolutamente non riuscito che riesce a lasciare il segno. Da dove le debolezze sono - come nei controluce - necessarie a identificare il profilo dei pregi, è possibile snodare una critica articolata.

Ma andiamo, con disordine, da - DJANGO



Come è stato fatto notare nelle recensioni, Tarantino per la prima volta "costretto" dai suoi medesimi intenti a giocare il suo soggetto negli scenari di ampio respiro, negli spazi aperti della natura, proprio quelli che lo hanno fatto innamorare, proprio quelli che hanno fatto da teatro epico e immaginifico (nonché simbolico) ai films del suo più illustre "mentore" (Leone) ... ecco che cade come un fico secco e ci piazza una figura di merda indelebile; anche un cinico del cinema fatto con gli stampini come Michael Bay sarebbe riuscito (se pur retoricamente) a dare più forza alle inquadrature, all'immersione in un mondo intriso della poetica degli orizzonti e di quel che di selvaggiamente e potente trasmetteva quella Natura. Qui Tarantino si perde, come non avesse punti di riferimento e rimane algido, spiazzato, distaccato, non coinvolto e non coinvolge; e cerca di riempire queste lacune con "inquadrature cartolina" che se pur sanno meravigliare non sono Vive ... e vanno a crogiolarsi senza efficacia in ordine alle potenzialità che l'opera aveva. Cioè in quelle che semplicisticamente vengono dette cadute di Stile.



In realtà più che "cadute di Stile" si tratta di dirci quello che manca oggi a chi si vuole avvicinare alla forza del Cinema di un passato degno di gloria. Certo, un passato pieno anche di classicismi nauseabondi (anche schifosamente propagandistici) ma che comunque avevano un Pathos e una personalità tuttora insuperata. Avevano registi e autori che sotto avevano le Palle quadrate e amavano la fanciullezza della Vita prima ancora della cinepresa. Ed è per questo che con Leone si potevano guardare le rocce della Monument Valley come fossero una poesia di Giacomo Leopardi; l'arrivo di un Treno che sbuffa, i suoi rumori, come fosse l'arrivo del nostro stesso destino; respirare emozioni di una cavalcata di John Wayne come se stessimo attraversando le galassie nelle notti stellate, quelle più buie, quelle che più ci dicono del nostro bisogno di Luce.

Tarantino indebolisce lui stesso buona parte delle potenzialità che questa sceneggiatura aveva nelle vene. Proprio dove cerca di innovare, cappella sbagliando dove è solito non sbagliare: nelle musiche. Non sbaglia certo come sbaglia la maggior parte della merda filmica che gira in giro, lì dove le musiche cercano di accondiscendere allo spettatore prendendolo ipocritamente e anti-artisticamente per manina come fosse un cerebro-leso; sbaglia perché non hanno la forza di fare da contraltare come ha saputo infondere in altri film. Non che si debba essere puristi per non apprezzarlo (sia mai, almeno per me) l'idea di mettere "Hip-Pop negro" in un western ci può stare; a me piaceva ad esempio, ma è proprio che la cosa non è riuscita a ingranare nel suo complesso e invece di spiazzare o al limite a portarti in un altra dimensione fosse pure anacronistica, in realtà sfasa e sa di pacchiano.

E visto che parliamo di cose pacchiane, a rincarare la dose (e questa volta Tarantino non ha colpe) c'è il nostro benamato doppiaggio italiota che, tranne per Di Caprio e Waltz, è LAMMERDA.. su tutti Don Jhonson .. e lì dove è eseguito professionalmente allora bisogna confrontarsi con i soliti doppiatori che si masturbano sulla loro stessa voce e divengono loro stessi personaggi sopra il personaggio stesso. Che Dio li fulmini. Lo dico sul serio e con tutto il cuore. Cazzo! avevo appena finito di godere di uno tra i migliori doppiaggi della Storia di uno dei migliori film della storia del Cinema con THE MASTER .. dove il figlio di Giannini ha lasciato la prova SUPERLATIVA di cosa significhi doppiare. Nello specifico Joaquin Phoenix.



Gli esercizi di stile però cominciano a prendere forza e a vivere di vita propria. La Regia comincia a decollare nei piani stretti e convulsi dei personaggi. Le dinamiche psicologiche sono tirate sul filo del rasoio e qui Tarantino dove potrebbe sedersi sugli allori di una sua peculiarità indubbia, invece porta una nuova suggestiva dimensione morale all'opera che sinora era solo stata retoricamente dipinta per Inglorius Basterds; oppure soffusa in quel "thriller" innovativo (tuttora sottovalutato per questo aspetto), che è stato Death Proof. Qui Tarantino, e credo l'abbia fatto con tutto il cuore, sposa la causa dei negri d'America e gli concede la sua visione fumettistica. E in questo, non se ne abbia a male nessuno, ha lasciato un segno indelebile e fortemente ancestrale. Non ce n'è per nessuno. Che, a ben guardare, si mangerebbe in un sol boccone tutte le stereotipate e strappapalle orge propagandistiche in salsa grigio/rosa di Spielberg e i suoi compagni di merende, che sanno sfruttare i sentimenti ma non sanno veramente colpire al Cuore. Perché Django di cuore ne ha.

Sono molti i momenti in cui si rimane moralmente (finanche eticamente) spiazzati e forse indignati dalla rappresentazione di sequenze violente. Ma è solo al termine del film e dopo qualche giorno di ruminazione che si coglie quella che in fondo è la tragicità del degrado umano spostata su piani stilistici atipici. La sceneggiatura non fa sconti ai cosiddetti Negri, va detto: Tarantino non pone lo "spettacolo" umano in un gioco psicologico manicheo ... anzi, le ombre spietate dello spirito si rivelano anche dalla gente di colore. Sì a indicare come l'odio trasformi i defraudati ma anche come l'odio non ha colore. Proprio come i soldi.

Già, i soldi. Anche qui Tarantino si pone in una morale spietata dove i soldi divengono metafora di forza maggiore in molteplici aspetti, tale da ribaltare il senso di squallore e potere di cui sono portatori, e riguardanti la catarsi che attende al varco i nostri "eroi". Per quanto sulla falsa riga della simpatia/antipatia del Cacciatore di ebrei (con un senso di deja vu pilotato appositamente) comunque non ci si può non innamorare alla fine del - per la seconda volta - personaggio cacciatore di taglie tedesco, qui ribaltato nei moventi e in un gioco di matrioske Tarantiniane meta-cinematografiche concettualmente ineccepibili.

La fotografia del film è costantemente di alto livello. Magistralmente sposa le intenzioni filosofiche dell'opera che comunque si pone sopra le righe. Indi può infastidire giustificatamente, ma in realtà si tratta di accettare o meno il Plot fumettistico che fa di Django sia quel personaggio di colore drammaticamente inserito in un contesto storico, sia quel Vendicatore solitario di Bonelliana memoria. Prendere o lasciare.

Di Caprio e Waltz sopra tutti. Punto. Grandioso certo Samuel L. Jackson ... ma più che altro è il suo personaggio ad affascinarci più che la sua prova d'attore. Di Caprio, forse ancora troppo giovanile per la parte, in realtà cade stretto dentro i vestiti di Mister Candie però quando decolla decolla, non ci son cazzi ... si comprende che questo attore è in cerca di sfide con sé stesso e non sempre le trova. Waltz non sbaglia un colpo, ma è confinato nel suo Fisic Du Role.





Gli incastri di una partita di scacchi letteralmente spietata inanellano le vicende di buoni e cattivi senza la minima sbavatura. I momenti infantili giungono dall'immaturità di Tarantino nel cercare di voler raggiungere il Mito del Cinema che fu ... e non vi riesce proprio lì dove lo ricalca e lo ama, ma paradossalmente quando il cerchio della storia si stringe, la macchina da presa diventa invisibile e la mano leggera anche nelle situazioni più pesanti. Quasi in una Regia teatrale (con la "R" maiuscola) i momenti topici si districano in spazi ristrettissimi, tra le pareti claustrofobiche di un mondo barocco che in pochi momenti diviene quello di un incubo dipinto a festa.

Concettualmente Tarantino sovrappone i concetti della mitologia norrena e germanica del Sigfrido all'epopea dello schiavismo; ed è proprio il cacciatore di taglie tedesco a fare da ponte tra i nostri due continenti. E sarà proprio lo sguardo di un tedesco in casa d'altri per certi versi disincantato, a cogliere la malvagità dell'uomo bianco e investire il suo "discepolo" di una forza ancestrale per concedergli la liberazione dell'anima.

Nonostante il cinismo e la violenza abbracciati da coloro che comunque sono schiavi letterali e schiavi indiretti di un Sistema senza Onore, può essere anche la forza di un "fumetto" a dirci delle ombre che ottenebrano i nostri cuori e gratificano le scorciatoie della prevaricazione.

Calvero

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